26. Piccoli trionfi
«Forse è meglio se guido io», dissi avvicinandomi alla sua auto, parcheggiata in un vicolo vicino al pub. Lo vidi sbarellare appoggiandosi al cofano, prima di cadere di faccia sul marciapiede. «Sì, guido io!», dissi definitivamente.
«Okay, ma non rigarmi l'auto», mi minacciò lanciandomi il mazzo di chiavi.
«Sì, signore!», montai in auto e infilai la chiave nel quadrante, poi misi in moto e sfrecciai in strada. «Allora, ora mi racconti?»
Con la coda dell'occhio lo vidi annuire, poi si mise a sedere composto.
«A Travis non piace affatto parlare della sua famiglia. Sua madre è una schifosa alcolizzata, che si è fatta mettere incinta da un marines. È inutile dire che Travis ha avuto un'infanzia da cani, è scontato. Quando ha compiuto diciotto anni se nè andato da quell'inferno...», si fermò un attimo e, nel silenzio, lo sentii cercare qualcosa dentro il vano porta oggetti. Ero talmente dispiaciuta da quello che fin'ora mi aveva detto, che volevo sapere tutto all'istante.
«Dove diavolo...», lo sentii biascicare.
Mi accigliai non togliendo mai gli occhi dalla strada. «Cosa cerchi?»
«Acqua. Ho sete».
Sbuffai. «Berrai quando arriveremo, ora continua!»
Ero impaziente.
«Okay, okay ma stai calma! Allora, dove ero rimasto?»
Sbuffai innervosendomi. «A quando se nè andato di casa».
«Ah, giusto. Allora, quando se n'è andato di casa visse qualche settimana a casa mia. I miei genitori gli volevano bene e volevano aiutarlo. Comunque, durante queste settimane lavorò in un bar dove, con lo stipendio, mise da parte un po' di soldi per andare a vivere da solo. Non ce l'avrebbe fatta a pagare l'affitto con quel poco che aveva, così andai a vivere con lui. Fortunatamente riuscì ad ottenere una borsa di studio, così andammo al college insieme. Non è mai stato un teppistello, ma un bravo lavoratore», finì di parlare e tra noi cadde il silenzio.
Aspetta un attimo e poi dissi: «Ma perchè sua madre continua a chiamarlo?! Insomma a lei non gliene fregava niente di suo figlio!»
«Non vuole che lui si rifaccia una vita senza di lei, così lo fa sentire in colpa. Lui ci sta male, ha provato a farla curare con quelle terapie di gruppo – quella roba là, insomma – ma ritorna sempre al punto di partenza: una bottiglia di whisky in mano».
Ad ogni parola che mi diceva, io mi consumavo sempre più. Come faceva a portare tale peso sulle spalle ogni santo giorno?
Poi ebbi un flashback:
«Perchè stamattina eri preoccupato quando ti hanno chiamato?», gli domandai visto che si era comportato in maniere molto strana.
Dopo la mia domanda lo sentii irrigidirsi e staccarsi togliendo il braccio dalle mie spalle.
Ecco di nuovo il Travis freddo.
«Non sono affari tuoi», scosse la testa.
«Ma io voglio saperlo, hai una fidanzata?», mi imbarazzava chiederglielo, ma non volevo fare la troia che va con i ragazzi delle altre.
Scosse la testa arreggendosela con le mani. «No! Ma che dici!»
«Allora chi era?»
«Era mia madre!», sbottò tirandosi sù in piedi.
Ne rimasi colpita.
«Qualcosa di grave?», domandai preoccupata.
«No no, non sono affari tuoi», sentenziò per poi far piombare il silenzio tra di noi.
Ci rimasi alquanto male.
All'improvviso tutto mi fu chiaro, ora non restava altro che risolvere questa situazione.
«Ma... avete provato a fermarla in qualche modo? Insomma, a fare qualcosa?!», sbottai.
Ero incavolata con il mondo, come potevano accadere certe cose?!
«Pensi che non abbiamo provato? Centinaia di volte abbiamo tentato! Addirittura una volta la minacciai di denunciarla! Quella sparisce due, tre mesi poi, quando Travis sembra stare meglio, lei lo chiama e siamo punto a capi!»
Proprio quando finì di parlare, parcheggiai nel villaggio. Era ormai l'alba ed aveva cominciato a gocciolare.
Appoggiai la testa sul volante. Ero sfinita, poi sentii la sua mano poggiarsi sulla mia schiena.
«Prima o poi starà bene, Evy», provò a confortarmi.
Avevo le lacrime agli occhi.
Tra circa una settimana non l'avrei più rivisto e l'avrei lasciato in mille pezzi.
Uscii velocemente dalla vettura, che a momenti si era fatta più stretta.
«No! Lui starà sempre male se quella strega continuerà a cercarlo!», farneticai in preda alle lacrime e alla rabbia. «Non può continuare a soffrire».
«Lo so, per questo gli sto accanto più che posso», si avvicinò a me abbracciandomi.
«Lo voglio vedere», dissi ad un certo punto. Ma ne ero sicura di quello che volevo fare?
«Cosa?», mi chiede stupito.
«Voglio vedere come sta», tirai sù con il naso, mentre ci dividemmo da quell'abbraccio.
«Vieni», mi sorrise per poi cominciare a camminare verso gli alloggi. Man mano che ci avvicinavamo, mi sentivo sempre più nervosa. Quando giungemmo davanti al suo bungalow, mi gelò il sangue. Mi sudavano le mani per l'agitazione, mentre la pioggia continuava a cedere leggere su di noi.
«Sei pronta?», mi fece voltandosi verso di me.
Eravamo l'uno accanto all'altra.
