P.O.V.
Ian
Sedici anni prima
Cerco di scoprire il trucco per poter vincere mentre al di sotto del cappello in paglia gli occhi della mamma mi fissano divertiti, in attesa di una mia mossa.
Provo a non ridere. Tento di farmi coraggio. Resto in piedi, fermo, dinanzi alla sua indagine, mentre sento il caldo di questa estate filtrarmi attraverso i leggeri vestiti che ho lottato per mettermi, trattandosi dei miei preferiti. Forse non ho fatto la scelta migliore, lei mi aveva messo in guardia, ma non posso di certo ammettere la mia sconfitta come non posso perdere in questo nostro abituale gioco.
Inarca un sopracciglio ed io di riflesso la imito.
Per poco non sbaglio. Stava per farmi ridere. Riacquisto la dovuta serietà pensando a qualcos'altro, in modo da allontanare la mente attraverso nuovi pensieri, e riuscendo nella mia impresa divento a un tratto distante.
<Che sguardo corrucciato ... a che cosa stai pensando tesoro?>
Deve aver capito il mio trucco perché tenta in tutti i modi di smascherarlo, procedendo nel parlare.
<Un brutto voto a scuola?>
<Non prendo brutti voti>
<Ma sentilo ... certo, se ti impegni così in tutto ...>
Piega la testa di lato, osservandomi con più attenzione mentre è ancora seduta sulla sua sedia da giardino, con me in piedi dinanzi.
<Non vuoi dirmelo?> Scuoto il capo e a quel punto la vedo sorridere. <Sei proprio come tuo padre ...>, mormora, ma io non faccio più attenzione a quello che vuole dirmi perché d'un tratto la strada della vittoria è spianata.
Punto il dito indice sulla sua colpa e lei, sollevando le mani, accetta la sconfitta.
<Va bene, va bene, d'accordo! Hai vinto tu>
<Hai visto?!>, chiedo entusiasta e la mamma annuisce.
<Ma si che ho visto, sono proprio davanti a te>
Rido divertito, strofinandomi poi un occhio con il dorso della mano per allontanare dei fastidiosi insetti, ma la mia distrazione le dà modo di afferrarmi, obbligandomi a sedere sulle sue gambe e a perdermi nel suo caldo abbraccio nel quale rimarrei in eterno.
<Sai che sei proprio bravo a questo gioco?>
<Perdi sempre>, le faccio notare, e sento il suo sbuffo sorpreso smuovermi i capelli biondi in testa prima che la sua mano, arricchita di piccoli anelli, mi costringa a voltare il capo per fissarla.
<E' proprio vero, ma mi piace>
<Perché?>
Sorride. <Perché anche se perdo sempre subito dopo ti vedo ridere. E farti felice è ciò che più bramo>
<Sei buffa>, commento, e lei spalanca gli occhi.
<Sono buffa?>
<Si!>, ammetto, ed ecco la mia amata tortura: la mia maglia si solleva velocemente senza che io me ne accorga e le labbra della mamma arrivano a giocare contro la mia pelle, producendo suoni strani che mi fanno sempre più ridere. <Mamma!>
<Si tesoro?>
<Non si fa!>
<E' vero amore, niente pernacchie allora. Dei morsetti?>
<Mamma!>
<D'accordo, allora niente, niente!>, cede e mio malgrado mi lascia andare. Tornato in piedi mi ritrovo ancora nei suoi occhi dolci, celesti come il cielo.
La sua mano si tende, ed il suo dito mi tocca per un'istante la punta del naso.
<Non farti mai rubare il sorriso, tesoro>
<Perché dici che sono come papà?>
<A che cosa stavi pensando prima?>
<A niente>
<Sei sicuro?>
Non molto. Pensavo a quella strana benda che porta costantemente ogni giorno sui capelli, e che ora riesco a vedere al di sotto della paglia.
Non voglio mentirle. Pensavo a quando ritorna a casa stanca.
Sono felice che adesso non lo sia, così possiamo giocare.
<Tesoro ...>
<Non pensavo a niente mamma>
<Per questo dico che sei simile a tuo padre ... entrambi cercate di proteggermi, e lottate sempre per farmi ridere, quando vorrei essere io a far felici voi>
<Noi siamo felici. Mi piace vincere contro di te>
<Poco ma sicuro questo, piccolo>
<Mi piace giocare insieme>
<Sai che cosa c'è, amore mio? Ho come il presentimento che io sia la sola a considerarlo un gioco>
Non rispondo continuando a fissarla e non le rivelo niente.
E' vero che non è un gioco, è un'impresa, e mi piace riuscire sempre a vincerla, mi piace essere in grado alle volte di battere mio padre e sconfiggere persino lei, nonostante tenti in tutti i modi di barare.
<Non dici niente?>
<E' solo un gioco, mamma ...>
<Se lo credi tu ...>
Rimango immobile come uno di quei soldatini in legno della collezione di papà, in attesa dei dovuti ordini per poter procedere.
