Capitolo 11

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Sono nato peccatore, l'opposto di un vincente.
Cresciuto sognatore, mia madre diceva sempre: "Dio paga tutti i giorni."
Ed io ancora oggi tengo bene a mente, solo il diavolo rispetta le scadenze.

— Izi, Casa (feat. Ensi)

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Mi sono fatto un sacco di domande, e mi sono dato il doppio delle risposte. La mia testa è una matassa difficile da sbrogliare, ogni volta che provo a trovare un capo, poi trovo un nodo, lo sciolgo, poi un altro nodo, e poi mi perdo. La perdizione è sempre stata il mio hobby preferito. Mi sono perso più volte nella vita, persino dentro la mia stessa stanza avrei potuto giocare a nascondino con me stesso. Non sono mai cambiato forse, ci sono cicatrici che ti porti addosso, e diventano dipendenza. Si aprono a comando per ricordarti da dove sei partito e da dove mai taglierai il traguardo.

Mi sento sempre in bilico, tra un sì e un no, un forse e un mai, un bianco e un nero, e alla fine rimango nel mezzo.

Questo continuo bisogno di dover trovare una linea che possa legare tutte queste domande, punti interrogativi crescono dentro di me e la confusione aumenta. I puntini si mettono in fila e attendono risposte che non ho. Pensavo di crescere, di maturare e di voler diventare sempre più grande, invece questa testa cresce e la confusione insieme a lei. Ho visto un sacco di cose nella vita, e non le ho mai riordinate dentro di me, hanno preso la loro forma, si sono messe nel posto più comodo e ora sento questi corpi estranei dentro di me che vogliono fuoriuscire da questa ferita. Ho provato a mettere un cerotto, ma non si è mai attaccato bene. La rimozione, la dimenticanza, cose che hanno fatto fare i soldi a Freud adesso a me fanno fare i peggiori incubi. A volte mi sono chiesto cos'era questo bisogno di spingermi oltre al limite, a quale cornicione mi sarei fermato prima di buttarmi giù? Eppure salgo, affanno, salgo, e non cado mai. Non mi butto mai.

Un afoso lunedì mattina è alle porte, la luce filtra dalla mia finestra e mi regala un altro giorno. Sembro quasi un cantante neomelodico, e vi assicuro che c'è sempre del melodramma qui dentro. Raramente programmo le mie giornate, non sono un tipo schematico, non metto mai in ordine la mia stanza e non riesco mai a cominciare una dieta di lunedì. Non riesco a navigare nell'ordine, e non ho mai sperato un domani migliore ma solo un domani. Quando le notti ti addormenti con la paura di aver sbagliato a tagliare una dose, il giorno dopo potersi strafare di nuovo è già un grande miracolo.

Decido di alzarmi e di dare un gusto diverso a questa giornata, mi precipito in bagno getto i vestiti in un angolo e apro l'acqua calda della doccia. Vorrei battezzarmi ed espiare ogni mio peccato, forse così potrei essere l'uomo giusto per Rose.

Apro l'armadio e metto la prima tuta Adidas che mi ritrovo davanti. Prendo il cellulare, e scendo in cucina. Sento rumore di piatti e tazze, e nessuna voce di mio padre a inaugurare la mia giornata. Trovo mia madre intenta a mettere a posto la tavola, tossico per annunciare la mia presenza, lei si volta di scatto e mi sorride.

Cala l'imbarazzo nella stanza mentre in modo goffo ci muoviamo per evitare di sfiorarci, o di poter fare il minimo sussurro, così da dover chiedere un semplice scusa. Supero il labirinto e raggiungo il frigo, afferro del latte e con la coda dell'occhio vedo mia madre poggiare sul tavolo un piccolo piattino con dentro un cornetto. Eccola mia madre, una donna di poche parole e di infiniti gesti. Una donna che da me non riceve mai una parola, un abbraccio o un bacio. Una povera donna che non ricorda nemmeno più il volto del figlio.

