Capitolo 16

Se guardo dentro al tuo oblio
potevo finirci io.
L'ultima volta,  Emis Killa


Arrivati davanti casa sua il parcheggio condominiale è completamente vuoto, il fine settimana la maggior parte degli studenti emigra verso casa. Le vengono i brividi in mezzo alla totale desolazione, diventa di pietra e sento sfrecciare ogni paura nella sua testa. Mi domando solo perché.

«Tu non torni?» è la prima domanda che mi salta in mente, l'unica che può rompere questo ghiaccio, «Non questo fine settimana».

Le chiedo il perché e si nasconde dietro i suoi bisogni di studiare, di evadere e di ritrovarsi in due metri quadrati di stanza. Poi si porta una mano al braccio e stringe, si sta proteggendo da qualcosa ma attorno a noi neanche il vento riesce a creare rumore.

Sento un muro altissimo costruirsi velocemente attorno a lei. La sua espressione, i suoi occhi puntati sulle mie mani e frettolosi su ogni mio movimento. I suoi respiri pesanti e le sue mani strette a pugno. Come può questo niente rendere una persona così fragile?

Assorbo la sua paura e indietreggio, mi tolgo il suo zaino dalle spalle. Anticipa la mia mossa «Ti va di entrare?» e mi spiazza.

Le sorrido e mi fa strada, fatica a centrare la chiave del portone principale. La sento agitata, come se ogni azione la portasse dentro una situazione ancora più pericolosa della precedente. Mi fa strada verso il secondo piano, mentre gira la chiave la porta dietro di noi si apre. Una voce maschile la chiama, e lei si volta di scatto. Il suo vicino di casa, un ragazzo poco più alto di lei, le chiede della sua giornata e la invita a passare la serata insieme. Lei non ci pensa due volte, e gli lascia un sorriso.

Entrati dentro fa un sospiro di sollievo, felice che qualcuno sappia la nostra presenza nel suo appartamento. Non è più tesa, riprende la sua forma naturale e comincia a trotterellare per la stanza. La sua calma fa uscire il mio lato affabile, «Allora?» le chiedo, la mia voce è calma. Lei all'inizio è stranita, poi le faccio cenno verso la porta accanto. Si mette a ridere, «Ti piace il mio vicino di casa? Non rientri nei suoi standard mi sa» colgo la sua ironia, «E tu?» non mi darà mai una risposta concreta, e io mi sento geloso come se mi toccassero la mia cosa più cara.

Si avvicina lentamente verso di me e mi guarda dritto negli occhi, «E io nei tuoi?» la risposta è un lungo e interminabile silenzio, coperto da un suo sorriso enorme e dal mio cuore che rischia di morirmi nel petto d'infarto.

Mi chiede due minuti di tregua mentre si sistema in camera. Io mi guardo intorno, e mi posiziono sul divano. Compio un gesto infantile, prendo il cellulare e scrivo a mia madre di non aspettarmi per pranzo. Distante di pochi metri da quella ragazzina divento un'altra persona. La risposta di mia madre è immediata e mi lascia incredulo:

Grazie tesoro per avermi avvisata

Il cellulare è l'unica cosa che mio padre non le controlla.

Sento il soffitto scricchiolare, tanti passi che si muovono sopra di me. Sopra la mia vita barcollante, la mia odissea senza fine. Sento il rumore dell'acqua che scorre, mi fermo dentro di me, posso sentire il sangue roseo misto a quell'acqua di una ragazzina frettolosa di togliere via ogni imperfezione e segno di stanchezza.

Sopra di me qualcuno si sposta per la stanza e cammina scalza per la casa. Posso sentire i suoi piedi freddi sulla pianta dei miei, posso assaporare la freschezza dei suoi piedi e il gelido che percorre la schiena.

Continua a camminare, i passi si moltiplicano e il rumore sopra di me è più forte. Non è solo.

Passi di sconosciuti che entrano nella mia testa, passi di gente che cammina insieme. Amara gente abitante di un mondo in fiamme.