<Ti va se per oggi cambiamo qualche regola?>
<Vuoi barare>
<Ma che hai capito? Intendevo, perché non cambiamo la nostra routine? Ti va di fare un altro gioco?>
<Quale gioco?>
<Ascoltami bene, è semplice. Devi dirmi quello che pensi su qualcosa di cui ti chiedo, e poi tu farai lo stesso con me>
<Non sembra divertente>
<Io credo che sia estremamente utile. Allora cominciamo?>, mi chiede stringendo gli occhi, ed io mi accomodo sedendomi sulle mattonelle in cotto esterne alla casa, lasciandomi il sole alle spalle senza prestare attenzione al gatto randagio che ogni giorno passeggia in questo spazio pubblico e privato, tentando di sradicare le radici delle piante e dei fiori. Presto attenzione a lei ed annuisco deciso. <Bene allora ... la scuola?>
<Mi piace, studiare mi appassiona>
<Gli amici?>
<Ne ho molti e mi fanno felice>
<Il papà?>
<E' il mio guerriero>
<La mamma?>
<La mia amica>
<Stavi per dire altro?>
<E che cosa mamma?>
Incrocia le braccia al petto, studiandomi con attenzione mentre si piega all'indietro portando le spalle contro la schiena.
<Vedi di dirmi la verità, che ti conosco>
<Così mi fai paura, mamma>
<Bene che hai paura, così si ristabiliscono i ruoli di genitore e figlio. Sai che non devi proteggermi, vero? Per questo non posso essere tua amica. Io non sono altro che tua madre>
<Ma ...>
<Nessuno "ma". Mi hai capito, Ian? Nessun "ma". Sei un bambino d'oro ma ancora troppo piccolo per pensare di occuparti di un tuo genitore. Non devi preoccuparti di niente, se non di te stesso e della tua crescita>
<Ho capito>
<Bravo. Ora sta a te>
<Non so cosa chiederti>
<Basta poco, non hai proprio niente da domandarmi?>
<Che cosa hai pensato quando hai conosciuto papà?>
Sorride in un angolo della bocca, facendo tornare una dolcezza che volontariamente mi aveva negato poco prima.
<Ho pensato che fosse un uomo con un ottimo cuore, in grado di perdersi carico dei problemi, maturo e vero, forte. Uno dei pochi>
<Dei pochi?>
<Sono pochi ad essere rimasti con queste caratteristiche>
<E perché?>
<Perché l'arroganza piace molto più del rispetto, ad altre. La fierezza vince contro la compostezza>
<Non capisco ...>
<Capirai, ma ti basti sapere che non per tutte è così ... molte donne cercano una sicurezza che sono pochi a poter offrire, nonostante vivano di pericolo. Quando rispetto e furbizia però si collimano insieme esce un connubio perfetto, capace di stregarti>
<Pensi che sia questo l'amore?>
<Un incantesimo? Può darsi. Senza dubbio è libertà. Quando una donna è libera in compagnia di un uomo è amata. Ricordati questo. Mantieni i giusti spazi ma restale sempre vicino, non potrà fare altro che amarti>
<Non mi piace nessuna adesso mamma>, noto con disappunto, in un tono di voce mio malgrado lamentoso.
<Vedrai che in futuro qualche ragazza ti piacerà, per questo devo dirtelo. Le donne sono belle complicate Ian ...>, commenta per tornare ad afferrarmi costringendomi al solletico, e nelle risa riesco a chiederle:
<Anche tu?>
<Ma soprattutto io! Non vedi come faccio ammattire tuo padre?>
<Si ...>
<Si?!>
Forse ho detto qualcosa che non avrei dovuto dire perché il solletico moltiplica la sua potenza costringendomi a stendermi sopra le mattonelle riscaldate dal sole, portando il viso all'indietro vinto dall'allegria e tenendo gli occhi chiusi e stretti, mentre la bocca spalancata lascia uscire i piccoli urli dati dalla mia voce ed il cuore mi scoppia in petto vittima di un bellissimo nuovo gioco.
Ma a un tratto un principio di tosse rompe l'idillio. Le mani scompaiono. Il sole passa dietro le nubi. Mia madre arretra tendendo una mano verso la sedia ed io al contempo mi rialzo, fissando preoccupato il suo volto chino al di sotto del grande cappello.
Una delle sue mani poste davanti alla bocca trema, senza interruzioni. Prova a racchiudersi in se stessa per tentare di smettere, ma non riesce.
Osservo quella scena sentendo dei brividi, dati dal buio calato su questo giorno e dalla visione offerta, percorrermi la schiena al pari delle sue scosse e sono attimi infiniti, più lunghi del solletico offerto poco fa.
Il sole ritorna e rischiara la scena. Mia madre ha smesso di tossire. La sua mano non trema più, e ristabilita la calma solleva la testa al di sotto del cappello e mi fissa con un sorriso.
<Va tutto bene>, mi dice, ma io non le credo, non posso fare a meno di preoccuparmi. <Avanti, continua con le tue domande>, mi incita, ed io scopro che ho solo una cosa da chiederle, e mi mette un'immensa paura. Per questo non riesce a scivolare via dalle mie labbra ma regna all'interno della mia testa, non potendo abbandonarmi mai.
Staremo insieme per sempre, io e te, mamma?
