1. Un viaggio forzato
Non mi resi conto di quanto fossi nei guai fino a quando Aiden Evans non mi puntò i suoi occhioni contro e mi fissò un po' come fanno tutti i padri: come se volesse strangolarmi e poi seppellire il mio cadavere chissà dove. Mi fissava con l'espressione tipica di chi ha una lista mentale di punizioni già pronte, giusto per decidere quale infliggermi per prima.
C'era anche quella vena sulla tempia che sembrava voler esplodere. Perfetto.
Strinse il volante così forte che le nocche divennero bianche e, con uno scatto rabbioso, premette sull'acceleratore, schiacciandomi contro il sedile come un sacco di patate. Se avesse potuto, mi avrebbe lanciata fuori dalla macchina con tutta la mia insolenza.
Mi aggrappai alla maniglia della portiera, trattenendo un sospiro stanco. Avrei potuto dire qualcosa per allentare la tensione, ma perché aggiungere benzina al fuoco? Chiusi gli occhi e iniziai a contare, cercando di non pensare al sermone che stava per esplodere come una bomba a orologeria. Nessuno avrebbe potuto salvarmi dalla furia di mio padre. Non gli zii, e sicuramente non io, la stupida ventunenne che aveva avuto la brillante idea di rimanere a Miami mentre un uragano stava devastando tutto.
Aprii gli occhi e osservai le strade congestionate dal finestrino. Miami era alle nostre spalle, e con essa Thalia, l'uragano che aveva trasformato la città in un campo di battaglia. L'unica direzione? Charleston. A casa degli zii. Bellissimo. Trattenni una smorfia.
Sentii lo stomaco ribellarsi, un'ondata di nausea che risaliva fino alla gola. Mi portai una mano alla bocca, pregando che non accadesse l'inevitabile.
«Se vomiti sulla mia macchina, Anne, giuro che ti lascio sul ciglio della strada» borbottò papà, senza nemmeno guardarmi. La voce era più roca del solito, probabilmente perché aveva già urlato abbastanza per oggi.
Strinsi i denti, costringendomi a respirare lentamente. Nonostante tutto, rallentò appena, dandomi il tempo di riprendermi. Perché, diciamocelo, Aiden Evans poteva anche essere uno stronzo autoritario, ma era pur sempre mio padre. E, tra tutti i difetti che aveva, il suo unico punto debole ero io.
«Prima o poi ti revocheranno la patente, sai?» sibilai, sfidandolo con il tono più velenoso che riuscii a tirare fuori nonostante il mal di stomaco.
L'occhiata che mi lanciò avrebbe potuto pietrificare chiunque. Ma io non ero "chiunque".
«Se rispettassi le regole, non avrei bisogno di guidare come un pilota di Formula 1 per tirarti fuori dai guai» ribatté. «Hai ventuno anni, Anne! Io alla tua età avevo già la testa sulle spalle!»
Scoppiai a ridere. «Oh, ma per favore! Non farmi credere che eri un modello di virtù alla mia età. Se c'è qualcuno che infrange le regole più di me, quello sei tu.»
Il suo sguardo si fece ancora più duro, ma vidi un guizzo di fastidio passargli negli occhi. Avevo colpito nel segno, e lo sapeva.
«Quando hanno annunciato l'uragano, nessuno poteva immaginare che sarebbe stato così disastroso» dissi, cercando di mantenere un tono calmo, anche se ogni parola che pronunciavo sembrava irritarlo ancora di più. «Non puoi incolparmi per qualcosa che non potevo prevedere.»
«Ti ho chiesto di raggiungermi a Charleston per una ragione, Anne.» Mio padre rispose con la voce tesa, quasi controllata, come se stesse facendo uno sforzo immane per non alzare il tono. «Non ci si può fidare dei telegiornali. Io e tua madre sappiamo bene quando è il momento di prendere tutto e scappare. E tu dovresti iniziare a fare lo stesso, invece di comportarti come se sapessi tutto!»
Non potei fare a meno di alzare gli occhi al cielo. «Ah, certo, perché tu hai sempre ragione, no? Non ho mica trent'anni di esperienza sulle spalle, come te. Ma indovina? Sono capace di pensare da sola, sai?»
«Pensare da sola non significa ignorare un'urgenza e restare lì a fare la grande solo per dimostrare qualcosa.» Stringeva il volante con entrambe le mani, le nocche bianche per la tensione. «Hai idea di quanto poco ci voglia a finire nei guai con un uragano come questo?»
«Guarda che non sono rimasta a organizzare un barbecue sotto la tempesta, se è questo che stai insinuando.» Sbuffai, incrociando le braccia. «E comunque, se sei tanto preoccupato per la mia sicurezza, forse potevi venire a prendermi invece di aspettare che fossi io a raggiungerti.»
Lui scattò a guardarmi di lato, incredulo. «Stai scherzando? Ti ho chiamato cinque volte per dirti di partire prima. Cinque, Anne! Ho persino mandato un messaggio a tua madre per assicurarmi che te lo dicesse.»
«E infatti sono partita, no?» ribattei. «Mi hai appena prelevata da Miami, quindi non vedo quale sia il problema.»
«Il problema è che hai aspettato l'ultimo secondo per farlo! E se fossi rimasta bloccata? Se fosse successo qualcosa mentre eri lì, da sola?»
Il modo in cui lo disse, con una nota di paura sincera nella voce, mi fece quasi sentire in colpa. Ma solo per un attimo. «Beh, non è successo niente. Fine della storia.»
Lui sospirò, scuotendo la testa. «Tu proprio non capisci, vero? Non si tratta solo di te. Si tratta di chi ti vuole bene, Anne. Si tratta di me.»
«Ah, quindi ora è colpa mia se ti preoccupi troppo?» risposi sarcastica, voltandomi verso il finestrino per evitare il suo sguardo. Le luci sbiadite di Miami si stavano dissolvendo nel buio, come se volessero lasciarmi indietro insieme a questa discussione assurda.
Per un po', l'unico suono nella macchina fu la radio, che trasmetteva aggiornamenti incessanti sull'uragano Thalia, parlando di case distrutte e vite spezzate. La voce del giornalista era monotona, quasi distante, ma le sue parole sembravano riempire ogni spazio, mescolandosi ai miei pensieri già ingombranti.
Cercai di distrarmi, fissando il paesaggio fuori dal finestrino: file interminabili di pini e querce che si piegavano leggermente al vento, campi di grano dorati che sembravano ondeggiare sotto il cielo grigio. Era tutto così... vuoto. Tranquillo. Silenzioso. E quel silenzio mi soffocava.
Lasciare Miami non era stato facile. Lì avevo tutto: il rumore delle onde che si infrangevano sulla spiaggia, le strade sempre affollate di turisti e locali, i grattacieli scintillanti che brillavano al sole. Miami era vita, caos, calore, e io ci ero nata, ci ero cresciuta. Faceva parte di me.
Charleston, invece, non lo era mai stata. Le estati trascorse lì, costretta a seguire i miei genitori per visitare gli zii, erano sempre state un tormento. Troppo piccola, troppo lenta, troppo... perfetta, come una cartolina che ti stanca dopo pochi minuti. Non sopportavo la sensazione di essere osservata da tutti, come se ogni gesto o parola fosse motivo di pettegolezzo in una città dove tutti conoscevano tutti.
