Capitolo 1
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Io ti creo un altro mondo
lo sa anche il mio analista.
— Fabri Fibra, Bugiardo
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«Come è andato questo week-end?» il mio analista solleva il foglio e apre la penna, questo mi scrive le memorie e io glielo lascio fare. Io lo mando a quel paese e lui sorride, mi prende per il culo.
«Come tutti gli altri giorni della settimana» non mi apro mai a primo impatto, lascio che lui mi faccia navigare e poi schiantare, poi magari piango.
«Cosa è andato avanti?»
«Fondamentalmente solo i miei anni di merda».
Continua a scrivere e il rumore della penna che scorre mi pulsa nelle vene, adesso glielo dico che qui dentro non ci entro più. Adesso mi alzo e gli dico che può andare a farsi fottere, che non ho bisogno di lui.
Adesso mi alzo.
«La vita non è fatta per me» dico, e sono mesi che il pessimismo bussa a questa porta, incrocio le gambe e mi sento un malato. Aspetto solo la mia imbracatura per farmi rinchiudere al manicomio.
«Cosa te lo fa pensare?» mi domanda, con tono calmo e pacato.
«Non lo so» butto la mia indecisione e gliela lascio lì, tanto lui non risolverà mai questo cubo di Rubik, lasciamoglielo credere che sa fare il suo lavoro.
Mi tritura il dolore e se lo cucina per pranzo, mangia il dolore della gente e poi io sarei il pazzo.
«Ho ucciso mio cugino» è la terza volta che dico questa frase, «E un giorno forse mi ammazzo anche io» e aggiungo sempre anche questa.
«Non ti senti egoista a spendere via un dono così grande?»
«Che cazzo ne sa lei della mia vita?»
Mi sento Zeno il pupazzo di Svevo, adesso aspetto solo che questo coglione pubblichi le mie frustrazioni e poi tutti capiranno che ho una mente piena di merda, che la mia famiglia è una famiglia di peccatori e di atei della vita.
«Poi si preoccupa della mia vita e non di avere un criminale nello studio?» rido nervosamente, adesso chiama i carabinieri e getto una croce sul mio cognome pettinato.
«Io so che tu non hai uccido tuo cugino» dice – adesso mi alzo.
«Lo ripeti sempre e ti ammali di un crimine che non hai commesso.»
Eppure mi sento un delinquente, adesso glielo dico che non sa fare il suo lavoro. Adesso gli dico che voglio urlare e triturami la carne con le mie stesse mani.
«Cosa desideri ardentemente per avere una vita felice?»
«La morte».
Ho avuto per anni il peso addosso di un'assenza incolmabile, trasportavo fiero per il paese quel carico, volevo il Guinness di quel dolore, ma nemmeno una medaglia avrebbe consolato la freddezza di quella lapide.
Il mio umore è ad intermittenza, un giorno mi sento felice altre volte sono un cerino spento. Mi lascio bruciare dalle mie emozioni contrastanti tra loro e mi sento un diavolo. Una continua diatriba interiore che mi fa scorrere lacrime sul mio viso. L'unica bomba che ho buttato in quella stanza, l'unica speranza a cui mi sono aggrappato finché due occhi non mi hanno fatto cambiare idea. Ho riacceso il cerino dentro quei due occhi e poi non ho più avuto me stesso. Così succede, quando desideri qualcuno, quando ardentemente vuoi la carne. In realtà non lo so come succede, non so le regole e non volevo nemmeno impararle.
Il 21 Aprile dell'anno scorso ho sfiorato una presenza, mi sono conficcato dentro quella sagoma e l'ho inserita in mezzo a tanti ricordi.
Oggi col mio senno di poi ho deciso di etichettarla, di dare voce a quell'emozione forte.
Il 21 Aprile dell'anno scorso un terremoto mi ha stravolto.