Non devo preoccuparmi. Lei mi ha chiesto di non farlo ma oltre questa finestra, dal giardino, scorgo la sedia vuota, e su di essa il suo cappello di paglia agitato dal vento di questa grigia giornata di pioggia.
Mio padre, seduto sul suo letto, tiene le mani unite tra di loro e lo sguardo perso nel vuoto.
<Papà dove è la mamma?>
<Era molto malata, tesoro. Ed ora se ne è andata>
Andata dove? Tornerà? Quando ... giocheremo insieme di nuovo?
<Sta in cielo ormai ...>
Sollevo gli occhi da quella sedia per arrivare al grigio e cupo cielo.
Non può essere intrappolata dietro quelle nubi, altrimenti non sarebbe questa giornata.
La sua malattia ha per caso macchiato di febbre anche il cielo? Dove si nasconde mia madre?
Una goccia di pioggia cade contro il vetro, mio padre non emette più una parola, resta chino con lo sguardo, in silenzio, mentre al di fuori il maltempo minaccia tempesta, ed io ho paura di questo vento che spazza via ogni cosa, ho paura che quel cappello sulla sedia a dondolo possa volare via, ma una voce mi raggiunge, ed io non ho modo di provare dolore.
"Non ti preoccupare ... pensa solo a te e alla tua crescita"
E questa è una richiesta, proviene direttamente dal cielo, allora io decido di compiere una sola piccola mossa: mi avvicino alla finestra e sorrido alle nuvole grigie, avendo ben capito l'ennesima sfida lanciata da mia madre che per il momento tenta di vestirsi di malumore per vincere. Sorrido con più forza, perché stavolta è lei a battermi.
Stavolta le posso concedere questa piccola vittoria.
Quindici anni prima
Scarabocchio con la penna sulla carta del mio quaderno di scuola, annoiato da una sconfitta imprevista, decretata dalla maestra che questa mattina ha consegnato i compiti in classe.
Non ho raggiunto il massimo ma lo farò, non sono stato il primo, lo diventerò, quel giorno ero solo distratto, mio padre mi aveva parlato del suo lavoro al cantiere, ed io mi sono perso nei ricordi del suo viso stanco, e questo mi ha confuso.
Non devo preoccuparmi.
Ma non me ne ricordo mai.
Per questo sto facendo compiere cerchi infiniti alla penna, intrappolando in quest'infinito intreccio anche lo sguardo, preso in trappola da cattivi pensieri corsi ad appesantirmi l'animo.
<Bene ragazzi, spero che vi siate svegliati. La maestra Carrie mi ha appena detto che ha consegnato i compiti, e che non sono andati troppo bene, quindi vedete di impegnarvi di più. Le consegne per oggi le avete svolte?>
Ho gli esercizi pronti proprio sotto la mano sinistra, spartiti di note studiate a memoria per poter imparare il solfeggio ed il ritmo legato agli accordi, e come d'abitudine, sotto la guida della maestra di musica, la classe inizia a leggerli ad alta voce cantandoli, dando la giusta intonazione alla loro melodia.
La porta si apre a un certo punto però ed io non sollevo lo sguardo.
<Si?>, chiede la maestra, intrappolando nel suo palmo le giovani voci dei miei compagni.
<Professoressa questi sono i ragazzi dell'altra classe, si ricorda?>
<Ma certo, il loro professore è molto malato, venite, accomodatevi tra di noi, vedo che avete portato delle sedie. Scegliete il posto che preferite, alla fine condivideremo insieme mesi di lezioni prima che il mio collega possa guarire. Non fatevi scrupoli e riferitemi qualsiasi tipo di problema. Sapete leggere uno spartito? Si? Perfetto, allora unitevi a noi>
Mi sollevo con il busto, alzandomi dal banco senza però smettere di far ruotare la penna, mentre in sottofondo piccoli passi si alternano alla posa delle sedie e occorrono lunghi minuti per ripristinare il silenzio.
La lezione riprende, e così anche il canto delle note interne allo spartito, al quale mi aggrego, rendendomi parte del coro.
Osservo sollevando gli occhi i comandi del nostro direttore d'orchestra nei suoi cardigan accesi e nei suoi capelli lunghi raccolti, e taccio insieme al resto del gruppo quando ci comanda il silenzio ed ordina a uno dei ragazzi di cantare la prima strofa del testo, senza emettere l'ordine a parole ma indicandolo solo con un dito, e la canzone procede mentre noi, sotto abitudine e richiesta, teniamo il tempo battendo con un dito sul banco.
La canzone termina e la maestra è soddisfatta.
<Molto bene, passiamo al prossimo. Chi se la sente di cantare? L'ingresso è a cappella, le note le aggiungiamo dopo tenendo il ritmo>
La classe tace ed io prego dentro di me che non mi indichi, perché sinceramente l'intonazione è una dote che so bene non possedere, e forse se ne è resa conto ormai anche la maestra perché con un sorriso osserva il viso di una ragazza in prima fila.
<Te la senti cara?>
Non riesco a vederla, ma immagino che abbia annuito visto il sorriso che le viene offerto, ed in un attimo siamo tutti in silenzio, in attesa di vedere il gesto di partenza da parte dell'insegnante.