E poi c'erano i miei cugini. Erano simpatici, certo, ma ormai non li vedevo da un anno. L'ultima estate ero rimasta a Charleston a malapena una settimana, e da allora non ci eravamo più sentiti, se non per qualche messaggio di circostanza. Cosa avrei dovuto dire loro? Cosa avremmo avuto in comune, dopo tutto questo tempo? Sospirai, lasciando che la testa cadesse contro il poggiatesta. L'idea di passare l'estate – o peggio, di trasferirmi – in quel posto mi dava una sensazione di oppressione che non riuscivo a scrollarmi di dosso. Non appartenevo a Charleston, e probabilmente non lo avrei mai fatto.
Mio padre ruppe il silenzio distogliendomi da quei pensieri. «Sai perché ti ho chiesto di venire con me a Charleston?»
«Perché tua figlia è un fastidio che non puoi lasciare a Miami?»
«Anne.»
«Cosa?» Mi voltai verso di lui, sfidandolo con lo sguardo.
«Perché non volevo che restassi lì da sola. Non volevo rischiare di perderti.»
La sua voce era calma, ma c'era una vulnerabilità in quelle parole che mi disarmò. Per un attimo, mi venne voglia di dirgli che apprezzavo la sua preoccupazione, ma non ci riuscii. La parte ostinata di me non voleva concedergli quella soddisfazione.
«Beh, grazie per il gesto nobile, ma sono perfettamente in grado di badare a me stessa.»
«Sì, certo. Lo vedo ogni volta che mi sfidi per qualunque cosa. È incredibile come tu riesca a far sembrare ogni mia decisione una condanna a morte.»
«Forse perché spesso lo è.»
«Oh, per favore!» esclamò lui, alzando le mani per un istante, quasi come se avesse davvero bisogno di rendere più teatrale il suo disappunto. «Sai qual è il tuo problema? Sei troppo testarda.»
La tensione nella macchina era palpabile, come una corda troppo tesa che minacciava di spezzarsi da un momento all'altro. Il motore ronzava costante, accompagnato dal lieve fruscio dei tergicristalli che lottavano contro una pioggia leggera, appena accennata, che sembrava voler seguire la scia della tempesta più a sud. Le luci dei lampioni che costeggiavano la strada erano fioche e tremolanti, quasi consumate dall'umidità e dall'oscurità avvolgente.
Mi girai verso di lui, la mascella serrata. «Sai qual è il tuo problema, papà? Che non sai lasciarmi respirare. Non tutto deve essere una maledetta battaglia tra di noi.»
Papà premette un po' più forte sull'acceleratore, facendo sussultare leggermente l'auto. Era il suo modo di contenere la rabbia, di convogliarla in qualcosa di controllabile. «Se ascoltassi di più e parlassi di meno, tra di noi non esisterebbe nessuna battaglia.»
Sapevo che stavamo scivolando in una delle nostre tipiche discussioni circolari, quelle che non avevano mai un vero vincitore. Ma non avevo intenzione di mollare così facilmente. «Se smettessi di comportarti come se fossi un generale e io una tua recluta, forse ti ascolterei.»
Non rispose subito. Il silenzio che seguì fu pieno di cose non dette, di parole che entrambi volevamo urlare ma che ci mordemmo la lingua per trattenere. Era sempre così con lui: una danza infinita tra il voler avvicinarsi e il respingersi, come due calamite con poli opposti.
Quando finalmente girò a destra e imboccò una stazione di servizio deserta, colse entrambi di sorpresa. Il cartello al neon sopra il piccolo negozio brillava a intermittenza, illuminando a tratti l'asfalto bagnato. Le pompe di benzina erano vecchie e cigolanti, e il rumore del vento che soffiava tra gli alberi vicini riempiva l'aria di un senso di inquietudine.
«Che stai facendo?» chiesi, anche se la risposta era ovvia.
«Benzina» rispose secco, spegnendo il motore.
Appena si fermò, spalancai la portiera e scesi, facendola sbattere più forte di quanto fosse necessario. Non mi girai nemmeno a guardarlo mentre attraversavo il parcheggio a passi lunghi e decisi.
«E ora dove vai?» mi gridò dietro.
«In bagno!» risposi, alzando una mano per sottolineare la mia esasperazione. «O vuoi accompagnarmi anche lì? Sai, nel caso il water decidesse di attaccarmi.»
Sentii il suo sospiro, pesante e rassegnato, ma non mi voltai. Attraversai la porta del negozio e trovai il bagno in fondo, un angolo stretto e poco invitante illuminato da una luce fredda e tremolante.
Appoggiandomi al lavandino, mi fermai un istante a fissare il mio riflesso nello specchio. Nonostante la scarsa illuminazione, era impossibile non notare i segni della stanchezza sul mio viso: le occhiaie scure sotto gli occhi, i lineamenti tesi, il modo in cui le mie spalle sembravano crollare sotto un peso invisibile.
Con un sospiro, raccolsi i miei lunghi capelli neri, lisci e spessi, in una coda alta, lasciando che alcune ciocche ribelli incorniciassero il mio viso. Il loro peso familiare tirava leggermente la pelle della nuca, un gesto che avevo ripetuto così tante volte da farlo quasi senza pensarci. Avevo sempre considerato i miei capelli il mio unico punto di forza estetico, una cascata di nero lucido che sembrava quasi catturare la luce, riflettendola con un'intensità morbida. Anche nei giorni peggiori, quando tutto sembrava fuori controllo, quei capelli restavano una costante, una piccola parte di me che mi faceva sentire in pace con il mio aspetto.
Ma erano i miei occhi a fare alzare lo sguardo delle persone, e non sempre per le ragioni che avrei voluto. Verde e azzurro si mescolavano in un colore che non riusciva mai a decidersi, come un mare irrequieto che cambiava sfumature a seconda della luce. Quegli occhi erano un'eredità di mia madre, e anche se chiunque li trovava affascinanti, io avevo sempre avuto un rapporto complicato con loro. Troppo evidenti, troppo strani. Troppo qualcosa.
Davanti allo specchio del bagno, studiai il mio riflesso con la consueta analisi critica. Gli occhi spiccavano contro la pelle chiara e i capelli neri, quasi come se appartenessero a qualcun altro, un accessorio vistoso che non avevo mai chiesto di indossare. Eppure, erano l'unica cosa che tradiva le emozioni che cercavo di nascondere: la rabbia, la frustrazione, o la tristezza che ora cercavo di mascherare sotto una maschera di indifferenza.
Mi passai una mano sulla coda alta, assicurandomi che fosse ben tirata, poi abbassai lo sguardo e mi costrinsi a un piccolo sorriso. Forse non ero perfetta, forse non avevo la bellezza classica che certe ragazze sembravano possedere senza sforzo, ma avevo qualcosa che mi rendeva unica. E in fondo, in una giornata come quella, con il mondo intero che sembrava andare a pezzi, quella consapevolezza valeva più di qualsiasi complimento. Dopo essermi sistemata, tirai fuori il telefono dalla tasca dei jeans e controllai i messaggi. Niente da mia madre. Alzai gli occhi al soffitto, combattendo una nuova ondata di frustrazione, e decisi di chiamarla. Il telefono squillò a vuoto, ogni secondo che passava sembrava amplificare la mia solitudine.
Lasciai andare un respiro tremante e aprii la chat con Emily, la mia migliore amica rimasta a Miami.
Anne: Ehi, tutto okay lì? Com'è la situazione con l'uragano?
La risposta arrivò quasi subito.
Emily: Un disastro. Alberi abbattuti ovunque. Ma stiamo bene. Tu dove sei?
Anne: In viaggio con mio padre. Charleston.
Emily: Oh, merda. Come va?
Anne: Un inferno.
Emily: Solito Aiden, eh?
Anne: Già. Hai sentito Ethan?