Mi sono sempre chiesto se dentro quegli occhi così simili ai miei lei avesse mai visto tutto il mio dolore, se poco poco quel dolore avesse bussato anche alla sua porta e adesso galleggia magari insieme al mio in due mari completamente diversi. Le madri in genere immaginano e sanno sempre tutto. E chissà perché mia madre non ha mai chiesto delle mie siringhe, delle uscite troppo frequenti o dei miei occhi spenti.

Sussurro un timido grazie, e lei annuisce. Mi siedo mentre lei dilata il suo tempo in cucina. Li sento i tuoi modi di fare, mamma, sento il tuo respiro un po' agitato e curioso di sapere perché tuo figlio oggi ti ha degnato una parola. Vedo i tuoi occhi che fanno zig-zag suoi miei movimenti, ma mai sui miei occhi. Anche tu hai paura del mio dolore, lo vedo ogni volta che ti allontani dai miei sguardi, così da poter vedere solo da lontano. Tu e la tua miopia avete messo un muro, e il mio dolore non ha mai potuto abbatterlo. Tu e la tua voglia di essere una madre perfetta sono state schematicamente uccise dalle mie siringhe conficcate nelle mie vene almeno una volta al mese, poi settimana, poi giorno, poi ore.

Vorrebbe dire qualcosa, ma ha paura di sbagliare domanda, di dire una parola di troppo e di farmi esplodere.

La vita ci ha regalato pochissimi momenti madre-figlio, così pochi da diventare inesistenti con gli anni. Ho trascorso con mia madre in un paesino lontano dalla mia casa la maggior parte della mia infanzia, e sì, anche da Ranny. Quando mia madre decise di metterci su un treno durante la notte per scappare da mio padre, è stata l'unica volta in cui decise di sedersi insieme a me dalla parte della ragione. Poi, col tempo, l'amore cieco ha vinto anche sull'amore per il proprio figlio. Ho vissuto per otto anni buoni con lei in una bettola di casa, una casa popolare in un quartiere malfamato. Mia madre si era ribellata al suo cognome da moglie, e io ne pagai tutte le conseguenze. Fu in quell'ambiente che conobbi i meccanismi della droga, ma non la droga, quella la comprai anni dopo in un buco di stazione. Lavorava almeno quattordici ore al giorno, le restanti le usava per dormire e prepararmi il pranzo e la cena per l'intera giornata. Ho mangiato pasta al burro, burro e pane, burro e qualsiasi altra cosa. Neanche in quei momenti avevamo dialoghi, le nostre conversazioni erano lunghi silenzi e le uniche cose che sapevo delle sue giornate erano le lacrime che versava prima di dormire.

Non ho mai rimpianto quel pezzo di vita, e la rifarei da capo. Avrei dovuto abbracciare più spesso mia madre, dirle che stavo bene, che gli uomini del piano di sotto che mi facevano compagnia non mi hanno mai tolto un capello e che le maestre mi mettevano comunque buoni voti, anche se ero un figlio di papà.

Avrei dovuto parlargli dei miei compagni di scuola che mi bullizzavano per il mio accento, per il mio naso troppo grande e lungo per star attaccato alla mia faccia. E avrei dovuto anche dirgli tutte le volte che ho pianto nascosto nello sgabuzzino vicino la cucina giurando a me stesso che niente di quello che provavo era reale. Quella paura, mamma, che tu non saresti più tornata da me, che una signora grande avrebbe bussato alla mia porta per dirmi che quei lampioni lungo la via non avevano mai funzionato e che qualcuno ti aveva lasciato sul bordo in fin di vita. La vergogna mi rigava il volto, quella di essere il figlio di uno sconosciuto, di un uomo che in una notte aveva dimenticato persino il mio nome. E poi, l'amara sconfitta di essere solo in uno sgabuzzino che odorava di muffa, di dolore andato a male e mai buttato. Quello fu il mio primo analista, la prima cassa del mio dolore e il primo contenitore delle mie lacrime. Sai, mamma, da lì ogni mostro sotto il letto non mi faceva più paura, perché con gli anni sono diventato io il mostro sotto il mio letto.