Le sue mani si librano in aria compiendo due grandi archi calcolati, poi le sue dita puntate danzano in pochi gesti e si bloccano, stabilendo l'inizio.
La ragazza lo interpreta e inizia a cantare ... e a un tratto sono raggelato da quella voce.
Spalanco gli occhi e mi perdo all'interno di questo suono.
Il suo timbro è melodico, bellissimo, canta all'interno del silenzio, facendosi largo fra di noi, con tono basso ma sicuro, limpido nella crescenza di tono, e sotto i cenni dell'insegnante, dopo lunghi minuti, tutti noi siamo costretti ad accompagnarla tenendo il tempo della musica.
Il mio corpo non reagisce però, se non con il solo desiderio di trovarla.
Sollevo gli occhi, il mento, il capo, allungo il collo, ma non riesco a prevederne l'appartenenza a causa della mia lontananza, e nel contempo sento ancora nelle orecchie la carezza di quella voce assuefarmi come il canto di una sirena, portandomi via i pensieri negativi, risollevandomi l'animo.
E' forse questo l'incantesimo di cui parlava mia madre?
Non mi sono mai sentito così, confuso e stordito, in cerca di risposte. Questa tenerezza ... non la sentivo da tempo, non la vivevo nel silenzio imperfetto e incontrollabile sovrano ormai della mia casa, rendendo me e mio padre servili servitori, e ritrovarla mi sconcerta, mi riporta sotto il gioco dei sorrisi con mia madre, mesi addietro, in tempi più felici.
Credo di esserci riuscito e aver trovato la ragazza, quando la testa di questa si volta rivelandomi le sue labbra immobili, e la tristezza si fa largo come una massa all'interno del mio corpo, costringendomi a rannicchiarmi di nuovo in me, tornando a scrivere su questo foglio, ma poi un raggio di luce entra dalla finestra attirando la mia attenzione e si posa proprio sulla chioma castana della giovane, molte file più avanti, sulla sinistra, che sta intonando le note.
Il cuore sobbalza nuovamente ed i miei occhi rimangono fermi a fissarla.
Il suo viso è molto dolce. I suoi occhi, verde smeraldo, sono visibilmente grandi nonostante la distanza. Il suo viso, appena squadrato, è incorniciato dai suoi lunghi capelli scuri, curati e femminili, in tinta con il suo floreale abito.
Rimango fermo a fissarla con un sorriso, persino quando la sua voce termina l'incantesimo, sotto il comando di nuovi gesti, e la pronuncia del nome di ognuna nota sostituisce la dolcezza del suo cantico.
Rimango fermo ... e quello che accade poco dopo mi stupisce per la sua perfetta casualità: attirata dal mio sguardo la ragazzina si volta quel poco che basta, rispecchiandosi nel mio sguardo.
Faccio sparire il sorriso solo per vedere chi tra noi due può riuscire a vincere ed esulto di vittoria quando la noto arricciare divertita il labbro e abbassare il viso per sfuggire alla mia indagine.
Mi incuriosisce, voglio vederla ancora sorridere. Voglio che mi alleggerisca l'animo i giorni in cui posso non riuscire da solo a farlo. Solo così riuscirò ad essere primo, e a conquistare gli abiti appartenenti ad una nuova vita che ancora non mi ero accorto essermi stata impedita di vivere.
Il suono della campanella rompe qualsiasi nostra forma di obbligo, portando la classe ad alzarsi in piedi febbricitante nel voler uscire, e presto l'aula si svuota sempre di più, lasciando me e lei in compagnia di pochi altri sei soli ragazzi, troppo distanti per sentirci dal momento che mi sono accostato a lei.
<Ciao>, la saluto, e con i suoi occhi verdi tornati su di me mi ricambia.
<Ciao ...>
<Hai una bella voce, sai? Mi piace sentirti cantare>
<Grazie ...>
<Ti va ... di essere amici?>
<Amici?>
<Non ne hai?>
<Non molti ... no>
<Mi piacerebbe molto essere tuo amico, io mi chiamo Ian> Le tendo la mia piccola mano da bambino, aspettando che lei ricambi. Solleva la propria, decorata da un fine bracciale.
<Megan ...>
<Piacere di conoscerti, Megan>
Sorride e la ricambio, stringendo con più sicurezza la sua mano.
<Non correte e state attenti a dove andate!> Urla alle spalle la voce di mio padre, ed io e lei scoppiamo a ridere continuando ad avanzare veloci.
<E non allontanatevi troppo! Fa molto caldo, vedete di non stare troppo solto il sole!>, aggiunge sua madre in una specie di rimprovero a cui Megan risponde, voltandosi solo in parte.
<Va bene mamma, non preoccuparti!> Grida, ed io rido riprendendo con lei a fianco a correre. Giungiamo nel nostro posto abituale, con la testa che un poco ci gira a causa della corsa e del calore dell'aria. Vi è una sola fontanella e da lei ci abbeveriamo, mentre il mondo desolato intorno, la città del South Side, ci risponde in un silenzio accarezzato da un flebile vento più simile a una desertica allucinazione che a una certezza.
