Il Mercato della Piazzola

In quel ventilato sabato mattina di fine settembre, proprio non si poteva fare a meno di avere la sensazione che l'intera città di Bologna si fosse riversata nei diecimila metri quadrati di Piazza dell'Otto Agosto.

Le bancarelle e le tende a padiglione - le quali variavano dalle più intense sfumature di rosso al blu notte - ne occupavano gran parte della superficie.

Esse venivano agitate da un forte vento freddo, che da diverse ore non dava tregua ai bolognesi, raggiungendo l'apice della sua violenza nei pressi delle chiese di San Pietro e San Petronio.

Le tende, fissate al suolo come meglio si poteva, compivano un movimento sincronizzato, come se fosse intenzionale, come se le stesse bancarelle fossero esseri senzienti intenti a sussurrare l'uno all'altro.
Già dal giorno precedente i contadini e le contadine, gli artigiani, i venditori di utensili per la cucina come pentole e padelle e vari esempi di ciappinari[1], erano confluiti dalla campagna o dalla periferia perché le proprie merci venissero esposte in piazza.

C'erano i venditori di grano, con i loro sacchi pieni di mercanzia e disposti intorno alle stadère, indispensabili per fare affari; c'erano le bancarelle di frutta e verdura fresca, raccolta e bellamente disposta in cesti di vimini appoggiati sulle tradizionali scranne; per non parlare poi dei tanti cantastorie, artisti di strada e sedicenti prestigiatori, che coglievano quell'occasione settimanale per mettere in mostra i loro numeri, accrescere la propria popolarità e guadagnare qualche lira in più.

La fresca aria autunnale era satura di un eccitato vociare, e di una miriade di suoni diversi, anch'essi parte di quella tradizione centenaria, che nemmeno la guerra e l'estrema scarsità di beni di primo consumo che ne era conseguita avevano potuto interrompere.

Ad un'estremità della Piazza, quella nella quale veniva delimitata da via Irnerio, sorgevano la Montagnola, uno dei simboli della città, e la statua eretta qualche decennio prima, il Monumento ai Caduti dell'8 agosto 1848.

Essa veniva affettuosamente definita Il Popolano da tutti i bolognesi, che, sebbene all'inizio l'avessero aspramente criticata, col tempo si erano abituati a lei, arrivando a ritenerla un elemento imprescindibile.

Il riverbero del sole, quasi completamente schermato dal soffice e spumoso strato di nuvole bianche che l'oscurava, andava ad abbattersi sulla targa impressa nel basamento della statua, edificata in pietra d'Istria e bronzo.

«Stammi vicino!» esclamò Emilia Fontana, stringendo forte il polso di sua figlia, mentre con l'altra mano teneva una bottiglia di vetro che aveva riempito col latte appena acquistato.

Non le piaceva l'idea che Margherita si allontanasse da lei: con quella confusione c'era il rischio che si perdesse e non si ritrovasse.

La bimba di soli sette anni, coi capelli mori pettinati in due adorabili treccine che le sfioravano le spalle, camminava al fianco della madre e cercava di tenerne il passo veloce. Il suo sguardo si soffermava spesso su qualche bancarella - soprattutto su quelle che avevano esposte delle stoffe colorate - ed allora i grandi occhi castani si spalancavano appena, scintillanti di desiderio.

«Mamma, mamma!» disse, impuntandosi appena per farla rallentare «Me li compri, dei nastri viola per le trecce?» il viola era il suo colore preferito, ed infatti il vestitino che indossava quella mattina era di uno squisito color lilla.

La donna le rivolse uno sguardo di fuoco, strattonandola perché tornasse ad aumentare il passo:«Brisa fèr la sêma[2]» la liquidò in fretta «Ne hai già più di quanti ne metti» e la bambina usò la mano libera per coprirsi la stoffa color verde acqua che le ornava i capelli, ricordandosi soltanto in quel momento di starla indossando.

Solo allora Margherita si rassegnò, sospirando appena: incurvò le spalle e continuò ad arrancare per cercare di stare al passo con le lunghe falcate di sua madre. Si ritrovò a pensare che, se al posto della mamma ci fosse stato papà, lì con lei, di certo glieli avrebbe comprati, quei benedetti nastrini.

Ma suo padre non c'era: su mèder[3] cinque giorni prima le aveva spiegato che era partito per un viaggio importante, e che probabilmente ci sarebbe voluto un po' perché tornasse a casa. Era dovuto andare molto lontano, così le aveva detto.

E da cinque giorni a quella parte, Margherita aveva notato come la sua mamma fosse tesa, come alzasse la voce ed uscisse di casa più spesso di quanto solesse fare. La bambina aveva concluso che dovesse sentirne la mancanza - anche a lei mancava molto - e che quella dovesse essere la causa del suo umor nero.

