65- Pesi inutili
P.O.V.
Dafne
Il giorno bussa prepotentemente al vetro della finestra di questa stanza illuminata oro, rendendomi partecipe di un nuovo giorno e arrivando a macchiare le lenzuola del letto, percepito incredibilmente freddo stanotte, in un segno di saluto.
William non è tornato ed io sono sveglia da circa un'ora, intenta a guardarmi attorno, senza avere la forza di alzarmi e cambiarmi.
Per andare dove, poi?
Nessun luogo mi è concesso. Nessun posto che non sia la stanza, la serra di inverno, o uno dei salotti in cui non è indetta una delle tante riunioni organizzate in questa villa con una frequenza da capogiro.
Vorrei andare al maneggio, vedere come sta Alhena. Deve essere spaventata dopo quello che abbiamo passato.
Io lo sono? Non riesco a definirlo. Ma il corpo sembra volerlo fare quando sobbalza in maniera del tutto involontaria vedendo Richard Lee comparire sulla soglia.
Spalanco gli occhi e provo a non aver timore della sua presenza. Ho disubbidito a un'ordine ma l'ho fatto per un motivo valido.
Può bastare? Lui dovrebbe conoscerlo. E vorrei avere indietro la giusta rabbia per parlare con odio verso l'uomo che, in un battito di mani, sarebbe stato in grado di seppellire per sempre il ricordo di mia madre uccidendo quel piccolo frammento rimastomi di lei ... ma non la trovo, mi avvince di nuovo la paura vedendo il suo sguardo e mentalmente mi maledico.
<Buongiorno Dafne, come stai? Il piede ti fa male?>, mi domanda avanzando verso la mia postazione. Schiena alla spalliera, sono seduta e sepolta sotto l'arricciatura dei cuscini e delle lenzuola, affatto in grado però di proteggermi dal suo sguardo.
<Nulla di grave>
<È stata una brutta caduta>
<Poteva capitarmi di peggio>, sibilo a questo punto, ferita dalla sua ironia.
<Già ... mi scuso per quello, ma vedi cara Dafne io, al contrario di mio figlio, non amo chi mi sfida. Sbaglio o Monty ti aveva detto di non gareggiare? Era un'ordine ben preciso, perché hai disobbedito?>
<Lo sa>
Mi osserva con pazienza, accomodatosi ormai di fronte a me sul materasso, con le mani intrecciate tra loro. Sorride, quasi avessi in qualche modo vinto, ma non ha idea di quanto mi senta confusa e tradita al momento.
<Si ... lo so bene. Amavi molto tua madre, come potevi non farlo? Era una persona perfetta e tu una figlia perfetta>
Tento di trattenere una lacrima ma ingovernabile quella scivola via lungo il mio viso, cadendo sulle coperte. Mordo un labbro costringendo le altre a non compiere la stessa fine e ci riesco, essendo intrappolata nel suo enigmatico sguardo, confuso.
<I miei figli non mi amano, invece. Eppure ho dato loro tutto. Come può un figlio odiare così tanto il proprio padre? Vuoi spiegarmelo, Dafne cara?>
Aggrotto la fronte senza poter comprendere a pieno le sue parole, ed un dubbio mi avvince, trascinando dietro di se una scia di terrore.
<Ti stai chiedendo dove sia William, non è vero? Lo conosci il "Rapsody", Dafne? È un locale, un nostro locale. Niente di troppo importante, commerciamo con lui in alcolici, gliene forniamo per mesi interi.
E ieri notte era la notte della consegna.
Si occupano sempre i miei uomini di scaricare le merci mentre parlo con il proprietario, ma vedi ... ieri notte ... ho avuto come un presentimento. Vorticava nell'aria. Mi ha messo in allerta.
Sono stato messo in guardia e allora ho capito ... che si trattava di una trappola, organizzata da mio figlio e chissà chi altro ma per fortuna ho ancora il giusto fiuto per questo genere di affari e sono andato via. Una reminiscenza della mia vita passata, per così dire>
Il mio presentimento confermato e aggravato lascia il corpo in uno stato di apparente gelo dal quale mi è impossibile scappare mentre Richard continua con calma, abbassando gli occhi verso l'intreccio delle sue mani.
