Fiocco

Le settimane passavano lente e grige. La primavera non voleva tornare o forse erano le nuove medicine a farmi vedere tutto grigio.
Riuscivo a dormire, quello sì, ma ero intontita, tutto mi scivolava davanti senza che riuscisse a toccarmi.

Poi tornò.

I suoi lunghi e bellissimi capelli, dei quali andava davvero fiera, erano spariti.
Così corti che lasciavano intravedere la nuca, sforbiciati come se fossero stati tagliati di fretta.
Era cambiata, non raccontava più storie allegre, non era più esuberante, non mi faceva più le trecce.

Quella non era la Lucy che conoscevo e non seppi mai che fine fece il grifone.

«Cosa ti è successo?»

«Non mi hanno voluta. Erano persone con la puzza sotto al naso, non hanno saputo impegnarsi.»
«Sono scappata! Era troppo noioso. "non fare questo, non fare quello, sta' seduta composta". No, non faceva per me.»
«Sono morti... Erano troppo felici di essere finalmente diventati genitori che è venuto un infarto a tutti e due.»
«Non sono mai stata via, è tutta una copertura. Mi hanno torturata, è stato terribile.»
«Di cosa stai parlando?»

La sua versione dei fatti non combaciava mai con la precedente.
Incoerente non raccontò mai due volte la stessa storia e io smisi di chiederle cosa le fosse successo, convinta che non mi avrebbe mai detto la verità.

La sua permanenza non durò. Qualche giorno, forse una settimana e poi sparì di nuovo.

Questa volta non tornò.

Forse ero io a essere cambiata.

Più il tempo senza di lei passava più mi convincevo di essermela solo inventata, che non fosse mai tornata.

Che non fosse mai esistita.

«Quindi credi di averla immaginata?»

Sdraiata sul lettino verde giocavo col fiocco azzurro ricevuto a Natale.

«Ahà.»

Risposi con voce assente, troppo presa dai ricami della stoffa annodata. Creavano articolati percorsi che seguivo con lo sguardo.

«Nella foto di Natale c'è anche lei. Quello che immaginiamo non viene catturato in foto.»

Si, ma nella foto di Natale aveva i capelli lunghi e sorrideva insieme a me.

«... Era diversa.»

Lockwood prese un bel respiro, sembrava quasi dispiaciuto, forse era stizzito. Difficile a dirsi, a me importava solo di scoprire dove mi avrebbe portato il ricamo, che avevo iniziato a seguire anche con la punta delle dita sottili.

«Alice, ne abbiamo già parlato. Le persone non restano sempre uguali, cambiano...»

Continuò a parlare, ma io non lo stavo più ascoltando.

Le giornate proseguivano tutte uguali, tutte grige, tutte distanti.

I suoni mi arrivavano ovattati, lontani, la presenza degli altri mi dava fastidio, il loro provare a interagire con me, le loro mani addosso, anche il semplice fatto che respirassero vicino a me.
Volevo starmene da sola e perdermi nei ricami del fiocco azzurro.

Non mi rendevo conto del tempo che passava, giorni, settimane, mesi.
In quella stanza con un letto vuoto il tempo non esisteva, l'unica cosa a scandirlo erano le decorazioni natalizie.

Iniziarono a darmi fastidio anche quelle.

Tutti erano felici per le colorate lucine, sembravano vittima di un ridicolo incantesimo che li rendeva stupidi e ciechi.
Io ero l'unica ad accorgermi della pioggia scrosciante.
Nemmeno ricordo cosa mi regalarono.

Nella foto questa volta Lucy non c'era e io non sorridevo.

Il dottor Lockwood mi cambiò il dosaggio delle medicine più volte in quel periodo, ma il mio atteggiamento restò lo stesso.
Per certi versi peggiorò.
Iniziai a diventare aggressiva, scostante e piuttosto sboccata.
Una cosa che di certo una signorina non dovrebbe fare.
Chissà se la responsabilità di quelle reazioni era dei farmaci o piuttosto per la mia incapacità di elaborare la sensazione amara dell'abbandono.

Non volevo più legarmi a nessuno, non potevo permettere che accadesse ancora per poi restare sola.