Le due si fermarono di fronte ad una tenda a padiglione nera, sotto la quale stavano disposti in ordinate file appoggiate su un largo telo bianco diversi tipi di mestoli in legno ed acciaio. E poi, appena più in là, almeno una dozzina di saponette impilate l'una sull'altra.

«Tu resta qui, chiaro? Dove posso vederti» si raccomandò Emilia, e sua figlia annuì, guardandola mentre si avvicinava alla bancarella ed alla treccola[4] che la gestiva. Una signora piuttosto in carne, dai lunghi capelli biondi, che aveva tutta l'aria di aver passato i precedenti vent'anni della sua vita a lavorare, a giudicare dai calli che aveva sulle mani.

Margherita era sicura che si trattasse di una signora che conosceva sua madre da quando era una bambina, anche se lei, da parte sua, non c'aveva mai parlato davvero.

«Buongiorno» la salutò con un gran sorriso, quando si accorse della signora Fontana e più in là, solo di qualche metro, sua figlia, intenta ad attorcigliarsi le trecce intorno alle dita.

«Buongiorno, Pasquina» Emilia rispose altrettanto cordialmente, ma proprio non le riuscì di sorridere.

«Come vanno gli affari?» chiese ancora, più per cortesia che per autentico interesse. D'altronde, ella aveva ben altro a cui pensare, in quelle terribili giornate.

«Non mi lamento» commentò quella, finendo di servire un ragazzino in camiciola bianca <<E tu, invece, come stai?>>

Emilia si accostò ancora di più all'altra donna, attendendo che il suo giovane cliente si fosse sufficientemente allontanato.

«Non ho ancora scoperto dove sia» le sussurrò, tanto vicina che quasi le mormorava all'orecchio «Né se sia-» si interruppe, controllando con la coda dell'occhio che Margherita fosse ancora dove l'aveva lasciata «C'è la possibilità che- che i tedeschi l'abbiano messo su un treno»

«Un treno?» la treccola a quelle parole era visibilmente sbiancata. Erano settimane, da quando i tedeschi avevano occupato Bologna, che dalla stazione partivano treni merci stipati di militari catturati prima, e di sovversivi poi. Di loro non si sapeva più nulla, dopo che la locomotiva lasciava Bologna Centrale.

«Sì, un treno per la Germania» Emilia deglutì a fondo «Tutti in giro dicono che li portino in dei campi di lavoro, come- come manodopera»

La sua interlocutrice congiunse le mani sul petto: lei e suo marito avevano tre figli maschi, tutti soldati, e tutti chissà dove, in quel momento. Era dall'8 settembre, il giorno dell'armistizio di Badoglio, che non aveva più notizie da nessuno dei tre. Sentirsi ricordare che c'era quella possibilità, che i suoi ragazzi potevano essere stati catturati dal nemico, le faceva ogni volta male al cuore.

Cercò comunque di rimanere calma. Dio glieli avrebbe riportati sani e salvi, ne era certa: non aveva mai fatto torto ad alcuno ed era sempre stata una cristiana irreprensibile, perciò il Signore le avrebbe fatto questa grazia.

Glielo doveva.

«E a Margherita l'hai detto?» domandò, afferrando una mano della sua vecchia amica e stringendola forte.

Anche se, a dire il vero, si rendeva perfettamente conto di quanto stupida fosse, come domanda. Era tanto ovvio, che non l'avesse fatto.

Emilia si sistemò il foulard color indaco che teneva legato a coprire i capelli scuri, spostato di qualche centimetro a causa del forte vento, e poi tirò appena su col naso, trattenendo le lacrime.

Come poteva dire a sua figlia, una bambina, la straziante verità, una verità che lei stessa non poteva e non voleva accettare, e cioè che suo padre doveva essere stato deportato a Dackao[5], a Mattausen[6] o in un altro di quei luoghi funesti, e che con ogni probabilità non avrebbe fatto ritorno?

Come poteva spiegare alla loro unica figlia che lui, nonostante l'avesse ammonito già settimane prima di desistere da quel suo progetto che sarebbe stata la causa del suo arresto, non le aveva voluto prestare ascolto?

Poteva sembrare un luogo alquanto singolare - inadatto, più che altro - per intrattenere un discorso tanto delicato e privato. Tuttavia, - e questo le due donne lo sapevano bene - i tedeschi non si azzardavano ad addentrarsi all'interno del Mercato - o almeno non l'avevano mai fatto, fino ad allora.

Qualcuno commentava con un sarcasmo sottile ed un'indolenza non estranea all'animo stesso dei bolognesi, che le SS e la Gestapo non ne avevano brisa[7] il coraggio, perché la troppa confusione e vitalità turbava il loro animo germanico, mandandoli in confusione, facendoli quasi impazzire.