Ci fu una breve pausa prima della risposta.
Emily: Sì. Sta bene. Ha detto che è rimasto a casa con sua madre e suo fratello. Nessun danno grave.
Anne: Okay, grazie.
Emily: Quando ti deciderai a scrivergli direttamente?
Anne: Quando deciderò di essere più coraggiosa, immagino.
Con un sorriso amaro, rimisi il telefono in tasca e uscii dal bagno. Attraversai il negozio, passando tra scaffali pieni di snack e bibite. Quando il mio sguardo si posò su un pacchetto di caramelle al limone, non potei fare a meno di fermarmi.
Le sue preferite.
Mi girai verso la finestra e lo vidi ancora accanto alla macchina, appoggiato al finestrino mentre guardava lontano. Anche da lì, potevo notare la linea rigida delle sue spalle, il modo in cui la stanchezza sembrava aver scolpito rughe sottili sul suo viso. Nonostante tutto, mio padre era ancora un uomo che sapeva attirare attenzione. Alto, muscoloso, con quei capelli biondi che iniziavano a ingrigire e quegli occhi chiari e penetranti che sembravano vedere più di quanto volessi ammettere.
Presi il pacchetto e andai alla cassa. Una volta fuori, tirai fuori un post-it dal mio zaino e scrissi rapidamente:
"Per migliorare il tuo umore da vecchio burbero. Forse."
Tornai alla macchina e, approfittando del fatto che fosse girato, attaccai il biglietto al finestrino accanto al pacchetto di caramelle.
«Che stai facendo?» chiese, accorgendosi di me.
«Niente» risposi con un sorrisetto, risalendo in macchina.
Lui lesse il messaggio, poi mi guardò con un sorriso stanco. «Sai che sei insopportabile, vero?»
«Tu l'hai detto.»
Aprì il pacchetto, prese una caramella e la mise in bocca. «Grazie.»
«Prego.»
Ripartimmo poco dopo. Il motore della macchina rombava costante, quasi come un battito regolare che cercava di coprire il silenzio sospeso tra di noi. Le luci fioche della stazione di servizio erano ormai scomparse nello specchietto retrovisore, inghiottite dalla notte che si stendeva sulla strada come una coperta opprimente. La pioggia continuava a cadere, le gocce scivolavano sui finestrini con una lentezza ipnotica, e i tergicristalli scandivano un ritmo monotono, quasi fastidioso.
Non parlammo. Forse eravamo entrambi troppo stanchi o, più probabilmente, nessuno dei due voleva essere il primo a rompere quella fragile tregua che si era instaurata dopo il nostro ultimo litigio. La tensione tra me e papà era sempre una costante, un filo sottile che sembrava pronto a spezzarsi alla minima provocazione.
Alla fine, fu lui a rompere il silenzio, come sempre.
«Lo fai ancora spesso?» chiese, la sua voce calma, quasi distratta, mentre fissava la strada davanti a sé.
Lo guardai di sfuggita, sorpresa dalla domanda. «Fare cosa?»
«I post-it.»
Ci misi un attimo a capire. Poi sbuffai, lasciandomi scivolare contro il sedile con un mezzo sorriso. «Ogni tanto» ammisi, fissando le ombre degli alberi che scorrevano veloci fuori dal finestrino. «Dipende dall'ispirazione.»
Lui fece un leggero cenno con la testa, le mani salde sul volante, ma non disse nulla. Aspettava che continuassi, come faceva sempre. Papà non era mai stato uno da domande dirette, preferiva lasciarti parlare fino a quando non gli davi abbastanza per ricomporre il puzzle nella sua testa.
«Non so... a volte è per dire qualcosa che non riesco ad esprimere a voce» continuai, cercando di sembrare indifferente. «Altre volte solo per lasciare un segno, anche se piccolo. Tipo... un promemoria di me stessa.»
Questa volta lo vidi sorridere, ma era il tipo di sorriso che si faceva largo quando qualcosa ti colpiva più di quanto volessi ammettere. «E a chi li lasci?»
«A chi penso che ne abbia bisogno.»
«Ah, quindi io sono ufficialmente uno di quelli che ne hanno bisogno.»
Lo disse con un tono neutro, ma c'era una nota di sfida che mi fece sorridere. «Assolutamente sì» risposi senza esitazione. «Con quella tua eterna aria da sergente severo, direi che sei un candidato perfetto.»
Ridacchiò, scuotendo la testa. «Sai che potresti essere un po' meno pungente, ogni tanto?»
«E tu potresti essere un po' meno burbero.»
Ci fu un attimo di silenzio, ma questa volta non era pesante. Era come una pausa naturale, una tregua che non aveva bisogno di essere dichiarata. Poi lui parlò di nuovo, questa volta con una sincerità che non mi aspettavo.
«Sai... li ho sempre trovati carini, i tuoi post-it.»
Mi voltai verso di lui, sorpresa. «Carini? Tu che usi la parola carini?»
«Non farmelo ripetere» rispose, gettandomi uno sguardo veloce prima di tornare a fissare la strada. «Non è da tutti lasciare messaggi così. È... autentico. Semplice, ma significativo.»
Non potei fare a meno di sorridere. «Non so se prenderlo come un complimento.»
«Prendilo come vuoi» disse, stringendosi nelle spalle. «Ma continua a farlo. Anche se mi prendi in giro, i tuoi post-it fanno la differenza.»
Quelle parole mi colpirono più di quanto volessi ammettere. Papà non era il tipo da complimenti facili, e il fatto che avesse ammesso qualcosa del genere era come un piccolo miracolo.
La strada si allungava davanti a noi, nera e infinita, e con essa cresceva il peso del viaggio. Dopo qualche ora, papà sbadigliò e accostò a un motel malconcio lungo la statale. L'insegna al neon lampeggiava in modo irregolare, e il parcheggio era mezzo vuoto, tranne per qualche vecchia macchina arrugginita.
Scendemmo dalla macchina in silenzio, entrambi troppo stanchi per discutere ulteriormente. L'aria era fresca, umida, e il cielo sopra di noi era coperto da una coltre grigia che rendeva la notte ancora più opprimente.
Papà si stiracchiò, massaggiandosi il collo mentre guardava l'edificio davanti a noi. «Non è il Ritz, ma ci fermeremo solo qualche ora.»
Lo seguii senza dire niente, trascinando i piedi verso l'ingresso del motel. Dentro, l'odore di disinfettante mescolato a quello di moquette vecchia mi fece arricciare il naso. Papà parlò con il receptionist – un uomo di mezza età dall'aria assonnata – e tornò verso di me con una chiave.
«Due letti» disse, alzando un sopracciglio. «Così non ti lamenti.»
«Che premuroso» mormorai, prendendo la chiave e avviandomi verso la stanza.
La camera era spartana, con pareti beige spente e un mobilio che sembrava uscito da un catalogo degli anni '80. Lasciai cadere la borsa su uno dei letti e mi buttai a faccia in giù, affondando nel materasso troppo morbido.
«Ti dispiace se mi faccio una doccia?» chiese, già diretto verso il bagno, senza aspettare una risposta.
Mormorai qualcosa di incomprensibile, un suono che poteva essere un sì o un no. Ero troppo esausta per rispondere con coerenza. La porta si chiuse alle sue spalle, e subito il rumore dell'acqua iniziò a riempire l'aria. Il suono regolare mi cullava e al tempo stesso lasciava spazio ai miei pensieri.