Chiusa in me stessa l'estate arrivò e nemmeno me ne accorsi.

Avevo sedici anni, ero la più grande e la mia presenza iniziava a spaventare i piccolini.

Qualcuno aveva deciso di far girare delle voci su di me.

«Se ne sta sempre sola in quella stanza perché parla con i fantasmi.»

Diceva uno.

«Io so che nessuno ha mai provato ad adottarla.»

Rispondeva un'altra.

«Io dico che è perché è brutta!»

Supponeva il terzo con la muta approvazione di tutti che muovevano le testoline con fare convinto.

Peccato che la realtà fosse decisamente peggiore delle fantasie di qualche bambino dispettoso.

Nessuno adottava piccoli svitati. Nessuno usciva da lì dentro.

Ero a conoscenza delle voci che giravano su di me, ma non m'importava, fare amicizia era l'ultima cosa che volevo.

Lentamente tutti smisero di avvicinarsi a me e il dottor Lockwood mi prese. 

«Hai detto di non voler interagire più con gli altri pazienti.» 

Sentii un click familiare, ma non compresi subito l'origine di quel suono.

A rispondergli fu il mio silenzio. Chi tace acconsente, no? Non mi andava di sprecare fiato e ripetere cose già dette. 

«D'accordo...» 

Iniziò quando il silenzio rese più che palese la mia tacita risposta. 

«Vorrei provare qualcosa di nuovo.» 

Un cassetto che si apre, liquido che si versa, un cuccianino che sbatte contro le pareti di vetro di un bicchiere.
Ci sono certe cose che non hanno bisogno di essere viste per essere comprese.

Altre non le comprendi nemmeno dopo averle viste.

Si alzò dalla sua sedia, la vecchia pelle che la ricopriva sospirò abbandonata dal peso dell'uomo e i pesanti piedi di legno strusciarono sul tappeto che ne ovattò il suono.
Aggirò la scrivania e mi si mise davanti, piegato sulle ginocchia per stare alla mia altezza. Tirai su la schiena per mettermi seduta sul lettino verde. Mi stava porgendo un bicchiere mezzo vuoto di un liquido cristallino come acqua. 

«Proviamo con questo?» 

 Mi fidavo del dottore, non mi aveva mai fatto del male.

Bevvi tutto d'un fiato.

Aveva un sapore abbastanza strano da farmi storcere il naso mentre porgevo indietro il bicchiere adesso vuoto.

Lanciai uno sguardo alla scrivania, la lucina rossa del registratore non lampeggiava.
Il click di prima acquistò significato.
Spento.
Guardai il dottore un po' confusa, ma non ebbi il tempo di fargli domande. Crollai a peso morto sul lettino.

Mi svegliai di colpo, come quando si riaffiora dall'acqua dopo essere stati troppo tempo sotto la sua superficie.
D'istinto provai a mettermi seduta, ma le cinghie di cuoio ai polsi me lo impedirono. Tentai di sottrarmi a quella presa con un paio di strattoni, mentre cercavo di mettere a fuoco quello che mi circondava: ero in una stanza completamente bianca, una grande luce illuminava la mia pallida pelle privata della divisa.
Presa dal pudore volevo piegare le gambe, fu in quel momento che scoprii anche le caviglie bloccate allo stesso modo.

Il pizzicore al braccio arrivò con qualche istante di ritardo, più o meno insieme alla sua voce.

«Ben svegliata, signorina Alice.»

Mi voltai repentina nella direzione della voce.
Svettava alto alla mia destra, un ago fissato nel mio braccio con un cerotto bianco e una siringa vuota nella sua mano.

«Ci stavi mettendo decisamente troppo.»

Disse poggiando la siringa sul carrellino che notai solo in quel momento, così come notai solo in quel momento cosa giaceva lì sopra.

La paura è un sentimento che nasce dalle cose ignote.
Lì eravamo ben oltre la paura.

I bisturi brillavano sotto quella forte luce.
Cercai lo sguardo del dottore e iniziai a muovere le labbra come un pesce, senza riuscir a emettere alcun suono.
Parlare mi era più difficile del previsto. Avevo la bocca impastata e la lingua intorpidita. 