Mia madre rimase incinta a 20 anni e all'epoca la mia famiglia dovette tappare uno scandolo simile. Prepararono in due mesi un matrimonio riparatore e io non fui un buon cerotto per questa ferita. Il sangue coagulò e straboccò come un fiume in piena e quell'abito bianco fu macchiato per sempre. Il mio carattere esuberante, ribelle, trovò terreno fertile e dovette fare i conti con la figura assente di mio padre, ma la mia pianta fu inevitabilmente sradicata dal divorzio dei miei 3 anni dopo. Mio padre era un donnaiolo, un affamato di donne, un uomo dalla cravatta sgualcita dalla segretaria ventenne, ma adesso so che voleva mia mamma. Mamma invece l'amava, Dio se l'amava. Mia madre gettò quella firma sul foglio, approvò la sua dignità e mise i suoi vestiti casti dentro una valigia. Presi i miei giocattoli e in piena notte mi ritrovai su un treno per Milano, senza sapere cosa avrei trovato sceso dal trabiccolo. Furono gli anni più devastanti della mia vita, quella firma aveva segnato la mia vita. Volevo mio padre morto, volevo asciugare le lacrime di mia madre. Quella notte dormì in stazione, mi addormentai con un bacio di mia madre.
Avrei regalato i peggiori dolori a quella donna, ma lei ancora non lo sapeva.
Avrei scavato quel viso stanco con le mie stesse unghie un giorno, avrebbe incassato le mie urla e quelle di mio padre.
Ricordo tre cose di quei due giorni: l'odore di bruciato e di sporco di quella prima casa, l'odore di mia madre e l'odore della sconfitta.
«Io esco» prendo le chiavi, infilo il cellulare dentro la tasca. «Dove vai?» la mia esuberanza continua a prepararsi davanti lo specchio del corridoio senza rispondere. Le urla arrivano dopo pochi secondi «Degnati di rispondere», «Esco, semplice. Non lo so dove vado ancora». Mia madre mi guarda e quel mutismo decide di buttarlo dentro i miei occhi, mi giro e chiudo la porta.
Vado in cerca di fortuna mi dico e la compro in un bar. Stavo cercando solo qualcuno, vorrei che qualcosa di me potesse attirare la sua attenzione. Magari stasera mi alzo e glielo dico, magari glielo dico che voglio il suo numero.
Vorrei che lei mi notasse così come io ho notato i suoi occhi. «Che si fa stasera? Quello che cerchiamo di fare ogni sera?» ride, la sua mano fa rumore sulla mia spalla e mi passa un bicchiere di un liquido azzurro, «Non penso venga» è la risposta che do ogni sera da una settimana, butto giù l'alcool e scuoto la testa. Avevo già perso in partenza. Daniel si siede vicino a me, e ascolta i miei sospiri. Mi conto i tatuaggi sul corpo per far passare il tempo, alzo gli occhi e non trovo niente. Il tavolo anche stasera è vuoto e nessuna cioccolata sazierà quella bocca. «Sono già le 10, che vuoi fare?», non riesco a rispondere mi sento sconfitto ancora prima di cominciare. Cosa mi aspettavo? Non avevo mosso dito, e mi muovevo dalla paranoia solo su una sedia di un bar. Afferro la giacca e faccio cenno di andare via, lascio la banconota sul bancone e saluto la barista. Andiamo al Circolo, ci sediamo sugli spalti e buttiamo via le ultime ore.
Nel letto compongo la solita canzone, mi corrodo il cuore e spengo il cervello con un solo pensiero fisso.
«Cosa cerchi?» la sua penna stride sul foglio e scava dentro di me. Mi sento il muro di Berlino pronto a crollare davanti a quella cravatta sgualcita.
«Avete mai perso?» giro la situazione, sorride, vorrei spaccargli la faccia.
«Certo, siamo umani commettiamo errori»
«Non parlo di errori, parlo di sconfitte. C'è una cosa dentro di voi che corrode? Che gela la mente? C'è una cosa che avete desiderato? Avete dei sentimenti del cazzo?» cosa mi tocca fare per essere ascoltato.
«E voi? Avete dei sentimenti?» eccoli i miei 50€ buttati all'aria anche oggi, solo per quella lama nel petto. Anche il Diavolo piange.
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