<Dove è William, quindi? E in quale altro posto se non dietro le gonne di sua madre? Si trova al SaPlaya adesso, chiuso in una delle stanze con la cara Natalie e un ago impiantato nel braccio>
Tremo di paura e odio immaginando William steso su quelle coperte con affianco l'unica donna capace di intrappolarlo nel suo maligno abbraccio, non appena i dubbi lo consumano come tarli.
<Forse realmente William mi ama. Lo comprendo adesso, parlandotene.
Mio figlio ha deciso di vincolarsi in una stanza ad aspettare la mia fine piuttosto che sancirla lui stesso con un colpo di pistola, come gli ho invece insegnato.
Vorrebbe dimostrarsi forte ma non lo è affatto, perché ha compreso il mio insegnamento solo per metà: l'emotività ti uccide, ancora prima che tu possa scalfire il tuo nemico. Mi sembrava di essere stato chiaro. Si era dimostrato così freddo nel corso degli anni ed è assurdo che il suo errore si sia manifestato proprio con me.
Ma tu ne sai qualcosa del suo cuore, non è vero, piccolo angelo? Sai dirmi perché mio figlio ha agito così? E perché voglia tanto il mio trono quando sembra avere già tutto?>
Nella testa rimbomba solo il soprannome "angelo", lo stesso usato da William e che Richard ha voluto infangare allo scopo di ferirmi nel bel mezzo di discorso che già mi sta facendo a pezzi.
<No? Non lo sai? È un vero peccato, pensavo che almeno con te mio figlio si aprisse ma infondo sembravi non sapere neppure di questa sua bella trovata. Quante cose ti nasconde, piccola? Ha paura che tu possa allontanarti per sempre da lui? Che scappi via? Hai idea di che genere di persona sia?> Le mani mi tremano e dagli occhi cadono nuove lacrime che lo fanno sorridere e mi conducono verso un'apice estremo di fragilità. <Uccidere il proprio padre ... se tu avessi solo un'opportunità non riporteresti tua madre indietro?>
Lo farei ... l'amore di un genitore è impagabile.
<Come immaginavo ... riflettici bene, Dafne, affondo>, aggiunge alzandosi da questo letto, <non vorrei mai vederti soffrire, in effetti non lo avrei mai voluto ma tu sei entrata nella nostra vita in questo modo ... ed ora hai da fare i conti con tutto ciò che questa scelta comporta. Guarisci presto, i fiori in questa casa stanno appassendo>
Lentamente si volta camminando verso l'uscita e solo quando sono sola la voce rilascia un piccolo gemito di dolore, quella specie di grido soffocato che sono riuscita a trattenere per tutto il tempo ma che adesso esige uno sfogo.
Mi piego in me stessa sentendo paura e terrore scavare con le loro mani frugandomi l'animo. Piango e grido di quella tortura ma nessuno mi sente, nessuno perché sono sola, con il viso rivolto verso un bagnato cuscino. William non c'è e io sono sola, come alla morte di mia madre, come molti e mai dimenticati anni fa.
P.O.V.
William
Da dietro le mie palpebre il sole mi raggiunge.
Sorge trovandomi disteso su queste coperte, nudo dalla vita in su e con il viso ancora sporco da ore passate senza sonno.
È tutto finito?
Nel cielo c'è l'alba di un nuovo giorno.
Tutto è passato?
Ho timore e entusiasmo a vorticarmi nell'animo, ed un respiro spezzato e stanco, resosi partecipe di questo parto.
Nella camera di questa casa il silenzio è sovrano, il rumore del mondo si è acquietato e mi raggiunge la pace, un'emozione che non riesco completamente a percepire, capire, mentre la osservo confuso trovando di nuovo quella specie di stendardo ad acquerello sul soffitto.
L'angelo caduto adesso non ha padroni, ne dita puntate contro a sancirgli la condanna. Non ha più il corpo contratto ma un sorriso di vendetta, e insieme a quella anche di vittoria.