Mi girai su un fianco, il letto cigolò lievemente sotto il mio peso, mentre i miei occhi si posarono sul soffitto. L'umidità aveva lasciato macchie scure sui muri, come ferite che nessuno si era mai preso la briga di riparare. L'aria era pesante, satura di un odore indefinito di disinfettante e polvere, ma nulla di tutto ciò riusciva a distrarmi da quella sensazione soffocante che mi stringeva il petto.
Miami. Quella città era tutta la mia vita. Le giornate di sole rovente, il profumo di salsedine nell'aria, le risate delle mie amiche che riecheggiavano tra i vicoli, le serate che sembravano non finire mai. Pensare di lasciare tutto questo per Charleston mi faceva sentire intrappolata. Non capivo come mio padre potesse amare quel posto, con le sue strade troppo silenziose e le case che sembravano musei. Charleston non era casa mia. Non lo era mai stata. Era una gabbia che mi stringeva, soffocante, mentre io sognavo la libertà, il caos e il calore di Miami.
Non vedevo i miei zii e i miei cugini da un anno intero. L'ultima volta era stata un'estate come tutte le altre: lunghe cene in famiglia, le battute sarcastiche di zio Wes, i racconti infiniti di zia Joy su come avesse conquistato il suo ultimo cliente. Mi mancavano, anche se non lo avrei mai ammesso apertamente. Mi mancava quella sensazione di appartenenza, quel legame che mi faceva sentire parte di qualcosa di più grande di me.
L'uragano che si stava abbattendo su Miami sembrava un riflesso perfetto del caos nella mia vita. La mia famiglia era in pezzi, un disastro inarrestabile come la tempesta. I miei genitori stavano divorziando, e io non capivo il perché. Si erano sempre amati, o almeno così mi era sembrato. Crescendo, li avevo visti ridere insieme, scambiarsi sguardi complici, ballare in cucina con la musica che proveniva da qualche vecchia playlist. Quando tutto aveva iniziato a sgretolarsi?
Un pensiero mi colpì all'improvviso: forse non li avevo mai davvero conosciuti. Forse il loro amore non era stato così perfetto come lo avevo immaginato. E ora io mi trovavo qui, intrappolata tra mio padre, che sembrava aver trovato conforto in un posto che io non riuscivo a sopportare, e mia madre, che sembrava troppo distante per preoccuparsi davvero.
Il rumore dell'acqua si fermò, riportandomi alla realtà. Un istante dopo, la porta del bagno si aprì, e papà tornò nella stanza, i capelli bagnati e arruffati, con una maglietta grigia che gli pendeva sciolta sulle spalle. Sembrava più rilassato, ma i suoi occhi tradivano una stanchezza che conoscevo bene.
Mi osservò per un momento, sdraiata sul letto con lo sguardo perso nel vuoto. «Non pensare troppo, Anne. Non serve» disse, il tono calmo ma deciso.
Mi sollevai su un gomito, un sorriso stanco si fece strada sul mio viso. «Ci provo» risposi, anche se entrambi sapevamo che era una bugia.
Papà si sedette sul bordo del letto, passandosi una mano tra i capelli umidi. «Ho ordinato la pizza. Speriamo che qui abbiano qualcosa di decente.»
«Probabilmente ci toccherà una di quelle pizze surgelate che sembrano fatte di cartone» replicai, cercando di mascherare il mio umore con un tono ironico.
Lui rise piano, il suono breve ma genuino. «Per una sera possiamo sopravvivere.»
Mentre parlavamo, il telefono sul comodino iniziò a vibrare. Il cuore mi saltò in petto quando vidi il nome di mia madre comparire sullo schermo. Esitai un momento, stringendo il respiro nel petto, poi lo accettai e la misi in vivavoce.
«Anne? Tesoro, stai bene?» La sua voce era carica di apprensione, quasi spezzata. Potevo immaginare la sua fronte corrugata, il gesto nervoso con cui spostava una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Come stai, amore mio? È tutto a posto? Ti sei spaventata? Dove sei adesso?»
«Stiamo bene, mamma. Siamo fermi in un motel, poi andremo a Charleston» risposi, cercando di mantenere un tono calmo. «E tu? Dove sei?»
«A Londra» rispose lei, e il sollievo nella sua voce fu quasi palpabile. «Sono stata tutto il giorno in riunione, non avevo idea di cosa stesse succedendo. Quando ho saputo dell'uragano mi sono spaventata a morte.»
Mio padre, accanto a me, si irrigidì all'istante. Sentii il suo respiro farsi più corto, più brusco. Conoscevo quel cambiamento: era sempre il preludio di uno scambio velenoso. E infatti, quando parlò, il tono era tagliente. «Certo che non lo sapevi. Sei troppo impegnata a salvare il mondo per accorgerti di quello che succede alla tua famiglia.»
La risposta arrivò rapida e affilata. «Aiden, non cominciare.»
«Non sto cominciando niente, Lily. Sto solo dicendo che sarebbe bello se, ogni tanto, ti ricordassi che esistiamo anche noi.»
«Ti rendi conto di quanto sia ingiusto? Sono a Londra per lavoro, non per divertirmi.»
Sentii il mio stomaco contrarsi mentre le loro voci si accavallavano, alzandosi di volume.
«Oh, certo, perché non potevi proprio rifiutare l'ennesima trasferta, vero? Non importa se tua figlia è rimasta da sola a Miami con un uragano che si avvicina.»
«Non era sola! Era a casa di amici fidati. E comunque, come potevo sapere che Thalia avrebbe colpito? Ti ricordo che non è così prevedibile!»
«Ti avevo detto giorni fa che Thalia minacciava la Florida!»
«E quindi cosa dovrei fare? Rinunciare al mio lavoro ogni volta che c'è una possibilità che succeda qualcosa?»
«Forse sì! O almeno smetterla di far finta che la tua carriera venga prima di tutto il resto!»
Chiusi gli occhi, stringendo i pugni sul grembo. La rabbia e la tristezza si mescolavano in un groviglio insopportabile. Non volevo ascoltarli, ma ogni parola sembrava scolpirsi dentro di me.
«Oh, come se tu fossi l'esempio perfetto di presenza, Aiden!» ribatté mia madre, la sua voce ormai gelida. «Ti ricordo che chi ha deciso di lasciarci sei stato tu.»
«E tu mi hai costretto! Non sei mai stata disposta a scendere a compromessi!»
«Compromessi? Vuoi parlare di compromessi adesso? Io sono quella che si è sacrificata per anni, Aiden. Per la tua carriera, per tua figlia, per tutto!»
«Sacrificata? Non farmi ridere, Lily. Sei sempre stata più interessata al tuo lavoro che a noi.»
«Tu non hai idea di quanto io ami nostra figlia» replicò mia madre, la sua voce si spezzò leggermente. «Non hai idea di quante notti io abbia passato sveglia a preoccuparmi per lei, a cercare di fare tutto il possibile per non farle mancare nulla.»
La loro discussione si trasformò in un vortice di accuse e recriminazioni. Ogni frase era come una scossa, una ferita che si riapriva. Cercai di respirare profondamente, di non cedere. Ma dentro di me, qualcosa stava per esplodere.
«Basta, voi due!» urlai infine, la mia voce tremante ma forte. «Non adesso! Per favore!»
Le loro voci si spensero all'istante. Nel silenzio che seguì, riuscii a sentire solo il battito frenetico del mio cuore. Cercai di non guardare mio padre, che ora mi osservava con uno sguardo preoccupato, né di ascoltare il sospiro di mia madre dall'altra parte della linea.
«Anne, amore, mi dispiace...» provò a dire mia madre. Stavolta la sua voce era morbida, quasi supplichevole. Ma non volevo ascoltarla. Non ne potevo più.