Lei ritorna poco dopo, acqua e sapone con un leggings nero e una t-shirt che potrebbe contenerla almeno cinque volte che le copre un po' fin sopra le ginocchia. Odia essere guardata e odia sentirsi le sue forme addosso. Con un movimento rapido apre la finestra, alza un po' di più le serrande e la stanza viene investita dal sole più caldo di settembre.

«È una bella giornata» ripete più volte, è orgogliosa di questo sole come se fosse il suo dono più prezioso. È grata a Qualcuno per quel poco di bellezza che ancora esiste nel mondo.

Lei, nel mio di mondo, è l'unica cosa preziosa.

Mi tolgo la giacca, alla vista delle mie braccia completamente tatuate le scappa un wow di stupore dalle labbra. Mi chiede scusa, crede di essere invadente e dà la colpa alla sua impulsività prorompente.

Io la interrompo e le dico che non sono la meraviglia che crede. Si siede accanto a me,

«Quando li hai fatti?»
«Ho cominciato a 18 anni e non ho mai smesso».

Comincia ad osservarli attentamente, poi afferra il mio braccio destro, lo solleva per girarci attorno a 360 gradi. Si ferma sul nome di Ranny, abbasso di scatto il braccio,

«Fa male l'ago?» mi fa ridere pensare alla sua ingenuità, mi mette tristezza l'idea che lei ha di me che non esisterà mai,
«Mai quanto questa vita».

Mi tira dal braccio e mi alza, ci avvicina alla cucina e apre il frigo, comincia a fare l'elenco di tutto quello che c'è dentro e tutte le possibili combinazioni per poi concludere «In verità io so fare solo pasta in bianco».

Si siede sul piano della cucina e mi lascia campo libero, guardo e prendo il mio compagno fedele di avventure: il burro.

Si mette a ridere e comincia a prendermi in giro, dice che se dipendesse da noi potremmo morire di fame. Le racconto delle mie serate, passate sui muretti sempre con una pizzetta calda e una birra, di tutte le volte che dalla fame divoravo qualsiasi cosa mi passasse sotto gli occhi all'una di notte. Ometto che la fame era chimica, dettata dalle mie vene piene di roba.

«Anche a me capita a volte» si disarma da sola, poi ha paura e indietreggia, butta fuori una frase senza nesso logico per giustificarsi.
«Fa male?» la mia domanda le fa abbassare lo sguardo,
«Solo a tratti»
«Adesso?»
«Un po' di meno» e nel mentre si perde nei miei occhi.

Credevo che la felicità arrivasse domani, e poi domani, e domani, e poi questo domani è qui davanti ai miei occhi.

Mentre armeggio con la sua cucina mi osserva, sento i suoi occhi attaccati su ogni mio particolare, si fa spazio su ogni mio difetto. Mi sento sottopressione, analizzato come un topo da laboratorio. E se non vado bene come campione?

I segni dei buchi fuoriescono dai miei tatuaggi e si mostrano con vergogna ai suoi occhi. Lei mi sfiora delicatamente con l'indice e io divento di marmo, dentro di me mi sgretolo e faccio un rumore devastante.

Qual è la giustificazione più famosa di un ex tossico? Nessuno mi capiva, nessuno mi comprendeva, avevo tutto e volevo di più. Eppure io non avevo niente e volevo tutto e l'LSD mi ha dato solo il biglietto fuori dalla mia stessa vita.

«Alex...» non è un'espressione di domanda, non è stupore, è una chiamata, una mano nell'Eden,
«Sono la persona più sbagliata di questo mondo, Rose» non riesco ad alzare lo sguardo, vorrei scomparire, evaporare come quest'acqua in ebollizione. Non riesco a ricomporre i miei pezzi, continuo a frantumarmi e questa stanza minuscola non riuscirà a contenere il mio marciume.

Lei intreccia la mia mano alla sua e mi lascia un bacio sul palmo, l'altra mano la posa sul mio viso e mi costringe a guardarla,

«Sei molto più di tutto questo»
«Ranny mi ha fatto a pezzi»
«Tu sei dentro tutti quei pezzi»
«Non esistono più, sono volati via con lui»

Preme con forza sulla mia guancia, provo a non scompormi, a trattenere ogni lacrima che vorrei versare e far raccogliere dalle sue tenere mani.