Mio padre, Richard Lee, è morto.
Mi sollevo mettendomi a sedere, per poi passare entrambe le mani tra i capelli ascoltando il religioso silenzio che governa anche nei miei pensieri, dopo la sconsacrata danza eseguita da loro ieri notte, sulle note del delirio.
Recupero lentamente la fondina ascellare e da lei uno dei due revolver che quotidianamente la decorano d'argento.
Afferro l'arma, e impostata la sicura e posto il dito sul grilletto, resto fermo a fissare le mie iniziali incise nell'incastellatura con un'elegante corsivo, in memoria della scelta fatta da mio padre.
W.L.D.
Inconsciamente le mani sfiorano la D in maniera lenta, facendo affiorare nella mente la voce degli assonnati pensieri.
Sospiro e ripongo la pistola. Recupero la maglia, quindi la fondina, pensando ai miei doveri da ora in avanti quando da dietro la porta mi raggiunge un sottofondo femminile di voci, capaci di arrestare la mia pensierosa vestizione.
<Il"Rapsody"?>
<Proprio così!>
<Ma non sono nostri clienti?>
<Non so dire, ma se lo sono stati di certo non torneranno a esserlo in futuro. Il capo di quel posto è morto, con un colpo di pallottola>
<Che cosa? Sul serio? Ma lui non arriverebbe mai a uccidere>
<È stato uno dei suoi uomini infatti. Qualcuno dice si trattasse di una trappola>
Accorro verso la porta, la spalanco e in risposta le due giovani donne, prostitute di questo posto, sobbalzano e si dipingono in viso, vedendomi, un'espressione di sorpresa e timore, sotto gli strati di quel pesante e economico trucco, usato al pari di una maschera.
<Di cosa state parlando?>
<Mio signore ...>
<Di che cosa stavate parlando?>, ripeto con un tono maggiormente infastidito dai loro reverenziali modi del tutto sconvenienti.
<Di vostro padre, signore. Sembra che ieri notte abbia avuto dei problemi in uno dei vostri locali, ma sta bene, non è ferito ma è risultato vittima di un agguato. Fortunatamente l'ha compreso per tempo, e si è messo in salvo>
No.
No.
Non è possibile.
Non può essere.
<Siete certe?>
<Si signore>
La risposta dettata da un'accentuata sicurezza mi arresta per alcuni istanti, prima che il sangue torni a correre nel suo flusso e mi porti a scattare velocemente, sperando le due non appena mi faccio spazio tra di loro.
Raggiungo le scale mentre passo i manici della fondina ascellare da un braccio all'altro, e una fitta alla testa all'improvviso mi raggiunge, costringendomi ad arrestarmi a metà della discesa, con i suoni intorno percepiti come ovattati e i richiami delle due giovani fanciulle troppo lontani.
Passo una mano sulla tempia tentando di arrestare l'origine di quel fastidio ma non passa, e in sua presenza vedo la figura di Natalie raggiungermi.
<Che cazzo è successo? Si può sapere?>, sibilo nella sua direzione ma basta fare i conti con la paura scorta per intuire subito la triste realtà dei fatti.
<Stavo provando a mettermi in contatto con la Sokolov per capire ma ...>
<Ma è ancora vivo! Quanto può essere difficile sparargli un colpo al centro del petto?>
<William ...>
<Richiama la russa, dobbiamo capire cosa è andato storto. Adesso!>
Annuisce e mi abbandona, correndo dietro ai miei comandi mentre la fitta alla testa torna a perseguitarmi mostrandomi questo posto in un ipnotico caleidoscopio di luci e stanze, ruotate tra loro e inarrestabili, riportando alla luce quei piccoli frammenti di oppiacei rimasti nel sangue.
Può trattarsi di semplice droga? Non ho mai avuto una conseguenza simile.
La testa mi scoppia, può essere a causa dell'alcol.