Con un gesto deciso, buttai giù la telefonata, ponendo fine a quella conversazione.
Mi alzai senza una parola, ignorando mio padre. Mi allontanai dal letto e mi avvicinai alla finestra. Aprii le tende e fissai il paesaggio fuori, lasciando che il silenzio mi avvolgesse. Cercavo di controllare il respiro, di impedire alle lacrime di uscire, ma sentivo il nodo alla gola crescere sempre di più.
Ero esausta. Esausta di ascoltarli distruggersi a vicenda. Ma soprattutto, ero esausta di sentirmi in mezzo a una guerra che non avevo mai scelto. Sentii papà osservarmi per un momento, poi sospirò profondamente e si alzò. «Vado a vedere se la pizza è pronta» disse, uscendo dalla stanza e lasciandomi sola con i miei pensieri e il peso di quella chiamata.
Quando poco dopo rientrò con due cartoni fumanti tra le mani e un paio di lattine di cola light, stavo facendo zapping al televisore. Una vecchia replica di How I Met Your Mother era in onda, una puntata che conoscevo a memoria. Ma continuai a fissare lo schermo con insistenza, fingendo che fosse la prima volta. Qualsiasi cosa pur di non dover affrontare papà e, inevitabilmente, un altro sermone.
Nel frattempo, mi ero fatta una doccia veloce per scrollarmi di dosso la tensione e avevo infilato il mio pigiama preferito, quello con i piccoli pianeti e le stelle. Avevo anche spalancato la finestra: la brezza fresca di giugno era l'unica cosa che riuscisse a calmare il martellare incessante alle tempie. Ma quella calma momentanea era fragile, quasi finta, come una bolla pronta a scoppiare.
Papà entrò in silenzio, chiudendosi la porta alle spalle. Si tolse le scarpe con un movimento lento, lasciandole accanto all'ingresso, poi posò i cartoni della pizza e le lattine sul mio letto. Per un istante si fermò, con lo sguardo rivolto verso la televisione, come se anche lui fosse interessato alla puntata. Ma sapevo che era solo una facciata. Probabilmente stava cercando di decidere cosa dire per alleggerire la tensione.
Era più calmo rispetto a prima, lo percepivo dai suoi movimenti più lenti e dal modo in cui si sfregava il collo. Non mi sarebbe stupito se il motivo fosse mia zia. Sua sorella gemella era l'unica persona al mondo in grado di calmarlo veramente, di farlo ridere fino alle lacrime o piangere come un bambino. Il loro legame era qualcosa di inspiegabile, qualcosa che invidiavo profondamente. E sapevo che, se ora mio padre sembrava così composto, era perché lei gli aveva detto qualcosa che lo aveva fatto riflettere.
Si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli ancora di più. Alcune ciocche rimasero dritte, altre caddero disordinate sulla fronte. Poi si sedette sul bordo del letto, piegandosi leggermente in avanti, come se portasse il peso del mondo sulle spalle. Quando parlò, il tono della sua voce era basso, quasi colpevole.
«Mi dispiace, Anne» disse, grattandosi la barba con fare distratto. «Io e tua madre non dovremmo litigare davanti a te in questo modo. Non è giusto. Mi dispiace davvero tanto, tesoro.»
Alzai una spalla, cercando di sembrare indifferente. «Ci sono abituata.»
La sua espressione si incupì. «Questo non significa che sia giusto» ribatté, con una nota di tristezza. Fece una pausa, come se stesse cercando le parole giuste. «Io e lei...»
Mi voltai di scatto verso di lui, il respiro improvvisamente più rapido. «Non mi va di parlarne.»
Mi guardò con apprensione, i suoi occhi azzurri pieni di un dolore che cercava di nascondere. «Anne, prima o poi dovremo affrontare questa conversazione. Hai sentito solo il punto di vista di tua madre, ma non hai mai ascoltato il mio.»
Sentii un nodo stringermi la gola. «E non mi interessa saperlo.» La mia voce era più dura di quanto avessi voluto. «Sono affari vostri. Siete adulti, no? Siete abbastanza grandi e maturi per prendere le vostre decisioni.»
Quelle parole mi pesavano come macigni, perché erano una bugia. Dentro di me, ogni singolo giorno si frantumava all'idea della loro separazione, come un cristallo che cadeva a terra e si spezzava in mille pezzi.
Papà annuì lentamente, come se stesse cercando di accettare le mie parole. Ma nei suoi occhi c'era la consapevolezza che non era tutto. «Questo è vero» disse con un sospiro. «Ma voglio che tu sappia che ci abbiamo provato. Abbiamo davvero provato tanto, in quest'ultimo anno. Semplicemente... le cose non funzionano.»
Le sue parole colpirono un punto troppo profondo. Sentii i miei occhi riempirsi di lacrime, ma mi costrinsi a ricacciarle indietro. Non avrei pianto. Non davanti a lui.
«Per favore» sussurrai, la voce che tremava nonostante i miei sforzi. «Possiamo semplicemente mangiare e poi andare a dormire? Ho mal di testa.»
Papà rimase in silenzio per un lungo momento. Mi osservò, probabilmente cercando di capire cosa stesse succedendo dietro il mio sguardo vuoto. Poi sospirò, arrendendosi. «Va bene» disse piano.
Mi passò il cartone della pizza e una lattina di cola light, poi si sistemò sul suo letto, lasciando uno spazio tra di noi che sembrava una voragine. Tornai a fissare la televisione e iniziai a mangiare, ma ogni boccone mi sembrava cemento. Lui non toccò la sua pizza, e io non osai chiedergli perché.
Per un'ora guardammo la televisione in silenzio, un silenzio che sembrava urlare tutto quello che nessuno di noi due aveva il coraggio di dire. Quando finalmente chiusi gli occhi, cercando di addormentarmi, mi sentivo vuota, lo stomaco in subbuglio.
Avrei voluto lasciare un post-it con qualche frase velenosa sul comodino, un piccolo sfogo contro la frustrazione che mi divorava. Ma non lo feci. Invece, rimasi lì, immobile, cercando di ignorare quel senso di perdita che mi stava lentamente consumando.
Il canto degli uccelli mi svegliò prima ancora che il sole fosse completamente alto, accompagnato dal leggero rumore della finestra lasciata socchiusa. L'aria fresca di giugno accarezzava la stanza, portando con sé il profumo della notte che svaniva. Avevo dormito poco e male. Non era una novità, ma quella notte, in particolare, i pensieri mi avevano tenuta sveglia più del solito, come un disco rotto che non riuscivo a fermare. Quando aprii gli occhi, papà era già sveglio. Era seduto sul bordo del letto accanto al mio, con il telefono tra le mani. La luce dello schermo illuminava il suo volto, evidenziando le rughe sottili che il tempo e la stanchezza avevano scavato, rendendolo più segnato del solito.
