In equilibrio precario

Dalla finestra della camera dell'Hotel Baglioni che gli era stata assegnata il Maggiore poteva vedere in lontananza, parzialmente coperte dalle nuvole basse, le dolci alture dei colli bolognesi.

Nonostante si avvicinassero le undici la temperatura esterna non sembrava accennare ad aumentare, e lui avrebbe fatto meglio a chiudere la finestra, prima di prendersi un malanno.

Tuttavia, Otto, pur chiusi i vetri, non smise di fissare il panorama che quella vista gli offriva.

Finché faceva così, finché rimaneva ancorato al presente, stava bene.

Ma era alquanto facile perdersi: bastava un attimo, uno sguardo, un ricordo indesiderato che affiorava alla memoria, ed ecco che l'incubo si ripeteva.

Le colline lo aiutavano.

Non c'erano colline, in Polonia.

Almeno non che il Maggiore ricordasse.

In Polonia c'era solo una pianura eterna, sconfinata, che non sembrava mutare per quanti fossero i chilometri che la Wehrmacht macinava in avanti...l'impressione era di girare in tondo senza meta, come cani rabbiosi.

Si uccideva per continuare a vivere e si continuava a vivere con l'unico scopo di uccidere ancora.

I giorni non passavano mai, sfumavano in una vischiosa accozzaglia di violenza, morte, sangue e fango.

Gli ultimi due, in particolare, insozzavano la divisa, si incrostavano e non si riusciva a toglierseli di dosso.

Invece la violenza non era l'aspetto peggiore; a quella - così come alla morte, d'altronde -, ci si abituava in modo sorprendentemente rapido.

L'aspetto peggiore era la consapevolezza che, dopo essere sprofondati in un tale abisso, non sarebbe stato possibile né pensabile che qualcuno riuscisse ad uscirne incolume. Non era una cosa che fosse possibile scrollarsi di dosso così, con uno schiocco di dita.

Quello che aveva visto, quello che era stato costretto a fare - che aveva scelto, di fare - , non sarebbe mai più riuscito a toglierselo da di fronte gli occhi.

Che li avesse aperti, chiusi, che fosse sveglio o che dormisse, gli era impossibile dimenticare.

In fondo, forse, si trattava di una condanna meritata.

Otto afferrò la tazzina di caffè che era stata lasciata per lui appoggiata sulla scrivania, rovesciando in bocca il suo contenuto.

Il liquido caldo gli ustionò le pareti della gola e la lingua, riportandolo violentemente alla realtà.

Si sedette, avvicinò la sedia e fissò intensamente la carta da lettere che aveva predisposto poco prima, come se sperasse che quella iniziasse a scriversi da sola, per magia.

Mia carissima Eva,

Non era riuscito a continuare.

Se ci pensava, il Maggiore aveva talmente tanto da raccontare che gli era impossibile farlo.

E non solo perché sapeva come la corrispondenza venisse minuziosamenre controllata, e persino censurata, all'occorrenza: anche se gli fosse stato permesso scriverne, non avrebbe mai trovato parole adatte per descrivere tutti gli orrori che aveva visto, gli orrori a cui lui stesso aveva contribuito.

Sbuffando prese la lettera ancora praticamente intonsa e la accartocciò.

Quantomeno, al suo ritorno dalla Stazione Centrale, poco più di venti minuti prima, Künigl gli era sembrato contento del quadro che aveva scelto per lui.

<<Gran bella fattura!>> aveva commentato.

Otto aveva persino avuto l'impressione che fosse sul punto di battergli una mano sulla spalla, ma era ovvio che il Tenente Colonnello non si era spinto a tanto.

E poi gli aveva comunicato la "fantastica trovata" che gli era balenata in mente: inaugurare una vera e propria collaborazione tra loro e le SS.

Erano infatti venuti a conoscenza - grazie ad uno dei loro infiltrati - che un gruppo di GAP[1], appartenente alla 7a Brigata, preparava un attentato alla sede principale del potere dell'occupazione nazista, ovvero proprio l'Hotel Baglioni[2].