Nella sala degli spettacoli sono presenti solo alcuni addetti e un piccolo gruppo di puttane rimaste a fumare al seguito della lunga nottata, oltre che il barista che lentamente si sta avviando verso l'uscita.
Affino lo sguardo tentando di riconoscere la sua figura e non passa troppo tempo prima di riuscire a intuire che non si tratti affatto di Joffrey, quanto di un uomo particolarmente familiare.
<Aspetta!>, ordino, ma la sua figura non obbedisce ai miei comandi. Continua a compiere i suoi gesti, si toglie la divisa e abbandona la postazione.
<Non muoverti da lì!>, urlo facendo voltare alcune delle persone presenti ma non lui, non l'uomo che, capisco d'un tratto, ho urtato alla festa del South Side e con cui ho parlato nel marasma della folla, quel giorno.
Afferro uno dei revolver e lo punto nella sua direzione, ma quando alzo gli occhi è sparito.
Non importa. Ormai so di chi si tratta.
E non può correre lontano.
<William ... va tutto bene?>, torna a chiedere Natalie nuovamente comparsa al mio fianco.
<Voglio visionare i video della sicurezza>, le faccio presente riponendo l'arma e rinserrando la sicura.
<Ma certo, prima però devi sapere che la Sokolov ha richiamato. Sembra che uno dei suoi uomini si sia recato in un posto non assegnato. Può aver generato lui sospetti, ma nessuno di noi può veramente sapere come sia andata>
<L'ho sottovalutato, Natalie, ho sottovalutato mio padre, ma non accadrà più. Prima di fare un'ulteriore mossa però ci toglieremo di dosso tutta questa gente inutile. Chiama Zeineb e digli di occuparsi di tutto. Siamo in svantaggio, non dobbiamo permettergli di avanzare. Distruggerò l'impero di mio padre mattone dopo mattone>
<Come pensi di riuscirci?>
<Tagliando la corda ad alcuni suoi pesi>
<William ...>
<Chiama Zeineb, lui saprà cosa fare>
P.O.V.
Megan
Recido i gambi degli steli selvatici di questi fiori osservando la frattura provocata dalle appuntite forbici.
La caduta delle foglie. La puntura delle spine.
Ho sbagliato?, mi domando, ad andare da Ian, farmi trovare nella sua stanza e rimanere con lui, ho sbagliato? Avevo bisogno di conforto, e lui sa come offrirmelo.
Sono un'ipocrita?
Senza dubbio sono egoista ma non ho nessuno a cui doverne dare atto.
Caleb mi ha lasciata. E io sto soffrendo. Ho cercato il sostegno di un amico.
Ian è mio amico e mi capisce, dove è l'errore?
Forse ... nell'ignorare ciò che penso provi?
Sarebbe tanto negativo comunque?
Arrendermi al suo affetto intendo.
Vivere dell'amore che mi dona, certa di poterlo ricambiare.
Sarebbe tanto tremendo stare con qualcuno che so non mi ferirebbe mai, mai mi tradirebbe, mai giocherebbe in una sfida di forza con me?
Sarebbe tremendo si, se nel cuore avessi ancora Caleb.
E so che ci sarebbe, che c'è, che ci rimarrà per ancora un lasso indefinito di tempo.
Nonostante mi ferisca costantemente ricordo solo l'amore che mi ha donato, ed il modo folle con cui ci siamo lasciati che mi uccide tuttora dal dolore.
Poso le forbici vedendo come mi tremino le mani, e compatendo lo stato pietoso in cui mi trovo, piena di lacrime e rancore.
Devo parlarne con Ian.
Al più presto.
Dirgli la verità.
Fargli capire che cosa è accaduto realmente tra me e Caleb.
Non riuscirne a parlare la scorsa notte mi ha spezzata, avendo d'un tratto intuito quanto mi fosse realmente impossibile beneficiare totalmente della piena cura di Ian.
Capendo quanto mi fosse negata la totale possibilità di parlargli a cuore aperto, come un'amico.
Ho bisogno di chiarire perché lo rivoglio completamente indietro, ridere con lui della nostra amicizia, poter essere entrambi liberi da vincoli.