Restai a fissarlo per qualche istante, immobile sotto le coperte. Non mi capitava spesso di farlo, per cui lasciai che il mio sguardo scorresse lentamente su ogni singolo dettaglio ed espressione del suo viso, quasi come se fossi una pittrice intenta ad osservare il soggetto che avrei poi immortalato sulla tela. Mio padre era davvero un uomo affascinante, nonostante i quarant'anni, forte e atletico come lo avevo sempre conosciuto fin da bambina. Solo qualche ruga in più, una barba leggermente più lunga del solito e quel tocco grigiastro che si fondeva perfettamente con il biondo chiaro dei suoi capelli, contribuiva a dargli un aspetto più maturo. Anche se, da quando ero diventata adolescente, le mie amiche avevano iniziato a fargli il filo. Una cosa che spesso mi irritava profondamente, facendomi venire la nausea solo all'idea. Mio padre, però, sembrava non prestarci molta attenzione, come se fosse abituato al continuo corteggiamento. Eppure, sotto quella superficie apparentemente indifferente, sapevo che il suo egocentrismo lo faceva sentire al settimo cielo ogni volta che qualcuna cercava di attirare la sua attenzione. Non si era accorto che lo stavo osservando, e per un momento sembrò lontano, perso in pensieri che non aveva intenzione di condividere. Poi, quasi come se avesse percepito il mio sguardo, si passò una mano tra i capelli, sospirò piano e si alzò senza fare rumore, dirigendosi verso la porta. Non so se in sua assenza mi addormentai nuovamente o se chiusi solo gli occhi, so solo che quando li riaprii stava rientrando nella stanza e portava con sé un vassoio: due tazze fumanti di caffè, alcune fette di pane tostato ancora calde e una piccola ciotola di frutta fresca. Mi guardò con un'espressione incerta, come se non sapesse se quel gesto fosse abbastanza per rompere la tensione che si era creata tra di noi la sera prima. Era un uomo orgoglioso, ma in quei momenti il suo imbarazzo era palpabile.
«Buongiorno, dormigliona» disse con un sorriso che sembrava forzato, posando il vassoio sul tavolino tra i letti.
Mi tirai su a sedere lentamente, stropicciandomi gli occhi come una bambina. A quel gesto, i suoi occhi si addolcirono. «Sei stato tu a svegliarmi, o è stato il profumo del caffè?» domandai con un tono volutamente neutro, cercando di mascherare il fatto che avessi dormito poco niente.
Lui lasciò scappare una risata leggera, un suono che non sentivo spesso ultimamente. «Un po' di entrambi, immagino. Ma credevo fossi già abituata al mio tempismo perfetto.»
Mi passò una delle tazze, e per qualche minuto restammo in silenzio, ciascuno immerso nei propri pensieri. Il caffè era forte e amaro, esattamente come piaceva a me, e nonostante tutto, non potei fare a meno di apprezzare quel piccolo gesto. Mi concentrai su quel sapore familiare, cercando di scacciare il nodo che avevo in gola e lo stomaco che si stringeva come in una morsa.
Papà, nel frattempo, si era seduto sul bordo del suo letto, sorseggiando lentamente il caffè. Sembrava voler dire qualcosa, ma esitava, quasi temendo la mia reazione. Alla fine, però, si limitò a guardarmi e a scuotere la testa con un mezzo sorriso. «Non dovresti mai iniziare la giornata arrabbiata, Anne. Non fa bene.»
Alzai un sopracciglio, incrociando le braccia. «Lo dici tu, che ieri sera hai urlato per tutto il tempo?»
Lui non rispose subito. Posò la tazza sul comodino e si passò una mano sul viso, come se volesse cancellare le tracce della discussione della sera prima. «Hai ragione. Non dovrei. Ma a volte è più forte di me.»
Annuii, incapace di trovare le parole giuste. Presi il piattino di frutta che mi passò senza dire nulla, ringraziandolo con un sorriso che cercava di essere gentile, ma che sapevo non fosse del tutto sincero. Lui ricambiò, ma c'era qualcosa nei suoi occhi che tradiva un'insicurezza che non riusciva a mascherare del tutto.
«Mangia con calma» disse, e la sua voce, sempre calma e composta, sembrò sospesa tra una preoccupazione paterna e una stanchezza che non voleva ammettere. «Quando avrai finito ripartiamo. Sono solo altre quattro ore fino a Charleston, ma il meteo segna di nuovo pioggia. Vorrei che ce la prendessimo con comodo.»
Ingoiai un acino d'uva con difficoltà, mentre lo stomaco si ribellava, stretto da un nodo che non riuscivo a sciogliere. Non era solo la distanza da percorrere a farmi sentire questo malessere, ma il silenzio che c'era tra di noi, quel vuoto incolmabile che nessuna frase sembrava riuscire a colmare quella mattina.
«Hai notizie su Miami?» chiesi, tentando di mascherare la paura che mi stava invadendo.
Mio padre sospirò, e quel respiro sembrava tirato da un fardello troppo pesante. «L'uragano ha devastato molto, Anne. Ma casa nostra sembra aver resistito meglio di altre. Tornerò a fare un sopralluogo tra qualche giorno, quando le cose si saranno stabilizzate un po'.»
Immediatamente, posai il piattino sul comodino. Il gesto fu rapido, quasi brusco. «Voglio venire anche io, magari posso aiutare.» Le parole mi erano uscite senza pensarci troppo, come un istinto, una richiesta di normalità in un mondo che sembrava sconvolgersi sempre di più. Ma mio padre stava già scuotendo la testa, come se avesse deciso al posto mio ancora prima che avessi parlato.
«È pericoloso, Anne» disse, con una fermezza che mi fece sentire ancora più fragile. «Non sappiamo se è finita o se succederà ancora qualcosa nei prossimi giorni.»
«Ma...» provai a protestare, ma lui mi interruppe, il tono così deciso che non c'era spazio per nessuna replica.
«Resterai a Charleston finché questo periodo non sarà passato e le cose non si sistemeranno. Fine della discussione.»
La sua voce divenne un muro contro cui mi schiantai senza nemmeno potermi difendere. La bocca si chiuse, con uno scatto di rabbia che cercai di ingoiare insieme all'orgoglio ferito. Lo fissai, sentendo dentro di me una tensione che cresceva, e lui mi restituì uno sguardo di durezza che non lasciava spazio a ulteriori dubbi. Si sentiva che la sua decisione era definitiva.
«E lascerai che mamma torni lì senza pensarci?» chiesi, la voce rotta da una punta di veleno. Non riuscivo più a trattenere la frustrazione.
Lui si irrigidì, ma non cambiò tono. «Ho chiesto a tua madre di raggiungerci a Charleston quando avrà finito il suo lavoro a Londra. Non posso decidere per lei. Se vorrà, a casa mia sarà sempre la benvenuta.»
Ma quelle parole non cambiarono nulla. Sapevo come sarebbe andata. Mamma avrebbe scelto l'uragano piuttosto che la casa di mio padre. Era sempre stata così, incapace di restare ferma in un luogo che le sembrava troppo... Non sapevo nemmeno come definirlo. Mamma era nata e cresciuta a Charleston eppure, ripeteva sempre che ormai quello non era più il suo posto da molto tempo.
Respirai profondamente, cercando di calmarmi.
«Bene» risposi, la voce ancora tesa. Sapevo che non sarebbe cambiato nulla, ma avevo bisogno di dire qualcosa. Poi, senza aspettare una risposta, scostai le coperte e mi alzai dal letto. «Vado a cambiarmi.»
Lui non disse nulla. Mi sentii osservata da quel silenzio che si era ricreato tra di noi, come se tutto fosse in attesa di un gesto che non arrivava mai. Poi, finalmente, un altro pesante respiro. Non era di rassegnazione, ma di stanchezza. Lì, in quel momento, capii che la distanza tra noi si allargava ogni volta che non riuscivamo a trovare un punto di incontro.
Mi allontanai senza guardarlo, ma prima di chiudere la porta del bagno, afferrai dalla borsa un post-it e una biro, il gesto automatico di chi cerca rifugio nei propri pensieri.