Annuii fissando quella casetta ingrigita dal grigiore di quella giornata. Deglutii, poi lo seguii. Ci avvicinammo pian piano alla porta, lo osservai tirare fuori da una tasca dei jeans il mazzo di chiavi, dopo di che fece scattare la serratura ed aprì.
Era molto tempo che non entravo lì dentro.
La piccola entrata, che faceva anche da salotto, era buia e tetra. L'aria era pesante e, mentre entrai rimanendo sulla soglia, notai un caos generale all'interno: il piccolo tavolincino davanti a divano era ricoperto da lattine vuote di birra, mentre a terra erano sparse scatole di cartone dei cibi da asporto.
«Scusa per il disordine», cercò di sistemare invano, anzi peggiorò la situazione buttando a terra delle lattine dal tavolincino.
«N-non importa», bisbigliai immobile sentendomi nervosa e in imbarazzo. Poi, da una delle stanze, uscì fuori Taylor rigorosamente in boxer, che appena mi vide lì mi venne incontro abbracciandomi. Si staccò da me e si mise a postp il ciuffo di capelli, che gli era caduto davanti agli occhi.
Mi sentivo ancora in imbarazzo. Ero lì, in piedi, la porta ancora aperta dietro di me mentre il rumore della pioggia si stava facendo sempre più assordante.
Lo osservai bene: aveva gli occhi stanchi, come se non avesse dormito da giorni. Sembravano tutti quanti provati da questa situazione e li capivo perfettamente.
«Cosa ci fai qui?», mi domandò.
«Voglio vedere Travis».
Lo sentii sospirare mentre si stava dirigendo verso il divano, dove si sedette accanto a Cameron. Io rimasi lì, in piedi.
«Non so se ce la farai. È parecchio giù e si è chiuso in camera sua», mi spiegò Taylor.
«È anche mia quella stanza. Vorrei entrarci prima o poi», sputò fuori Cam.
Non ce la facevo più. Sembravano tutto essersi arresi, non potevano lasciarlo lì, solo, a piangersi addosso. Qualcosa in me scattò, era ora di fare qualcosa. Chiusi di scatto la porta facendola sbattere, poi buttai a terra tutte le lattine che stavano sopra il tavolincino e mi ci misi a sedere, così che potei guardarli entrambi negli occhi.
«Non possiamo lasciarlo solo. Dobbiamo aiutarlo!», feci.
«Te l'ho già detto, ci abbiamo provato! In tutti i modi possibili!», si alzò in piedi di scatto Cameron. Si stava innervosendo.
«Io voglio vederlo!», mi alzai anch'io in piedi seguendolo.
«Okay, okay», mise due mani davanti a sè per calmarmi. «Ma noi non possiamo aprirti, si è chiuso da dentro». Annuii, poi in silenzio mi avvicinai alla porta della sua stanza.
Bussai una volta.
Silenzio. Sembrava non ci fosse nessuno dall'altra parte.
Ci riprovai, ma ancora niente.
Anche nel salotto regnava il silenzio: Cameron e Taylor, ora in piedi infondo al corridoio, mi stavano osservando attentamente.
«Travis!», lo chiamai continuando a bussare.
«Sono io, Evelyn! Aprimi, ti prego!»
Sentivo gli occhi pizzicarmi, le lacrime sarebbero giunte ben presto.
«Dai, ti prego! Voglio aiutarti!»
Dopo qualche secondo di silenzio, sentii la sua voce dall'altra parte, quasi in un sussurro: «Va via...».
«No! Voglio capire, per favore», singhiozzai.
«Non puoi capire».
«Non è vero, Travis! Se mi spieghi cosa sta succedendo, posso aiutarti!»
«Va via, andatevene. Lasciatemi in pace».
Non riuscivo a smettere di piangere, per la disperazione appoggiai la fronte alla porta gelida.
«N-non posso andarmene, Travis. Perchè...», mi asciugai le guance, poi presi coraggio e dissi: «... perchè io ti amo, Travis, e non posso vederti soffrire. Mi fa molto male vederti in questo stato, sapere che stai così. Non te lo meriti. Sei una persona meravigliosa, ti amo e non potrei mai lasciarti a consumare pian piano», mi sfogai tra le lacrime. Gli avevo detto tutto ciò che pensavo, mi ero esposta per lui.
Dopo di che calò il silenzio.
Non sentii nessun rumore dall'altra parte.
Mi arresi.
Mi incamminai dai ragazzi, sprofondando tra le braccia di Cameron in un pianto liberatorio, disperato.
Non ce la facevo più.
Cam cercò di calmarmi accrezzandomi i capelli, mentre Taylor con una mano mi massaggiava la schiena. Quando finalmente mi calmai, mi allontanai asciugandomi le guance bagnate.
«Vai a dormire un pochino, Evy», mi consigliò Taylor rivolgendomi un debole sorriso.
Ormai erano due giorni che non dormivo, perciò cominciavo a sentirmi sempre più spossata. Così mi incamminai verso la porta e la aprii, quando Cameron disse: «Se esce ti chiamiamo».
Annuii.
Varcai la porta, ero pronta a sprofondare nel mio letto. Avrei potuto dormire per tre giorni. Scesi i tre scalini del portico.
«Evy!», mi chiamò a gran voce Cameron. Mi voltai. «Ha aperto la porta».
Corsi di nuovo dentro, andai dritta davanti la porta che era accostata. Mi girai un attimo verso i due, che mi incitarono, con un pizzico di euforia, ad entrare. Per loro era statp un trionfo ed anche per me, perchè, per la prima volta, sarei riuscita a penetrare quella corazza che usava per proteggersi ogni giorno.
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