Ed era vero, che il Mercato della Piazzola traboccava di confusione come un piatto riempito fino all'orlo di fumanti passatelli in brodo, proprio come accadeva ogni settimana da che mondo è mondo.

In mezzo a tutta quella caciara due vecchie conoscenti che si accostavano l'una all'altra per scambiarsi due paroline, di certo non avrebbero insospettito nessuno; e molto difficilmente alle giovani signorine intente a fare acquisti o ai giovanotti che correvano loro dietro, o ai venditori nelle loro bancarelle, o ai bambini che giocavano a rincorrersi spintonando gli adulti che intralciavano il loro passaggio, o a chiunque, sarebbe interessato di fare lo sforzo di tendere l'orecchio per afferrare ciò che si confidavano l'una con l'altra.

E così la Piazzola, il luogo non-luogo più famoso di Bologna, non offriva soltanto l'occasione di reiterare e rivivere tutti insieme, collettivamente, una tradizione secolare, ma dava anche la possibilità ai suoi abitanti di fingere di non sapere che la città era stata occupata dai nazisti, che la guerra della cui fine si erano illusi e per la cui avevano tanto sperato e pregato stava invece continuando, con l'unica differenza del cambio repentino d'alleanze.

«Voglio farlo io l'italiano, adesso!» gridò un bambinetto tozzo, mentre il suo visetto rotondo si deformava per la collera.

«Non penso proprio!» lo sbeffeggiò suo fratello maggiore, il quale era senza ombra di dubbio il destinatario di tale collera «L'italiano è mio, non lo capisci? Il Tricolore cel'ho io!» e, pronunciando queste parole, alzò il mento con orgoglio.

Anche fin troppo, visto e considerato che "il Tricolore" del quale si vantava non era altro che un grande stralcio di lana, che i due fratellini avevano trafugato dalla bancarella dei genitori.

Nerio e Gianni - questi, infatti, i loro nomi - avevano passato i precedenti minuti nella minuziosa messa in scena dei gloriosi fatti rivoluzionari avvenuti in quella stessa piazza, poco più di cent'anni prima, nel 1828.

O forse era '48?

A Nerio, il maggiore dei due, in verità non importava di ricordare con esattezza la data che il loro maestro aveva riportato loro solo pochi giorni prima, a lezione...Non se poteva essere lui stesso, lui insieme a suo fratello, a rivivere quegli avvenimenti gloriosi in prima persona.

Li riviveva solo con la fantasia, ma era comunque meglio di niente, no?

Fu così che, nemmeno dieci minuti dopo, i due bambini correvano intorno alla statua de Il Popolano, gridando a turno, ora l'uno ed ora l'altro, frasi patriottiche e rivoluzionarie. Prime tra tutte, e con maggior conato polmonare, svettavano i classici:"Evviva l'Italia unita!" e "Viva Garibaldi!".

Tuttavia, per quanto sapessero per certo come non ci fossero nazisti nei dintorni, i due si astennero dallo spingersi ancora più oltre, arrivando a compiere affermazioni che, se udite o riferite ai tedeschi, avrebbero assicurato a chiunque un non troppo piacevole soggiorno in via Santa Chiara numero sei/due[8].

Nonostante le giovani età di nove e undici anni, essi si guardarono così bene dal prorompere in grida come:"Abbasso gli invasori tedeschi!", che pure sarebbero calzate a pennello nel contesto della loro improvvisata rievocazione storica.

Per ora, illudendosi di essere al sicuro e lontani a sufficienza dalla guerra "dei grandi", potevano continuare a sollazzarsi con le imprese eroiche compiute dai loro antenati, beandosi nella speranza che il destino avrebbe un giorno offerto loro la possibilità di eguagliarle.

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[1] Termine che sta ad indicare i tuttofare (nella tradizione si trattava di quella figura che riattaccava i bottoni agli abiti o li rattoppava alla bell'e meglio per un compenso bassissimo).

[2] "Non fare la sciocca".

[3] "Sua madre" (anche utilizzato come termine vezzeggiativo, col senso di "mammina").

[4] Nome affibbiato ai venditori - ma soprattutto alle venditrici - bolognesi che partecipavano al Mercato della Piazzetta.

[5] e [6] I campi di Dachau e Mauthausen.

[7] La negazione per eccellenza del dialetto bolognese, che però assume un significato più forte di quella italiana, soprattutto se pronunciata non all'interno di una frase ("Brisa!" e basta potrebbe essere reso in italiano come "non ti azzardare!" oppure "guai a te!").

[8] In via Santa Chiara 6/2, da quando i tedeschi conquistarono la città, venne stabilita la sede delle SS. Lì, nella cosiddetta "stanza numero uno", avvenivano gli interrogatori (e la tortura) dei dissidenti politici.

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