Avevo spiaccicato la mia frase su un post-it giallo brillante e l'avevo piazzata in bella vista sul cruscotto, proprio accanto al navigatore. Era strategicamente posizionato, in modo che ogni volta che mio padre spostava lo sguardo sulla strada, si ritrovava a fissare le parole che avevo scelto con tanta cura:
"Venti dollari che non arrivi a Charleston senza trattarmi come se fossi ancora nel seggiolino."
Ci volle meno di un minuto prima che il primo sbuffo gli sfuggisse. Non mi voltai, ma bastò il suo sospiro pesante perché un sorrisetto soddisfatto mi scappasse sulle labbra.
«Sul serio?» mormorò, quasi parlando con sé stesso, mentre stringeva il volante un po' più del necessario.
Io continuai a fissare fuori dal finestrino, fingendo di non sentirlo. Ma la provocazione non era ancora completa, almeno secondo il mio standard personale. Così, senza dire una parola, mi chinai verso la borsa ai miei piedi, tirai fuori una biro e aggiunsi un dettaglio in basso al post-it: una mano con il dito medio alzato, stilizzata ma decisamente riconoscibile. Un vero colpo di genio.
Papà se ne accorse pochi secondi dopo. Quando i suoi occhi si soffermarono sul nuovo elemento artistico, lanciai una rapida occhiata al suo riflesso attraverso il finestrino. La sua espressione passò da sorpresa a pura esasperazione in meno di un secondo.
«Anne...» Il tono era un misto di rimprovero e incredulità.
«Cosa?» ribattei innocente, rimettendo a posto la biro e incrociando le braccia con soddisfazione.
«Che cos'è quello?» domandò, indicando il post-it con un cenno del mento, anche se conosceva benissimo la risposta.
«Un'aggiunta creativa» spiegai con calma. «Serviva qualcosa per bilanciare la composizione.»
Lui scosse la testa e serrò le labbra, come se stesse facendo uno sforzo sovrumano per non fermare la macchina e lanciarmi fuori. «Toglilo.»
«Non ci penso nemmeno» risposi tranquilla.
«Anne, non è divertente.»
«A me sembra divertente.»
Si passò una mano sul mento e lasciò andare un altro lungo sospiro. «Ti ho detto di toglierlo.»
«E io ti ho detto che è decorativo.»
«Decorativo?» ripeté incredulo. «Una mano con il dito medio?»
Mi voltai verso di lui, mantenendo un'espressione serissima. «Papà, è arte. E tu non capisci niente di arte.»
Si voltò per un istante, gli occhi spalancati come se avessi appena detto qualcosa di scandaloso. «Non capisco niente di arte? Anne, io ho un MBA e un PhD. So distinguere l'arte da una provocazione infantile.»
«Davvero?» ribattei, con un sopracciglio alzato. «Be', io ho... un dottorato in essere tua figlia.»
Lo vidi trattenere un sorrisetto, ma non abbastanza da nasconderlo del tutto. «Ah sì? E sai almeno che cos'è un MBA o un PhD?»
Aprii la bocca per rispondere, ma la richiusi subito, perché – in effetti – non avevo la minima idea di cosa stesse parlando. Optai per una risposta evasiva: «So che sono cose che usi per vantarti. Conta?»
Scosse la testa, scuotendo le labbra in una smorfia divertita. «Anne, ti giuro... Sei impossibile.»
«E tu sei prevedibile» ribattei, tornando a guardare fuori dal finestrino.
Ci fu un attimo di silenzio, ma il post-it continuava a troneggiare sul cruscotto, un piccolo ma significativo trionfo personale. Papà provò a ignorarlo per altri due chilometri, ma alla fine cedette.
«Okay, basta. Lo togli subito.»
Non risposi. Mi limitai a tamburellare le dita sul bordo della portiera, fingendo di non aver sentito.
«Anne» ripeté, stavolta più deciso.
Niente.
Provò un'altra tattica. «Se lo togli, facciamo una sosta extra e ti compro un frappè al cioccolato.»
Non mi mossi.
Fece una pausa, poi sospirò. «Ti sto parlando. Non è educato ignorare tuo padre.»
«Non è educato neanche trattarmi come se avessi cinque anni» ribattei senza voltarmi.
Rimase in silenzio per un attimo, probabilmente cercando di trovare una frase che mi facesse cedere. Alla fine, ci riuscì: «Se non lo togli, lo incornicio e lo appendo nel mio ufficio al centro di accoglienza. Sai, proprio accanto alla tua opera precedente. Quella che ha fatto ridere tutti quei giovani ragazzi quando sono passati nell'ufficio l'ultima volta.»
Mi voltai di scatto, aggrottando la fronte. «Non oseresti.»
Un sorrisetto comparve sulle sue labbra. «Oh, oso eccome. Anzi, potrei intitolarla: La vendetta di Anne. Sono certo che chiunque venga a cercare aiuto apprezzerebbe il tocco ironico.»
Sentii le guance scaldarsi e il mio orgoglio vacillare. «Non puoi parlare sul serio! Hai già appeso quel disegno orribile che avevo fatto quando avevo cinque anni, non ti basta?»
«Quello è un pezzo d'arte inestimabile» ribatté con aria solenne, una mano che batteva sul volante per sottolineare le parole. «Pensi che tutti quei sorrisi siano arrivati per caso? Li ho visti indicarlo e ridere per giorni.»
Sospirai, esasperata. «È già abbastanza umiliante che tutti vedano quella cosa... non serve aggiungere altro al mio curriculum di figuracce pubbliche!»
Lui scrollò le spalle, tranquillo. «Allora direi che sai cosa fare.»
Lo fissai per qualche secondo, valutando la sua serietà, ma era evidente che non bluffava. Sbuffai rumorosamente, allungando una mano per strappare il post-it dal cruscotto.
«Non vale, usi sempre le armi pesanti» borbottai, accartocciando il foglietto tra le mani.
«Benvenuta nel mondo degli adulti, tesoro» rispose, chiaramente soddisfatto, mentre un sorriso divertito gli si dipingeva sulle labbra.
Rimisi il foglio nella mia borsa, incrociando le braccia con aria offesa, ma dentro di me sapevo che aveva vinto questa battaglia. Il resto del viaggio trascorse in una tensione più leggera, con qualche commento pungente qua e là, fino a quando il nostro scontro verbale si trasformò in battute scherzose che ci strapparono qualche sorriso.
Quando finalmente arrivammo a Charleston, il sole splendeva alto, avvolgendo tutto in una luce dorata e calda. La casa degli zii, con la sua facciata chiara e il portico accogliente, ci accolse come un abbraccio. Il vialetto era costeggiato da cespugli di fiori selvatici dai colori vivaci, e il patio sul retro, decorato con sedie a dondolo e cuscini azzurri, sembrava aspettarci per una lunga chiacchierata familiare. La piscina, una recente aggiunta, rifletteva il cielo terso, mentre alcune tavole da surf erano appoggiate distrattamente contro il muro della dependance.
Appena scesi dalla macchina, la porta d'ingresso si spalancò e due figure familiari apparvero sul portico, illuminate dalla luce del pomeriggio. Zio Wes e zia Joy, sempre in perfetta armonia con loro stessi e con il mondo.
Lo zio fu il primo a scendere i gradini con il suo solito sorriso disarmante, quello che sembrava poter conquistare chiunque. Indossava una maglietta sgualcita e pantaloncini da surf, i capelli scuri e mossi arruffati, con qualche ciocca argentata che lo rendeva ancora più affascinante. Era visibilmente pronto per una lezione di surf, con il costume ancora un po' umido e l'atteggiamento rilassato di chi ha appena lasciato il mare.
