18. Dove andiamo?

La sveglia suonò anche quella mattina, ma non mi svegliò perchè lo ero già. In realtà non avevo chiuso occhio tutta la notte. Ero sicura di trovarmi gli occhi gonfi e le occhiaie profonde, per non parlare dell'aspetto trasandato: infatti quando arrivai davanti allo specchio del bagno vidi tutto ciò che avevo immaginato.
Mi sentivo uno straccio, avevo voglia di starmene rinchiusa nella mia camera tutta la giornata ma non potevo mancare alla colazione. Mi madre ci teneva particolarmente ed almeno qualcosa nella mia vita volevo farlo bene, così mi feci una lunga doccia togliendomi quella pesantezza che sentivo addosso e poi mi vestii il più decentemente possibile.
Liz quella notte non era tornata a dormire, il letto era ancora intatto.
Mancava poco all'ora prestabilita per la colazione, ma uscii lo stesso.
Sebbene mi fossi fatta un'intensa doccia, mi sentivo lo stesso uno straccio e la mia faccia lo poteva confermare: le pesanti occhiaie e gli occhi ancora gonfi. I capelli, ancora umidi, mi cadevano morbidi sulle spalle.
Quella mattina l'aria era fredda, per essere un giorno estivo così misi una pesante felpa sopra ad una t-shirt.
Scesi le scalette del portico guardandomi intorno per rassicurarmi che non ci fosse nessuno, quando vidi che non c'era anima viva mi allontanai dai bungalow.
Avevo bisogno di una passeggiata che potesse rasserenarmi e liberare la mia testa da qualsiasi pensiero, così, senza alcun dubbio, mi incamminai verso la scogliera.
I cinguettii degli uccellini e l'aria fresca, che mi accarezzava le guance, mi accompagnarono per tutta la passeggiata. L'odore salmastro del mare nel vento, che poco a poco diventata sempre più forte, mi avvertiva di essere sempre più vicina finchè non arrivai.
La stessa panchina di qualche giorno prima, mi sembrava non averla più vista da una vita. Le gambe in ferro battuto cominciavano a colorarsi di un verdognolo causato dal sale del mare, mentre il legno era scheggiato ma non del tutto.
Ma non mi importava niente, mi sarei messa a sedere per terra se l'avessero levata; quello era il mio posto speciale e sarebbe rimasto tale ad ogni condizione.
Mi misi a sedere su di essa, l'aria fresca che mi scompigliava i capelli.
Ero sola.
L'unica compagnia che avevo erano unicamente i cinguettii degli uccellini sugli alberi circostanti.
Feci un lungo sospiro socchiudendo gli occhi, cercando di liberararmi da quel peso opprimente che non mi faceva stare bene.
Quando riaprii gli occhi, estrassi il cellulare dalla tasca centrale della felpa.
Ritornata dalla festa decisi di spengerlo, visto che Travis – odiavo ricordare quel nome – mi tartassava di telefonate e di messaggi ed ora, quando lo riaccesi, vidi la segreteria piena di messaggi di Travis.
Sospirai.
Mi aveva chiamato ripetute volte, mi aveva inviato più di dieci messaggi e dopo tutto aveva ancora il coraggio di farsi sentire: davvero pensava che volessi sentire le sue stupide scuse?!
Era quasi l'ora di colazione così, contro voglia, mi incamminai verso il ristorante.
L'aria cominciava a scaldarsi ed il sole usciva pian piano da dietro le nuvole, lungo il tragitto scalciavo pietre che intralciavano il mio cammino mentre passeggiavo a testa bassa.
Ormai sapevo a memoria il tragitto e, quando alzai la testa pronta per entrare nel ristorante, vidi una figura nota seduta sulla staccionata.
Mi guardai intorno cercando una via di scampo prima che mi vedesse, quando però fu troppo tardi e lo vidi venirmi incontro.
«Evelyn!», mi chiamò quando gli voltai le spalle e cercai di andarmene, ma mi raggiunse in fretta, più veloce di quanto pensassi, e cercò di fermarmi afferrandomi per il polso.
Mi girai di scatto.
«Lasciami!», evitai totalmente il suo sguardo e mi concentrai sul mio polso, cercando di liberarlo aiutandomi con l'altra mano.
«Evelyn, dobbiamo parlare», disse seriamente.
Non sembrava per niente distrutto, anzi manteneva la sua solita aria da duro.
«Basta, ti prego. Ti ho già detto di lasciarmi in pace, cos'è che non capisci?!», sentivo di nuovo le lacrime agli occhi e finalmente lo guardai negli occhi... sembrava dispiaciuto.
Finalmente mi lasciò andare.
«Possiamo parlare? Non è affatto come sembra ed io ho bisogno di spiegarti tutto!», mi pregò.
Abbassai lo sguardo con le lacrime che cominciavano a scendere e a bagnarmi le guance, rialzai lo sguardo e lo distolsi dai suoi occhi scrutatori.
«Evelyn...», sussurrò avvicinandosi e lo lasciai fare, poi mi abbracciò e mi appoggiò la testa sul suo petto.
Continuai a piangere e a singhiozzare, entrecmui cercava di calmarmi.
Non avevo voglia di ascoltare le sue scuse, perchè sapevo di non dovergli credere e di dovergli stare alla larga.
«Travis?!»
Appena sentii quella voce smisi di piangere all'istante e, appena alzai la testa, incrociai lo sguardo con quello di mia sorella.
«Evy?!», esclamò sorpresa ed allo stesso tempo irritata. «Cosa sta succedendo?», mi domandò ancora più irritata cominciando ad avvicinarsi sui suoi tacchi vertiginosi, ed appena fu al mio fianco mi afferrò per un polso allontanandomi dal biondo. «Cosa cazzo sta succendendo, Evy?», domandò ancora più minacciosa.
Deglutii mentre la guardavo negli occhi, che erano infiammati per la rabbia. «Posso spiegarti, Liz!»
«Sì, certo!», mi lasciò il polso pronunciando quelle parole con un accenno disgustato nella voce. «Vuoi spiegarmi come scopate!»
«Non scopiamo!», sentii alle mie spalle la voce irritata di Travis.
«E io dovrei crederci!», esclamò esasperata.
«A differenza tua, Evelyn non ha bisogno di fare la troia con i ragazzi per attirare la loro attenzione!», lo sentii ringhiare.
«Chiudi il becco, Travis! Sei solo uno stronzo e vuoi solo scoparti mia sorella!»
«Fatela finita, vi prego!», mi misi in mezzo, sentivo di nuovo le lacrime annebbiarmi la vista.
«Evy ti sto proteggendo!», si difese Liz.
«No, te stai difendendo te stessa perchè non ti importa niente di me!», urlai esasperata.
Non ne potevo più.
«Vieni, Evy», si avvicinò Travis circondandomi le spalle per allontanarmi.
Continuavo a piangere mentre il biondo mi portava verso un auto d'epoca rosso ciliegia, per poi estrarre una chiave da una tasca dei pantaloni ed aprire l'auto.
Mi bloccai.
«Sali», mi comandò.
«Dove andiamo?»
«Ti porto a fare un giro per calmarti», mi spiegò con la totale calma.
Annuii debolemente seguendolo.
Avevo bisogno di staccare e di andarmene.
Salii dentro e mi abbandonai sul sedile in pelle marrone scuro, appoggiai la testa al finestrino annebbiato dall'umidità dell'aria e guardai fuori dal finestrino, mentre il biondo al mio fianco guidava in posti sperduti nello stato di Washington.

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