Il prima possibile. Devo farlo. Anche se non c'è più molto di cui dover parlare.
Ormai sono giorni che non metto più piede in ospedale per evitare di trovare Caleb nei corridoi, ma nell'avere questi pensieri sopraggiunge il bisogno di sapere come sta, anche senza dovergli parlare.
Mi basterebbe chiedere al dottore che lo ha in cura informazioni sulle sue condizioni, quell'uomo mi conosce, eravamo fianco a fianco nella sala operatoria e in qualche modo sembra volermi bene. Non mi negherà una tale richiesta, specie sapendo che è stato il mio sangue a tenerlo in vita.
Devo passare in ospedale e nel frattempo pensare alle giuste parole per poter parlare con Ian.
Afferro il gambo di una rosa, distrattamente, e vengo ferita da una spina.
Il sangue cade, facendomi ricordare per lunghi momenti la tragedia vissuta in ospedale.
P.O.V.
Caleb
Lancio appena uno sguardo in direzione dell'infermiera che durante la sua ispezione ai valori riportati sugli schermi non mi ha abbandonato con lo sguardo per la paura di vedermi correre fuori alla ricerca di Damien, facendo saltare la cucitura dei punti, dono chirurgico, e mentre ignoro la sua precauzione rifletto su una situazione alquanto insolita.
Mia madre è venuta raramente a farmi visita, la maggior parte delle volte la sera, sul tardi, nel preciso arco di tempo permesso agli antibiotici per condurmi ad un confronto ravvicinato con Morfeo, privandomi ancora della possibilità di avanzare domande, o in alternativa si era fatta presente solo per pochi istanti e sempre accompagnata da altri, dal medico, da un'infermiere, da Celine alle volte, o da Nicolas, portandomi a credere che in qualche modo possa avere paura di me. Delle domande che sarei capace di avanzare.
Perché anche lei era presente nel mio ricordo.
Anche lei conosce Damien.
Ed io non ne comprendo il motivo.
Cosa è sfuggito alla trasposizione del memoriale della mia infanzia?
Che ruolo hanno questi imprevedibili pedoni, e cosa sono io nel centro di questo sadico gioco?
Il ragazzo da ingannare?
Damien mi ha sfidato in una partita a basket, una sera qualunque, e aveva acconsentito a rispondere al mio interrogatorio per quanto le frasi si fossero rivelate criptiche, e prive di un fine.
Perché nessuno parla apertamente del passato così che sia più facile interpretare il futuro?
È tanto difficile aprire quella maledetta porta?
C'è solo una persona, forse la più debole, in grado di poterlo fare ed è mia madre. Per questo semplice motivo corre via dall'interrogatorio dei miei occhi a mio avviso, ma prima o poi riuscirò a bloccarla in un angolo.
Ed è una promessa che faccio a me stesso, in questo fastidioso e immobilizzante letto di ospedale. Una promessa per riuscire a mettere, una volta per tutte, la parola fine a questa vicenda.
<I valori sono nella norma, e la pressione sanguigna è regolare, sta reagendo bene>, ci tiene a informarmi la donna di mezza età in divisa ancora in piedi al mio fianco, con la sua cartella rigida.
<Vuol dire che potete dimettermi?>
<Un ultima sera, signor Dowson, poi potrà tornare a casa>
Non rispondo, accettando nuovamente la sentenza che già mi era stata predetta, quando noto il rumore prodotto dalla porta nell'aprirsi.
Penso al mio medico, o a un'altra delle infermiere, quando alzando gli occhi vedo smentite tutte le mie supposizioni.
Ian è in piedi a pochi metri da me, con un sorriso e il corpo a fare leva su una sola mano, appoggiata allo stipite della porta mentre si spinge avanti, all'interno della stanza.
<È permesso?>, domanda ed io sbuffo divertito.
<È un parente?>, si informa la donna.
<Un amico>
<Non è orario di visita>, fa notare con disappunto affatto celato.