Mi volto verso di lei, sperando di capire se pensa la stessa cosa che sto pensando io, ma notando il mio sguardo cruccia la fronte, osservandomi con quel suo cipiglio.
<Che cosa?>
<Qui è una noia ...>, le faccio notare, e lei sbuffa tornando a fissare dritto.
<Più lontano di così non possiamo andare. Li hai sentiti i nostri genitori, no? Poi fa troppo caldo>
Non ha tutti i torti, ma questa domenica mattina entrambi siamo ricchi di energie. Persino lei, anche se non vuole farlo trasparire troppo. Forse teme l'intervento di sua madre, o di essere scoperta, ma non si vive a pieno se non ci si arricchisce di rischio.
<Megan ...?>
<Si?>
<Ti va di allontanarti un po'?>
<Ma sei impazzito?>
<Non ci vede nessuno! I nostri genitori non verranno mai a saperlo!>
<E dove pensi di andare?>
Mi stringo nelle spalle, senza offrire una adeguata risposta. <Non ne ho idea ...>
<Allora fattela venire, altrimenti non ci muoviamo da qui>
La cerco nella mia testa, osservando la nostra piccola città, quando un gesto eseguito dalle sue mani attira il mio sguardo e mi fa sospirare dentro di me di assurdo divertimento. Megan si sta passando tra le mani la targhetta regalatale dalle maestre per essere riuscita a divenire la "prima della classe", e che ormai si porta sempre dietro, infastidendomi forse in maniera del tutto inconscia, ma sa bene come stuzzicarmi, l'ho capito ormai, per cui gliel'afferro ignorando la sua polemica.
<Ian ridammela subito!>
<Vieni a prendertela>
Chiude la bocca con forza, arricciandola quasi tentasse di trattenere in quel cruccio le parole e mi fa scoppiare a ridere, specie non appena avanza come una furia per tentare di riprendersi la targa.
La sollevo in alto. Io e Megan siamo quasi al pari, ci differenzia poco l'altezza, ma quanto basta per impedirle di raggiungere il suo scopo, ormai troppo in alto per le sue mani.
<Se ti prendo ...>, mi minaccia ed io scoppio a ridere, iniziando inconsciamente a correre per distanziarla da me. Lei mi segue e lo vedo, è divertita dalla novità nonostante tenti in tutti i modi di apparire infastidita.
La costringo ancora a corrermi incontro finché non la sento a un tratto raggiungermi, e nel contempo la mia testa girare, costringendo il mio corpo ad arrestarsi, improvvisamente schermato da una incomprensibile ombra della quale ancora non ne conosco la natura perché Megan mi distrae dall'intento di scoprirlo, recuperando con forza la sua medaglia.
<Oh, Ian, oh!>
<Ammettilo che è stato divertente>
<Nemmeno un poco>
<Menti>
<La vuoi smettere? Io non mento mai!>
<Certo, come no ...>
<Dico sul serio, mi infastidisce quando si prendono le mie cose, io ...>, smetto di ascoltarla, un po' avendo capito quanto poco di vero possa esserci dietro i suoi infiniti discorsi e molto essendo stato attirato con lo sguardo da questo enorme ed estraneo cancello arricchito di edera che ci sovrasta. Lo osservo ad occhi spalancati, catturandone la sua magia, mentre Megan ancora non si è accorta di niente, continuando a parlare ad orecchie che ormai non recepiscono più i suoi gentili suoni.
Le pongo una mano dinanzi la bocca, e sotto il mio palmo le sue labbra si arrestano, zittendosi di colpo. Le sue iridi più luminose nel loro accentuato color smeraldo a causa della giornata soleggiata mi studiano sorprese, tanto simili al verde che fa da sfondo. Con un dito le indico il cancello, ed ecco che la magia si fa presente ai suoi occhi accorgendosi della maestosa presenza.
Allontano la mano e faccio strada, vedendola poi seguirmi affascinata da questo strano posto, appartenente a un sogno diurno e posto al centro del niente, lontano dalla nostra città, ricco di verde, di foglie che mascherano il cuore stabile all'interno della sua ossatura come alti muri.
<Questo posto è fantastico, non pensi?>, le domando voltandomi per fissarla mentre ancora è stregata dalla vista dinanzi.
<Si, è bellissimo>, commenta ed io sorrido, ponendo una mano su una sbarra ed il piede sul fondo di un'altra.
<Attenta a dove metti i piedi Meg, potresti farti male>, le raccomando iniziando la mia salita.
<Sei sicuro che vuoi passare di qui? Questo cancello sembra molto alto, e vecchio>
<Stai tranquilla, mio padre mi ha insegnato come fare, in cantiere riesce sempre a muoversi bene. Guarda, metti un piede qui, poi uno qua, e ora sollevati>
Esegue i miei comandi, e poco più in basso mi imita, e insieme ci lasciamo cadere dall'altra parte, male, per sbaglio, tentando di sfuggire al colpo inferto dal terreno con la mano, il gomito, scoprendo quindi la fortuna avuta nel non farci male. Volto lo sguardo verso di lei, stesa al mio fianco, e scoppio a ridere del suo terrore.