Dietro di lui arrivò la zia, radiosa come sempre. I lunghi capelli biondi erano legati in una morbida treccia che lasciava intravedere fili argentati qua e là, aggiungendo grazia alla sua bellezza naturale. Indossava un grembiule macchiato di colori vivaci e aveva ancora tracce di vernice sulle mani e sul viso, come se fosse stata interrotta nel mezzo di un'ispirazione creativa. Le sue lentiggini si distinguevano sotto il sole, rendendo il suo sorriso ancora più contagioso.
Appena li vidi, il cuore mi si riempì di calore. Perché, nonostante continuassi a ripetere che questa città non mi apparteneva, loro erano la mia famiglia. Senza pensarci, corsi verso lo zio, i sandali che battevano sul vialetto a ritmo con il mio cuore.
«Zio!» gridai, con una gioia che sembrava risalire direttamente dall'infanzia.
Lui aprì le braccia con teatralità e mi sollevò al volo, facendomi girare come fossi una bambina.
«La mia Annie!» esclamò con entusiasmo, stringendomi forte. «Guarda quanto sei cresciuta dall'ultima volta! E io? Ti sembro invecchiato?»
«Forse un po'» risposi con un sorriso malizioso mentre lui mi posava a terra, ma le sue mani rimasero sulle mie spalle per un momento. Gli sorrisi dolcemente mentre mi infilava una ciocca dei lunghi capelli dietro l'orecchio.
Aveva sempre avuto un modo speciale di vedermi, sin da quando ero piccola. Non era solo lo zio, era l'uomo che, insieme a zia Joy, era stato sempre presente nei miei momenti più vulnerabili e gioiosi. Ricordo quando mi portava al parco a giocare, oppure quando mi tirava in acqua durante le vacanze estive, sfidandomi a resistere alle onde per poi insegnarmi a rimanere dritta su una tavola da surf. Non c'era mai stata paura insieme a lui, solo allegria e quell'energia travolgente che lui sembrava non esaurire mai.
Quando ero piccola, lui e la zia erano le due figure adulte che riuscivano a farmi ridere più di chiunque altro. Lo zio, con il suo sorriso contagioso e i modi sbarazzini, sapeva sempre come mettere a tacere le mie insicurezze con una battuta o un abbraccio troppo forte. E io, per lui, ero sempre la sua "Annie", quella che lo considerava un eroe in tutto e per tutto.
«Bugiarda» ribatté con una risata, scuotendo la testa e facendomi sentire un'improvvisa ondata di nostalgia. «Non mi dirai che sei diventata così seria, ora?»
«Tua moglie dice sempre che sono troppo riflessiva per i miei anni» risposi con un sorriso complice. «Ma sono sempre tua nipote, zio. E tu rimarrai sempre il mio eroe preferito.»
«Il tuo eroe, eh? Be', preferisco così» replicò, fissandomi con quello sguardo divertito che mi ricordava tanto un amore spensierato. «Tutti hanno bisogno di qualcuno che sia in grado di strappare un sorriso, no?»
Nel frattempo, la zia si avvicinò a papà, e i due si abbracciarono con una tale intensità che mi lasciò senza parole. Li osservai da lontano, notando i piccoli dettagli: le mani di lei che stringevano con forza la schiena di mio padre, il suo volto nascosto sulla spalla di lui. E papà, che raramente mostrava emozioni, chiuse gli occhi per un istante, quasi come se stesse cercando di trattenere le lacrime.
Era come guardare due metà di una stessa anima che si riunivano dopo troppo tempo.
Mi pizzicai il braccio per scacciare l'ondata di commozione che mi stava per sopraffare, ma non servì a molto. C'era qualcosa di straordinariamente bello in quell'abbraccio fraterno, qualcosa che raccontava una storia di amore, perdita e legami indissolubili.
Quando si staccarono, la zia si voltò verso di me e il suo volto si illuminò. «La mia nipote preferita!» esclamò con calore, venendomi incontro e stringendomi in un abbraccio altrettanto forte. Profumava di lavanda e vernice fresca, una combinazione che mi era familiare e rassicurante.
Ridacchiai tra le sue braccia. «Anche perché hai solo me» le ricordai.
Lei si staccò dall'abbraccio e mi guardò con divertimento. «Già, con la speranza che nessuno dei miei figli abbia messo incinta qualcuno nell'ultimo periodo» sospirò amareggiata, ed io scoppiai a ridere.
«Sei sempre più bella» continuò, prendendomi il viso tra le mani e scrutandomi con un'espressione affettuosa.
«Se lo dici tu» risposi ridendo, cercando di nascondere l'imbarazzo.
Lo zio, intanto, si era avvicinato a papà e gli aveva dato una pacca sulla spalla, il sorriso ancora stampato in volto. «Ehi, vecchio burbero!» lo salutò, con quel tono rilassato che gli era naturale. Soffocai una risata e alzai un sopracciglio verso mio padre per fargli intendere che non ero l'unica a chiamarlo così.
«Non sono così vecchio da non poterti prendere a calci» ribatté papà, incrociando le braccia al petto.
«Vedremo se ne sei ancora in grado» rispose lo zio, con una strizzatina d'occhio. «Ma prima devo insegnare a un gruppo di principianti come non annegare.»
«Spero solo che non torni con un'altra spalla slogata» intervenne la zia, scuotendo la testa.
«Tranquilla, Bunny. Sono ancora il re delle onde!» replicò lui, gonfiando il petto in modo esagerato e lanciandomi un'occhiata complice. Sorrisi a quel nomignolo, perché da che avevo memoria l'aveva sempre chiamata così, ed era... dolce.
Scossi la testa ridendo. «Non cambierai mai.»
«E guai se lo facessi» rispose lui, passandomi un braccio intorno alle spalle e stringendomi con calore. «Tua zia potrebbe decidere di lasciarmi.»
Papà rimase solo il tempo necessario per scaricare i bagagli e assicurarsi che fossi sistemata. Prima di andarsene, mi prese da parte, il suo volto serio e pieno di preoccupazione.
«Starò via solo qualche giorno, lo sai, vero? Ho un po' di lavoro a Savannah, ma torno presto. Promesso.»
Annuii, evitando di guardarlo negli occhi. «Va bene.»
Mi diede un leggero bacio sulla fronte, poi salì in macchina e se ne andò. Rimasi a fissare la strada vuota per qualche secondo, sentendomi improvvisamente molto sola, nonostante fossi circondata da volti familiari e sorrisi caldi.
La zia ci osservava con un sorriso e le mani sui fianchi. «Allora, tesoro, hai fame? Ho preparato dei muffin al limone stamattina. Oppure vuoi che ti faccia un tè?»
«Tè e muffin suonano perfetti» risposi, lasciandomi trasportare da quel senso di casa che mi mancava da troppo tempo.
Lo zio fece un cenno verso la piscina. «E dopo, un bel tuffo rinfrescante. E questa volta niente scuse.»
Sorrisi, pensando che, per la prima volta dopo giorni, forse non sarebbe stato così male passare l'estate lì.
Mi guardai attorno un'ultima volta, osservando il patio decorato con cuscini colorati, le luci che tremolavano dolcemente sull'acqua della piscina, e sentii una strana sensazione di conforto. Speravo davvero che quell'estate potesse rivelarsi bella, nonostante non fossi in un posto che amavo particolarmente. Ma con loro, con lo zio Wes e la zia Joy, sapevo che avrei trovato un po' di serenità.
Entrando in casa, lasciandomi la brezza leggera del venticello estivo alle spalle, sussurrai a me stessa: Forse tutto potrebbe ricominciare da qui.
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