<Lo lasci entrare>, protesto, e questa, ormai arresa di fronte alla mia caparbietà, recupera le sue cose prima di uscire di scena con un ultimo sguardo intimidatorio in direzione di Ian.
<Non più di quindici minuti>, ordina.
<Basteranno, la ringrazio>, le risponde con il suo mezzo sorriso mentre sconfitta ci lascia soli.
Resto a fissarlo mentre è rivolto con la testa in direzione della porta accostata, e non totalmente chiusa, in un ultimo e amaro gesto di controllo.
Poi torna nella mia direzione con lo stesso sorriso mentre io, imprigionato tra le coperte, ho un'espressione amara.
<Come mai se qui, Ian?>
<Ho deciso di passare prima del mio nuovo e entusiasmante lavoro. Volevo sapere come stavi>
Provo a sedermi, combattendo con fitte di dolore e intorpidimenti.
<Bene, sono vivo no?>
<Si ma c'è mancato poco>
<Si ... è vero>, confesso allontanando per pochi istanti gli occhi.
<Perché non mi hai detto di quel molo?>
<Mi avresti fermato?>
<Saremo potuti andare insieme>
<Perché ci piace morire fianco a fianco? Avrei fatto saltare la tua copertura e non potevo permetterlo>
<Avrei voluto comunque esserci>
<Non mi merito queste parole>
Dirlo ad alta voce mi fa rendere conto di quanto una frase del genere sia vera essendo Ian il destinatario.
Devo essere stato uno sciocco in passato a poter credere di riuscire a superarlo un giorno, in intelligenza come in caparbietà, angelica perfezione di cui sembra nutrirsi ad ogni passo, sincerità e forza, quando la verità è che non sono riuscito a ereditare niente di tutto questo. Niente oltre che l'ostinazione, figlia della sua tenacia, ma è tanto pallido il confronto da presentarsi come inutile trasparenza, affatto in dovere di considerare.
<Però ... il colpo che hai ricevuto deve aver provocato gravi danni anche al cervello. Te lo ha proprio messo apposto!>, mi beffeggia sedendosi al termine del letto dandomi un fianco. Mi mordo l'angolo interno della bocca spostando gli occhi ben oltre il paesaggio offerto dai vetri per poter mascherare in qualche modo anche il mio divertimento.
Come riesce a essere così di buonumore? E' contagioso, avendo il dono di alleggerire con poche tinte lessicali la giornata agli altri. Super potere che io ho ereditato all'opposto, mio malgrado. Dovrebbe andare fiero di questa sua ulteriore bella qualità.
Non so se invidiarlo o ammirarlo.
<Hai finito?>
<E vedo che il brutto carattere è rimasto! Vedi di andarci più vicino la prossima volta, così otteniamo una differenza nei risultati>
<Non hai finito ...>
<Ho appena cominciato>
<Ti manca un po' di azione? Avresti voluto essere al mio posto?>, domando tornando a fissarlo e indicando la bella ferita rimasta al centro del petto. Storce la bocca, inghiottendo l'amaro.
<Direi che ne ho fin troppa>
<E' successo qualcosa?>
Ride, passandosi una mano sul viso. <Dio, cosa non succede è la domanda. La vita è un'avventura da vivere, giorno dopo giorno, e da affrontare in maniera sempre diversa>
<Lee ti ha messo alle strette?>
<Non riesco a capirlo ... prima sembra non avere fiducia, poi torna ad affidarmi nuovi incarichi. E' imprevedibile, e guidato da uno scopo che ancora non riesco a comprendere>
Rimango in silenzio aspettando il sopraggiungere di parole in grado di raccontarmi i fatti. Non ci vediamo da settimane ormai, quasi un mese. La sua vita deve essersi rivoluzionata, ed io ho il timore di conoscere quali regole la governino ma mi offro ugualmente all'ascolto, certo di essere il solo in grado di poterlo fare.
Forse non meritandolo affatto, ma ad ogni modo sono l'unico a poterne realmente beneficiare.
<Siamo in due a non comprenderlo>
<Oggi dovrei tornare ad occuparmi dei carichi di droga>
<Damien lo sa?>, chiedo e noto il suo viso scurirsi.