Sopra di noi il cielo privo di nuvole ci macchia d'azzurro, arrestandosi solo nell'incontro del verde delle foglie, a fargli da confine.
<Hai visto Meg? Finché sono con te niente ti sembrerà impossibile>, le faccio presente, ed il suo terrore scompare.
<Lo so Ian, lo so>
Ne sono felice.
Sono felice di aver corso con lei e di aver trovato questo magico posto.
Sono felice che possa essere solo nostro.
L'aiuto a rimettersi in piedi, e una volta a fianco ci rendiamo conto di ciò che abbiamo dinanzi: una piccola casa con tre finestre e un tetto piano, un'enorme albero al suo fianco, e niente di più, ma tanto basta.
Abbiamo trovato il nostro nuovo rifugio, miglia e miglia lontano dalla polvere delle nostre strade.
Quattrodici anni prima
<Non funziona così! Hai capito almeno le regole?>, le domando seduto sul pavimento di questa casa abbandonata all'interno del nostro giardino.
Megan sbuffa spazientita dai miei rimproveri.
<Ian l'ho capito il gioco, ma mi annoia. Non ne conosci nessun altro?>
<Solo uno>, confesso, e rinnovo il suo entusiasmo, <però devi ascoltarmi bene. Quello che devi fare è dirmi a cosa pensi su una cosa che ti chiedo, poi puoi ricambiare>
<Non sembra divertente>, mi risponde, nell'esatto modo in cui mesi e anni prima risposi io stesso a mia madre.
<Fidati, lo è>
<Perché non cambiamo qualcosa?>
<Vuoi modificare il gioco?>, chiedo deluso, non volendo affatto tramutare il suo ricordo.
<No non lo voglio cambiare, solo arricchire. Vuoi sapere che cosa penso. E' un desiderio. Io però potrei non voler dirtelo. E' un volere>
<Ho paura, stai modificando tutto un po' troppo>
<Non vuoi che lo faccia?>
Abbasso la testa arrivando a confessare la mia colpa. <Era un gioco che facevo con mia madre>
<Perché?>
<Perché?>, le chiedo di rimando, senza comprendere.
<Si perché lo facevate? Perché tua madre ti faceva giocare?>
<Voleva sapere a cosa stessi pensando, credo>
<Allora noi non modificheremo proprio niente, renderemo tutto più chiaro. Puoi pure considerarlo solo un nostro gioco se vuoi, ma stai tranquillo, ti piacerà>
<D'accordo ... allora dimmi come funziona>, commento niente affatto sicuro di questa svolta, ma Megan non si lascia sconfiggere.
<Il gioco è questo, a turno ognuno di noi dice una cosa che vuole, poi una cosa che desidera e poi una di cui ha paura>
<Perché dovrei dirti qualcosa di cui ho paura?>
Megan si avvicina sempre di più, arrivando a pochi centimetri dal mio viso.
<Perché la diresti solo a me>, mi fa notare, ed io ragiono sulla verità delle sue parole.
In un anno da che l'ho conosciuta sono arrivato a stringere un'amicizia ancora più profonda, solo con lei, escludendo amici già avuti, senza voler davvero perderli. Era stata una cosa spontanea, preferivo passare in sua compagnia il tempo, e nessuno sembra esserne stato ferito. Questo però le da un'esclusiva assurda su tutta la mia vasta gamma di pensieri, e se ne rende conto.
<E va bene ... chi inizia?>
<Parti tu!>
<Ho paura che questo gioco possa non avere un senso>
<Ma te l'ho spiegato il senso!>
<Ho paura che tu non sappia affatto come divertirti, o come inventare>, la beffeggio, ed eccola che gonfia le guance, arrabbiata con me.
<Sei proprio brontolone! Nuova regola: non si deve ripetere un voglio, un desidero e un temo per due volte di seguito>
<"Temo"? Ma non era "ho paura"?>
<Ho deciso così! Smettila di brontolare, sei già a due "temo">
<Allora il turno è tuo, per due volte>
Mi fulmina con gli occhi, tenendo le braccia conserte, ma non protesta e si prende il suo ruolo. <Desidero che tu la smetta di essere così noioso e voglio che mi ascolti>
<Ma è più o meno la stessa cosa! Il "desiderio" e il "voglio", solo detti in modo diverso!>, commento arreso, e lei arriva a trafiggermi ancora più a fondo con lo sguardo.
<Non è affatto vero. Il "desidero" è come un sogno, il "voglio" invece una specie di ordine!>
<E il "temo"?>
<Un pensiero ...>
Ci può stare, ma questo gioco non mi convince affatto, e poi mi costringe ad aprirmi più di quanto non voglia.
<Sta a te>
<Desidero rimanere qui per sempre, insieme a te>
<Anche a me piace questo posto>
<A me piace restarci insieme>
<Con chi altro dovresti rimanerci? Sono la tua unica amica!>
<È inutile che lo ricordi>, brontolo risentito, ma lei si fa beffa di me.