Le Schutzstaffel erano riuscite a catturare Folgore[3], uno di quei sovversivi, il cui vero nome era Marco Fontana.

Tuttavia, nonostante fosse ormai quasi una settimana che mettevano in atto i loro più efficaci metodi di persuasione, non erano riusciti a cavargli di bocca né un nome né tantomeno informazioni riguardo l'attentato che lui ed i compagni stavano progettando.

E così, dal momento che almeno per ora non sembrava possibile farlo parlare - Künigl si era premurato di specificare che ormai era più morto che vivo -, si era messo d'accordo con le SS per tentare un'altra via.

Due uomini - di più sarebbero stati sprecati - erano stati mandati a perquisire l'abitazione del signor Fontana ed a prelevare sua moglie, Emilia, per cercare di ottenere da lei le informazioni che il marito si ostinava a non voler fornire.

Otto non sapeva nulla di questa donna, a parte che si chiamava come la regione nella quale abitava, e soprattutto che era molto fortunata ad essere interrogata da loro e non dalle SS.

Otto terminò ciò che rimaneva del suo caffè, ad una temperatura già più accettabile, ricomponendosi.

La maggior parte degli ufficiali temeva i partigiani - e non a torto -, ma Schmid, per qualche motivo, non riusciva ad averne paura come avrebbe dovuto.

Ricordava un ragazzino, a Varsavia.

Più un bambino che un ragazzino, a dire il vero.

Gli ultimi difensori della città si erano arresi qualche giorno prima, forse uno o due, dopo una coraggiosa resistenza, perciò la Capitale era presa ed i combattimenti con l'esercito regolare polacco cessati.

C'era tuttavia da aspettarsi che i partigiani non si sarebbero per questo dati per vinti, ed anzi, che avrebbero intensificato la lotta.

Videro quel bambino mentre correva, veloce come un piccolo lampo, tra le rovine di alcuni grandi palazzi residenziali del centro, quasi completamente distrutti dai bombardamenti delle settimane precedenti.

Indossava dei pantaloni neri con le bretelle, una camicia bianca - che sarebbe stata bianca, se solo la sporcizia non l'avesse resa più tendente al grigiastro - e sulla testolina portava un basco.

Alcuni soldati l'avevano fermato, senza motivo, quasi per scherzo. Piccolo com'era, non poteva di certo rappresentare una minaccia.

Era chiaro che non capisse il tedesco, perciò gli avevano fatto intendere a gesti che doveva svuotare le tasche e mostrare loro il contenuto.

Gli occhi blu del bambino si erano spalancati, ma Otto immaginava dovesse rendersi conto di non avere scelta, così aveva fatto come gli veniva ordinato.

Schmid strinse la testa tra le mani imprecando sottovoce, poi sbatté gli occhi un paio di volte, infastidito dalla luce proviente dall'esterno e frustrato.

Spinse indietro la sedia, che grattò sulle assi di legno del pavimento con un gemito stridulo, si alzò e si diresse in bagno.

Girò il rubinetto dell'acqua fredda, mise le mani a coppa sotto il getto e se le portò al volto un paio di volte, strofinandosi il viso.

Smise soltanto quando, alzato lo sguardo fino allo specchio, notò nel proprio riflesso che, a forza di strofinarsi, aveva finito per farsi arrossare la pelle.

Spense l'acqua.

Nel silenzio della camera d'albergo poteva sentire il proprio cuore battere tanto veloce da fargli male, il respiro corto e affannoso ed una spiacevole ma familiare sensazione d'angoscia.

Il suo corpo gli comunicava la presenza di un pericolo imminente, si preparava a fuggire o a combattere, ma la verità era che non c'era nessun pericolo imminente.

Otto Schmid era perfettamente al sicuro.

Nulla poteva fargli del male.

Non a livello fisico, quantomeno.

Quel bambino polacco aveva spalancato gli occhi chiari, terrorizzato, ma aveva ubbidito: si era frugato in una delle tasche ed aveva tirato fuori un paio di proiettili di metallo.

Magari li aveva soltanto trovati per terra.