<Io e Damien non parliamo da un po'>
<Come mai?>
Sospira pesantemente, torturandosi le mani.
<Credo di non dover essere io a parlartene>
Tutta questa segretezza mi esaspera. <Lui non lo farà mai, quindi rimane solo a te il compito di dirmi la verità>
<E va bene allora, come vuoi. È stato lui a trovarti>
<Al porto, si, lo so>
<Sai anche perché Megan ha dovuto offrirsi come sacca di sangue?>, rabbrividisco a questo punto, perché quel dono offerto io non sono stato nemmeno in grado di ricambiarlo, ed il nome di lei evidenzia le mie mancanze.
<Francis donava costantemente ogni mese il proprio sangue, e all'ospedale erano rimasti alcuni campioni, ma non sono risultati compatibili ... e questo è successo perché tu e Francis siete fratellastri, non fratelli>
Spalanco gli occhi sentendo qualcosa nel mio corpo sgretolarsi.
<Che cosa? Allora chi ...?>, inizio nel domandare, ma non ce ne è affatto bisogno perché d'un tratto comprendo. <Damien ... è Damien il padre di Francis non è vero?>
Giocava con me al lago, conosceva mia madre.
Si è occupato di me, quando a casa i miei genitori litigavano.
Per colpa sua?
In che rapporti era con Francis?
Si volevano bene? Erano a conoscenza l'uno del ruolo dell'altro?
<Quell'uomo non fa altro che mentirci, Caleb, non possiamo fidarci>
Ma io non la penso così, non dopo aver visto in ricordo il suo sorriso e aver rammentato quella nostra specie di gioco.
Non posso pensarlo, sapendo che in qualche modo è legato a Francis.
<Non sono l'unico a litigare però, a quanto ne so>
<Si, mi sono fatto dei nemici alla centrale>
<Non parlavo di questo>, commenta, ed io sollevo gli occhi tornando a fissarlo. <Che cosa è successo con Megan?>
P.O.V.
Megan
Ripercorrere questi corridoi color pastello crea un senso di oppressione al mio corpo che vorrebbe solo correre via, ricredere alla sua idea e tornare a condurre la stessa vita di tutti i giorni ma mi costringo a non farlo, perché ormai sono arrivata fino a questo punto e perché desidero veramente scoprire come sta.
Solo una piccola raccomandazione da parte del medico, non cerco nulla di più, ma mi muovo con il timore di un nuovo dolore in grado di sopraggiungere nella svolta di uno di questi infiniti angoli, agguati ai quali credo con troppa convinzione da farmi vivere nel dubbio.
Come un'illuminazione compare la figura slanciata del caporeparto, lo stesso medico ricco delle vitali informazioni che sono accorsa a carpire.
Il corpo si muove da solo, raggiungendolo con velocità per poi essere destinato ad arrestarsi in attesa della sua disponibilità, e quando me la offre con un sorriso totalmente intriso di dolcezza il mio cuore riceve una carezza, in ricompensa.
<Megan ...>
<Buongiorno, so bene che non è ancora orario di visita ma sono venuta solo a chiederle come sta Caleb>
<Se vuoi posso farti entrare, le visite partono tra dieci minuti>
<Non importa, sul serio, e poi non avrei modo di restare. Mi sa dire qualcosa?>
<Sta meglio, molto, il corpo reagisce bene, domani lo dimettiamo>
Un'altra dolce carezza. <La ringrazio ...>
<L'operazione come ben sai è stata difficile, aggravata dalla situazione a cui ci costringono a vivere. L'ospedale non riceve le dovute forniture ormai da anni, e se non fosse stato per te, in mancanza di sangue, il ragazzo non ce l'avrebbe fatta. Al South Side niente viene concesso, solo morfina, per lenire ogni tipo di dolore>
Annuisco leggermente ricevendo l'ennesima conferma in merito all'organizzazione della nostra vita quanto della nostra morte, il completo dominio subito, riscontrando la grandezza dell'oppressione.