Ti ho protetta più volte, mamma, più di quanto tu stamattina possa pensare. Ti ho protetto da quelle mie lacrime, e magari non ho mai asciugato le tue, ma delle mie non hai mai assaggiato l'amaro. Te lo dovevo, per tutti gli straordinari fatti per comprarmi le merendine preferite o la torta al cioccolato per il mio compleanno. Il grembiule per la scuola, e dei pantaloni nuovi per non farmi sentire mai dietro gli altri, ma sempre un gradino più avanti. I libri nuovi, lo zaino, e poi quel maledetto burro.

Non ho mai chiesto il motivo di quel viaggio, ho sempre pensato che fu una parentesi durata fin troppo, una prova d'amore per mio padre. Lui arrivò in nostro soccorso anni dopo, bastò un semplice scusa per farci ritornare a casa. Mia madre diventò schiava di me e di mio padre, e di queste poche parole. Ed eccomi qui a mangiare un cornetto al burro, su un piatto d'argento che fra un'ora laverà una domestica di turno. Non sto sputando sul piatto in cui mangio, avrei sputato più volte la faccia di mio padre, fino a rendermi conto che sono una sua controfigura.

Tossisco, fingendo fastidio per la sfoglia di questo cornetto che dannazione si attacca sempre al mio palato, «Qual è stata la cosa più carina che ti fece papà quando eravate giovani?» non so come mi sia uscita questa domanda, avrei dovuto formularla meglio, comincio a farfugliare mentre lei si siede comodamente, davvero sto chiedendo consigli a mia madre?

Ci pensa un poco, guarda più volte il soffitto, poi si gira verso di me e mi fissa: eccolo il colore dei suoi occhi.

«Tuo padre non è mai stato un uomo di grandi sorprese in verità, e nemmeno di grandi corteggiamenti. Ci fu solo una volta, quando ebbe una vaga paura che il mio compagno di banco potesse provarci con me che si accorse di dover fare qualcosa. – si ferma, sorride più volte al ricordo e nei suoi occhi posso rivederla – Mi aspettò fuori dalla scuola con un enorme zucchero filato tra le mani e mi portò al luna-park vicino la scuola.»

Sorrido spontaneamente insieme a lei, «Ci sei cascata subito» la prendo in giro, «Niente altro? Un cinema, un pic-nic, o non so una passeggiata in montagna» insisto e il suo volto cambia espressione, ed eccola l'ondata «Sai, i tuoi nonni non mi accettarono subito. Poi volevano solo che lui cominciasse a lavorare nell'azienda di famiglia» divaga, dà la colpa a mio padre cresciuto troppo in fretta, «E io sono arrivato troppo presto» la batto sul tempo, e mi sconfiggo. Sussurra il mio nome e la guardo, le sue pupille velate da lacrime che non scenderanno mai.

Questo è il tuo momento mamma, adesso puoi dirmi quella frase e mettere a tacere la mia voglia di scomparire, dì che per te non sono mai stato un errore. Ti prego, mamma, non farmi sentire inutile.

Finisco il mio latte, e mi alzo. Prendo il portafoglio, le sigarette e le chiavi della macchina,

«Alex...»

«Non importa mamma, davvero.» non riesco a girarmi, non riesco a dirle altro. Che altro potrei dire?

I suoi occhi mi accompagnano mentre mi avvicino alla porta, «Tu sei meglio di lui» sussurra, «Ci vuole davvero poco per essere meglio di tutto questo, mamma» e le chiudo la porta in faccia.

***

Questo doveva essere un capitolo dedicato ad Alex e Rose, ma la mia ispirazione ha avuto la meglio ed è uscito ciò.
Non odiatemi, giuro che il prossimo capitolo sarà totalmente loro. La madre ha dato uno spunto e un piccolo spoiler ad Alex, ma seguirà mai un consiglio? Vedremo.
Capitolo lungo ma essenziale secondo me. Fatemi sapere!

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