Lui non sprecò una parola per capire cosa volessi dirgli, le mie parole non gli interessavano. 

«C...Co-cosa...» 

Una semplice parola che si prese tutto il mio impegno per essere articolata, il quale fu distrutto dalla benda bianca con la quale il dottore mi fasciò le labbra.

Il suo sguardo era seccato, i suoi modi arroganti.
Palesemente infastidito dal mio vano tentativo di comunicare. 

Non capivo perché mi trovassi in quel luogo e la risposta mi fu data solo qualche anno dopo.

"Psichiatra uccide decine di orfani."  recitava il titolo dell'articolo su di lui. Un caso che fece scalpore. Giustificava i suoi crimini con la sua presunta genialità.
"Per un bene superiore!" mi sembrava di sentirgli dire mentre leggevo i nomi fin troppo familiari delle anime che si era portato via...

Ricordo ancora il freddo bisturi sulla pelle, e il bizzarro contrasto col sangue caldo che prese subito a scorrere dalla ferita aperta.
Le mie urla riempirono la stanza, le lacrime mi bagnarono le guance.

Nessuno venne ad aiutarmi, nessuno riuscì a sentirmi.

Quando il bisturi entrò abbastanza da colpirmi le ossa svenni.

Ho ricordi confusi, offuscati, ma sono convinta d'aver visto per un istante il dottor Lockwood senza guanti, sorridente con le mani sporche del mio sangue.

Quando mi risvegliai il petto bruciava come se ci fossero stati poggiati sopra dei tizzoni ardenti.
Abbassai lo sguardo verso il dolore.
Due tagli, uno che spaccava quasi a metà il mio petto, l'altro spostato sulla sinistra. I punti messi di fresco, le ferite ancora arrossate.
Stava appunto disinfettando il suo operato, la sua firma sulla mia pelle.

Provai ancora una volta a tirare via una mano, con l'intenzione di spingerlo, ma il cuoio stringeva ancora il mio gracile polso.

«Per oggi abbiamo finito. Resterai qui finché la ferita non guarirà.»

Sentenziò con voce incolore.

Aveva di nuovo le mani coperte dai guanti.

Stremata chiusi nuovamente gli occhi.

Mi risvegliai da sola, libera dal cuoio, con addosso la divisa che profumava di pulito e il petto che doleva a ogni movimento.
Urlare era stato inutile e non avevo più voce.
Il tempo di guardami attorno, poggiare lo sguardo sulla porta e...
Dovetti alzarmi troppo in fretta dal lettino perché iniziò a girarmi la testa.
La stanza era piccola, riucii a fare i pochi passi che mi separavano dall'uscita.
Caddi aggrappandomi alla maniglia.

Chiusa a chiave.

Mi lasciai scivolare sul pavimento, allentai la presa sulla maniglia, la quale scattò verso l'alto con un rumore sordo, le mani abbandonate sulle mie cosce, lo sguardo spento.
Un pianto senza lacrime, reso tale solo dai singhiozzi che mi muovevano le spalle con piccoli e incontrollati spasmi e la voce che provava ad uscire rauca.

Ero in trappola in quella stanza senza finestre.

Spesso venivo lasciata sola lì dentro.

Per ore e ore.

Veniva a cambiarmi la fasciatura, stava molto attento a non far infettare la ferita, chissà poi per quale motivo, tanto restavo carne da macello! Le sue cure proprio non le comprendevo, l'unica cosa certa è che dovevo uscire di lì, non potevo restare bloccata lì dentro, e per farlo dovevo essere vigile.

Smisi di prendere le medicine che mi dava, nasconderle sotto la lingua era facile, le distruggevo saltandoci sopra quando andava via e nascondevo le prove nella tasca della gonna.

Troppo preso dal suo sadico giochetto non si rese conto di nulla, all'inizio.

Non ero più stordita, tutto attorno a me sembrava riprendere intensità, come se riuscissi a vedere di nuovo i colori dopo tanto tempo, peccato fossi circondata da quel freddo bianco.