<Non è vero?>
<Lo sai che è vero>
<Dovesti ammettere allora che sono l'unica in grado di capirti>
Non lo era. Non lo è. Ci sono molte cose che Megan non sa. Mi capisce, forse è vero, alle volte accade ma non del tutto, non sempre, non per certe cose.
È sempre una ragazza ed io sempre un ragazzo solitamente socievole ma incredibilmente timido alle volte parlando con lei.
Non è facile, ma lei sembra non aver problemi.
Io però sono imbarazzato dalla sua certezza.
È troppo sicura di se, e questo solitamente mi confonde incredibilmente tanto.
Specie con il passare degli anni.
Megan è invadente, spigliata e dolce e a me piace da impazzire che lo sia, ma ancora non mi sono abituato, e molte volte mi sento chiuso nel mio personale guscio, incapace ad uscirne.
<Smettila. E comunque anche io sono il tuo unico amico>
<Questo è vero>
<E ti sta bene?>
Solleva le spalle, giocando con qualche foglia.
<Non desiderio nient'altro, per adesso>, ammette ed io sono sempre più confuso, per questo suo modo di accontentarsi o credere che io possa essere tutto ciò di cui ha bisogno.
Mi rende felice, ma al tempo stesso affatto in grado di confermarlo. Ai suoi occhi però mi dimostro sicuro, certo di me, per quanto in realtà non lo sia perché ci sono ancora molte cose che desidero, molte cose che voglio, e mio malgrado molte altre che temo.
Temo ... di non essere in grado di farla felice veramente, come lei mi supplica di fare.
Temo ... di non essere alla sua altezza.
Temo che si stanchi di me.
Desidero che non lo faccia.
Voglio che non lo faccia.
Ma per riuscirci devo essere ancora più sicuro di me stesso, certo delle mie insicurezze, mutarmi in un piccolo supereroe. Qualcuno con una forte armatura in grado di proteggere tutti, lei da tutti.
Come non ho potuto fare con mia madre.
E mio padre non mi offre i giusti consigli.
Mio padre non mi parla.
Mio padre ... alle volte non mi guarda, resta in silenzio, e lascia che sia il ricordo della mamma a destare rumori in casa. Il cigolo del pavimento in legno sul quale passeggia, la sera tardi, nelle sue pantofole arricchite da un piccolo tacco, vendendo a dare la buonanotte a entrambi, nonostante non si possa percepire il calore delle sue labbra sulla fronte. Lo stridio delle pentole che le sue mani di fantasma animano, pronte a prepararci una cena calda, speziata dall'amore.
Mio padre non mi considera, soffre ancora, e Megan mi sta donando un quantitativo smisurato di amore che per molto mi era mancato. Lo temo. Penso sia mar riposto. Penso che sia ingiustificato. Ho paura di lui. Di romperlo, temo di sgretolarlo, desidero che mi appartenga, voglio che sia solo mio.
Megan è la mia unica amica, ma forse ho bisogno di qualcun altro per crescere. Forse ho bisogno che una terza persona rivesta i panni di quella figura forte venutami a mancare, e grazie a quella persona probabilmente potrei riuscire a scoprire me stesso, sorprendendo entrambi.
Stabilendo con un netto taglio l'uomo che voglio essere.
Passo una mano sulla fronte, accalorato a causa del gioco e delle alte temperature. Scuoto con la punta delle dita la maglia fissando davanti a me la mia squadra da calcio, composta insieme dai miei vecchi amici che dopo qualche personale reticenza mi sono spinto a chiamare.
Ora sono in attesa del mio tiro, e nonostante il sole, dritto negli occhi, riesco a far compiere alla palla un balzo abbastanza lungo da porter superare la metà del nostro campo da gioco.
La squadra vi corre incontro ma io ho bisogno di alcuni minuti per tornare a pensare alla sciocchezza che forse ho fatto.
Megan ci era rimasta male non appena l'avevo avvertita di questa giornata.
Il calcio è uno sport da ragazzi. Senza priori l'ho esclusa dai giochi ma non era quello a preoccuparla davvero: temeva mostrassi maggiore interesse in un pomeriggio passato con gli altri che in sua compagnia.
Non si rende affatto conto di quanto sia importante. O maggiormente interessante rispetto a questa banda di chiassosi che pronunciano solo rumore, senza nemmeno provare a fermarsi per parlare.
Mi hanno già stancato, ma ho bisogno di tenermi ancora un poco lontano da Megan. Ragionare in sua assenza. Pensare a divertirti. Credere alla mia infanzia e non preoccuparmi, come aveva detto mia madre.
Il timore di Megan alle volte mi soffoca, spaventa e affascina al tempo stesso.
Lei conta su di me. Ed io dal canto mio voglio rimanere solo con lei.
Dalla mia lontana postazione osservo lo schema della palla e la sua corsa, quando ad un tratto la figura di un ragazzo, steso sul prato poco distante da me, attira la mia attenzione.
È solo e sta fissando le nuvole.