Era possibile.

Anzi, era alquanto probabile che, dopo gli aspri combattimenti all'interno della città, ne fossero rimaste abbandonate chissà quante migliaia.

E non era improbabile che un bambino, vedendone alcuni, ne fosse rimasto affascinato ed avesse deciso di infilarseli in tasca.

Così, senza pensarci troppo su, con quella leggerezza tipica dell'infanzia, quando si ha la fortuna di non poter ancora prevedere le conseguenze delle proprie azioni.

In pochi minuti fu deciso che il piccolo doveva essere un partigiano, o che dovesse essere un loro collaboratore, oppure una staffetta.

Venne perquisito più a fondo, ma non si riuscì a trovare nulla di rilevante; soltanto qualche biglia colorata e la punta di una matita.

Era un partigiano, ormai era stato stabilito che fosse un partigiano, e come tale doveva essere trattato.

Così aveva detto il suo Tenente:<<È un ribelle>> ecco, cosa aveva detto <<E perciò dobbiamo comportarci con lui di conseguenza>>.

Il caporale Schmid aveva alzato gli occhi di scatto, congelato nell'atto di inspirare l'aria fredda di inizio ottobre.

Gli altri non se lo erano fatti ripetere.

Forse desideravano sfogarsi, ancora ebbri dell'adrenalina della vittoria, oppure...Otto non lo capiva.

Non aveva capito quel giorno di quattro anni prima, e tutt'ora non riusciva a comprendere, perché quegli uomini avessero afferrato il ragazzino, l'avessero trascinato fino ad un lampione al lato della strada e ce lo avessero appeso.

Schmid era rimasto immobile, quasi come se si trovasse in stato di cosciente incoscienza, ed aveva osservato quello spettacolo raccapricciante dall'inizio alla fine.

Non aveva fatto nulla.

Neanche il ragazzino aveva fatto granché: a parte le lacrime silenziose che gli rigavano il faccino pallido, egli sembrava infatti, se non tranquillo, di certo rassegnato al proprio destino.

Alla fine, quando tutto fu finito, il suo viso era violaceo, pallido e livido, ed il suo corpo magro immobile, sospeso a mezz'aria.

Una folata di vento proveniente da ovest, come per fargli un dispetto, gli strappò via il cappello e lo fece volare lontano, fino all'imboccatura della via, tra le rovine di un negozio di gioielli.

Chissà per quanto tempo era rimasto lì, a dondolare nel vento, dopo che loro erano andati via.

Quando Otto sarebbe morto, quando sarebbe finito all'inferno, sapeva quale visione l'avrebbe tormentato per il resto dell'eternità.

Le mani gli tremavano così forte che dovette stringerle attorno al bordo del lavandino in marmo bianco, e nemmeno così riuscì a farle smettere.

Poi qualcuno bussò alla porta della camera d'hotel.

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[1] Acronimo di Gruppi di Azione Patriottica (detti anche SAP). Erano formazioni di partigiani, sia donne sia uomini, che agivano principalmente intorno alle città maggiori e si occupavano di guerriglia armata, attentati e azioni di disturbo a danno degli invasori nazisti e dei fascisti.

[2] Nella realtà l'Hotel Baglioni fu davvero vittima di attentati, che avrebbero dovuto avere lo scopo di minare l'autorità nazifascista a Bologna. Il primo fu sferrato il 29 settembre del '44 (proprio dalla 7a Gap), ma la benzina che avrebbe dovuto innescare l'esplosione non brucia a dovere e quindi non sortisce l'effetto sperato. Mentre il secondo, la notte del 18 ottobre dello stesso anno, con la collocazione di 90 chili di tritolo di fronte all'entrata dell'edificio, ottiene l'effetto di provacare il crollo della parte centrale dell'albergo (l'impresa sarà qualche giorno dopo elogiata dallo speaker di Radio Londra).

[3] È il cosiddetto "nome di battaglia", molto utilizzato tra i partigiani anche e soprattutto allo scopo di mantenere il maggior riserbo possibile riguardo la propria identità.

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