Mi guarda con più forza, con più coraggio, «Sono incastrati tutti dentro ai tuoi occhi».

In mezzo a tutto questo caos, al mio niente, lei si incastra perfettamente. Si siede comoda e mette ordine. Non ha paura dei miei demoni, non si nasconde, si fa vedere con una forza che disarmerebbe anche il Diavolo.

Vorrei dirti tutte le mie paure, Rose. Elencartele e lasciartele in mezzo a questa stanza, vorrei liberarmi di tutti questi pesi che mi fanno affogare la notte, dedicarti tutte le parole buone che conosco. Vorrei posizionarmi al centro del tuo petto, sentirmi libero di farmi amare senza pregiudizi. Vorrei affogare queste mie mancanze nel tuo fare materno, nel tuo tocco immacolato sul mio cuore di pietra.

«Ti manca?»
«La mancanza è l'unica cosa che mi tiene in vita»
«Ci credi nel vuoto?»
«Sono solo questo vuoto»
«Io non ho paura a fare salti nel vuoto».

Nella stanza col mio analista ogni dolore prende forma, si solidifica e si posiziona al posto dei miei organi.
«Vi siete drogato ancora dopo Ranny?» come un dannato. Ero andato alla ricerca della roba più buona, me la ficcavo sotto ogni papilla gustativa. Sotto la lingua, tra i denti, su dal naso.
Si scioglieva dentro di me e colmava ogni mancanza.
Mi facevo delle botte assurde prima di dormire e speravo di non aprire gli occhi il giorno dopo. Volevo morire senza accorgermene, e alla fine sono morto cosciente di ogni mia mossa.

Alzarmi mi faceva ricordare che Ranny non esisteva più, che non c'era più un noi.

Quando incontri la morte all'inizio è una scoperta, non te ne capaciti, pensi sia un sogno, una realtà che non ti appartiene. Poi il tempo passa, e la morte continua a rimanere là, senza mai muoversi o mutare. Come un tarlo che non senti ma che mangia ogni cosa e alla fine ti ritrovi pieno di buchi.
La morte arriva serena per chi va via, per chi rimane è una condanna.
Ho fatto fatica nella vita ad accettare il flusso delle cose, non le ho mai digerite e mi sono sono fermate tutte in gola come un groppo enorme. Ho accettato quel peso, come qualcosa che trova il suo posto e tu non puoi spostarlo. Ho accettato la cosa sbagliata.
Dovevo accettare altro.
Dovevo accettare quella notte, quella morte, quella voglia di vivere che mi è stata portata via troppo presto.
Dovevo accettare gli anni lontano da casa mia, le lacrime di mia madre e mio padre assieme al suo essere una sagoma senza sentimenti.
Dovevo accettare il giudizio che i miei familiari avevano di me, smetterla di etichettarmi come un errore per gli altri.
Prendere i miei difetti, catalogarli e guardami allo specchio come se non potessi esistere senza quelli.

Senza rendermene conto sono un fiume in piena, ogni mia parole è coperta da singhiozzi assordanti. Sono in fuga da me stesso, voglio scappare e non ritrovarmi più.
Voglio sparire come il sereno che ha abbandonato il mio cielo da troppo tempo.

Il mio analista accanto a me, afferra la mia mano e mi abbandono.
In mezzo a questa testa, c'è la cura: la consapevolezza del mio dolore.
La consapevolezza di dover ricominciare senza Ranny, senza la mia via di fuga, senza il mio braccio destro, il mio Spadino.
La consapevolezza di dover abbandonare quel pezzo della mia vita che fa male, smaltire questo marcio.

«Mi fa male riuscire a vivere senza di lui. Mi fa male sapere che aveva ragione, che potevo farcela. Posso condannarmi perché riesco a vivere senza di lui?»

Ranny lo sapeva.
Se lui mi ha perdonato, perché non riesco a perdonare me stesso?

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