La sua solitudine mi sconcerta ed il suo sguardo mi trasmette una strana dose di curiosità. Lui di sicuro è una persona in grado di gareggiare contro le sue incertezze. Sembra essermi opposto, partendo dai capelli neri, più scuri dell'inchiostro contenuto in uno dei qualsiasi calamai scolastici, per finire all'espressione seria, sicura, alla posa supina che lo vede con le braccia piegate all'indietro e incrociate per sorreggere la testa, le gambe piegate con il ginocchio di una sottostante la posa della caviglia dell'altra e mi incuriosisce.
Sembra arrogante, nonostante non lo abbia nemmeno sentito parlare, e l'occasione per farlo cade a pennello quando la palla scivola via dal controllo dei miei compagni, compiendo un piccolo volo fino ad arrivare alle gambe immobili di lui, che nel frattempo non si è accorto di niente.
Solo nel suo mondo, pieno di certezze.
Uno dei ragazzi si muove per recuperarla ma io sollevo appena la mano, impedendogli qualsiasi mossa prima di iniziare a parlare in direzione di quell'estraneo interlocutore, poso distante.
<Scusami?Parlo con te, mi senti?Non è che mi passeresti quel pallone?Sta proprio ai tuoi piedi>
Svogliatamente, accortosi della mia presenza avendo appena girato la testa, lo vedo mettersi a sedere, lanciandomi subito dopo l'oggetto dei miei desideri.
La prendo al volo e sfrutto l'ennesima occasione per avanzare domande.
<Non è che avresti voglia di giocare? Ci manca un attaccante, e tu sei qui senza far niente ...>
<Ti sembra che abbia voglia di giocare?>, mi risponde in modo gelido sottoponendomi l'ennesimo quesito.
Non mi ero sbagliato, sa il fatto suo. E questo mi spinge a reagire.
<E che ne so, mica ti leggo nel pensiero, per questo te l'ho chiesto: hai voglia di giocare? E da qui la tua risposta ...>
Sorrido nel parlare, divertito nell'essere riuscito a tenergli testa. Forse non sono tanto debole come credo, ma di certo nemmeno così sicuro come lui.
<No. Non ho voglia di giocare con te>
<Bene allora vieni a segnare i punti>, tento ancora, credendo quasi di fargli un favore, ma lui mi riporta alla realtà.
<Non esiste>
<Perché?>
<E' una cosa che sanno fare anche gli scemi>
<E tu non sei uno scemo?>
<Affatto. Se gioco gioco per vincere, non mi accontento di segnare i punti su un cartellone>
Non mi sbagliavo.
Inconsciamente mi trovo a sorridere con più certezza.
È proprio il tipo di persona che stavo cercando.
<Allora vieni e gioca>
Esita, ma alla fine cede, e si schiera nella mia squadra avversaria.
Vuole andarmi contro? Può essere divertente.
Se fossi stato al suo posto non avrei mai azzardato una mossa simile ma è interessante entrare nella sua testa e capire come ragionano le persone risolute.
Sotto i miei occhi fa una serie di palleggi, mostrandomi una bravura riconfermata al seguito del fischio di inizio quando, dopo una serie di slalom, riesce a passare la palla alla sua squadra, evitando l'attacco della mia.
Ma l'audacia alle volte ti sconfigge e forse è una lezione che deve ancora imparare. La vedo vestire gli abiti larghi e sudaticci di un componente piuttosto in carne della mia squadra e non ho modo di fermarla: con una mossa il ragazzo nuovo viene placcato da questa specie di giustiziere ed è costretto a cadere a terra, nell'erba bagnata.
Vorrei ridere di lui e dell'odio che i suoi occhi sembrano far traboccare ma cerco di contenermi e gli vado incontro, affacciandomi nel sipario della sua visuale.
<Non male, sei bravo a giocare, ma vuoi fare tutto da solo: è necessario il lavoro di squadra per poter vincere>
E forse in questo posso aiutarlo.
Forse ... l'uno può avere fastidiosamente e innegabilmente bisogno dell'altro.
Gli porgo la mano per facilitargli il compito di risollevarsi e lui me la stringe, con uno sguardo ben più cupo di prima.
Dove è l'origine di tutto questo suo rancore?
<Calma è solo un gioco in fondo, non mi guardare tanto male, avrai modo di rifarti .... Comunque io mi chiamo Ian, e vivo in quella casa laggiù, non ci eravamo ancora presentati, tu come ti chiami?>
<Caleb>
<Beh Caleb, alzati in piedi, mancano ancora venti minuti prima della fine, non darti subito per sconfitto, su>
A questo punto mi sorride, e anche se la sua espressione sembra richiamare una sfida io l'accetto, perché forse mi può essere utile.
Forse Caleb si lascia modificare solo una volta sconfitto, battuto nei suoi ideali, distrutto nelle certezze, anche se sicuramente potranno essere solamente assopite e affatto sgretolate. Posso riuscire a vincere ed acquistare la giusta sicurezza di cui necessito.
Forse, insieme, Caleb, possiamo imparare a crescere.
Forse cambieremo.
Forse miglioreremo, peggioreremo, non importa.
Perché adesso ci siamo conosciuti, ed io sono certo di aver trovato l'esatta metà della mia anima che al mio spirito ferito mancava.
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