La voce tornò, un effetto collaterale che potevo sopportare, pur di andare via da lì.

Non vorrai morirci qui dentro!

Diceva ogni volta che stavo per cedere alla tentazione di zittirla.

Quando le ferite lasciarono al loro posto delle fresche cicatrici Lockwood smise di medicarmi, ma ancora non mi lasciava andare.

Cosa diavolo aspetta? Vuole farti marcire qui dentro? E se avesse capito che vuoi scappare?

Terrorizzata da quelle possibilità iniziai a essere impaziente, sempre tesa, non riuscivo a stare ferma.

Si accorse di qualcosa.

Iniziò a guardarmi con sospetto e un giorno mi fece sedere su uno sgabello, si mise in piedi dietro di me.
Teneva delle forbici strette nella mano.

«La tua ferita è guarita bene.»

Iniziò passando le dita tra i miei capelli.

«Stare qui dentro non è più necessario.»

Ne prese una ciocca e... Zak!

«Stai iniziando a mostrare segni di squilibrio qui da sola.»

Zak! Zak! Zak!

«Credo sia opportuno farti tornare di sopra con gli altri.»

Le ciocche corvine cadevano sul pavimento senza sosta.

Lucy, ecco che fine avevano fatto i suoi bellissimi capelli.
La vedevo, lì di fronte a me, seduta sullo stesso sgabello.
Piange in silenzio mentre le sue ciocche bionde cadono sul pavimento.

Così come nella foto sorridevo con lei, ora piangevo con lei, in silenzio, lasciando scivolare le lacrime sulle guance.

Inerme, quasi senza emozioni mi lascio bloccare di nuovo al lettino, questa volta la divisa resta sulla mia pelle.

Lockwood parla, io non lo sento. La piccola Lucy, con le guance bagnate, se ne sta di fianco a me.
Non dice una parola.

Quanto avrei voluto sentirla parlare.

Il dottore mi mise tra i denti un cilindro di plastica, capii dopo a cosa mi sarebbe servito. Premette due aggeggi freddi sulle tempie, attivò il macchinario rumoroso al quale erano collegati e... Lucy sparì.

Non l'ho più vista.

Mi svegliai nella mia stanza.
Stordita e con un gran mal di testa.
Provai a mettermi seduta ma il dolore era così debilitante che la mia nuca non riuscì ad abbandonare il cuscino. Dormii non so nemmeno per quanto tempo.

Scappa!

Mi svegliai di soprassalto.
L'infermiera che era venuta a portarmi le medicine si spaventò.

«Fatto un brutto sogno, cara?»

Chiese con voce gentile.

Guardai le pillole nel piccolo bicchiere, poi alzai uno sguardo supplicante verso di lei.

«I... Io non posso prenderle.»

Mi alzai dal letto aggrappandomi a lei.

«Non posso restare qui, devo andarmene. Il dottore... Il dottore...»

Il dottore era fuori la porta aperta con le braccia incrociate sul petto, il suo sguardo ambrato mi pesava addosso.

Zitta! Lavorano tutti per lui.

Abbassai lo sguardo sul bicchierino e presi le pillole facendole sparire in bocca.

«Hai bisogno di un bicchiere d'acqua?»

Chiese la donna.

Feci di no con la testa e l'infermiera abbandonò la stanza.

Lockwood rimase lì ancora per una manciata di secondi, il suo sguardo puntato nel mio, poi andò portando via con sé la sua muta minaccia.

Sputai le pillole e le nascosi nella federa del cuscino.

Devi scappare. Stanotte.

★★★
Già un nuovo capitolo?! Che velocità! Non fatevi l'abitudine, purtroppo non sono quasi mai così produttiva cwc
Finalmente sono riuscita a presentare Lockwood in modo (quasi) decente. **

Ringrazio Kleiswolf, del gruppo Tacos-Revenge, ormai ha firmato la sua condanna dicendo che si diverte a farmi da beta. unu

Vi ringrazio per essere arrivati fin qui, mi farebbe piacere cosa ne pensate, in particolare del nuovo piccolo e dolce Lockwood ❤️
Misses Mad vi saluta~❤️ ✨

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