<La ringrazio del suo tempo, ora devo proprio andare>, affermo volgendogli le spalle dopo avergli lasciato un sorriso.
<Sai è nella sua stanza adesso. Non è ancora iniziata la riabilitazione, probabilmente sta dormendo>
Anche solo una piccola visita può non fare tanto male.
<Grazie ...>, sussurro dividendomi tra il desiderio di rivederlo e la paura di farlo, nonostante la rara possibilità di essere la sola a poter beneficiare della vista.
L'uscita è un'alternativa allettante che mi reclama nell'aperto abbraccio fornito dalla porta a piano terra in grado di condurmi al parcheggio, ma all'improvviso anche queste pallide superfici divengono interessanti, accattivanti quasi, ed alla fine è a loro che cedo incamminandomi in direzione della sua stanza, lungo un percorso ben inciso nella memoria.
Una volta arrivata noto che l'ingresso è appena accostato, non chiuso, e che da quello spiraglio filtra un piccolo sovrapporsi di voci appena percettibili.
Ipnotizzata da quei suoni li raggiungo secondo una specie di trance ed ecco che dopo cinque giorni, quasi un'intera settimana, torno a sentire la voce di Caleb, preceduta da quella di Ian.
<Non sono l'unico a litigare però, a quanto ne so>
<Si, mi sono fatto dei nemici alla centrale>
<Non parlavo di questo.Che cosa è successo con Megan?>
Spalanco gli occhi percependo il cuore destreggiarsi in una caduta libera.
Il silenzio seguente mi fa a pezzi.
<Non riusciamo ad andare d'accordo, non è una novità>
<Non farti beffe di me, non è solo questo, c'è altro>
<Ti prego Ian, basta, non voglio parlarne>
<È venuta a cercarmi> Mordo un labbro sentendo lo stiletto affondare più in profondità nel mio corpo, l'arma del giudizio in mano a uno spietato Caleb.
<Non mi riguarda più, ormai>
<È una nostra amica>
<No non lo è>
<Non farmi ridere ...>
<Non lo è! Non più!> Trattengo a stento un sussulto sentendo la sua voce smuoversi a rabbia per riuscire a parlare.
<Che cosa intendi?>
<Che stavolta la nostra litigata è stata definitiva, non si torna indietro>
Che cosa?
È tutto finito, quindi?
Nemmeno ... se tornassi pregando il suo perdono?
Non lo farei mai, anche lui mi ha mentito ... ma adesso mi ha tolto persino questa alternativa? Non c'è resa?
Perché?
È tutto finito, ed io non riesco a credere a questo addio.
<Perché dici questo?>
<Ho troppi problemi nella mia vita, Ian, e Megan ne aggiungerebbe solo altri>, afferma spietato, e a quelle parole corro con le mani a tapparmi la bocca, per intrappolare il respiro trasformatosi in un gemito.
Sono solo un problema ...
Chiudo gli occhi riuscendo a sentire il sopraggiungere del dolore, riuscito ad accogliermi nel più crudele degli angoli e a strangolarmi.
È sempre così bravo a ferire ... sempre così capace.
Ed io, piccola e ingenua, che credevo di dover raccontare di noi a Ian, immaginando l'idilliaco giorno in cui saremo tornati insieme.
<Che cosa vi siete fatti, si può sapere?>, chiede Ian esasperato da tutta questa situazione, almeno forse quanto noi.
<Ci siamo spinti a vicenda fino al punto di non ritorno. Più di così, nessuno di noi due, può sopportare>
Le sue bugie, le mie bugie, la centrale, Rachel, William, il South Side.
Tutto quanto ha innescato la nostra separazione, e Caleb è sempre stato così bravo a mettere dei punti nella sua vita, chiudere per sempre fuori dai cancelli persone a suo avviso indegne per stare al suo fianco, ma dove lui vede morte io vedo solo un'immensa vita, un modo per ripartire ed essere più forti.
Sono disposta ad esserlo, a tornare a lui camminando sulle mie stesse ginocchia per invocare il perdono ma non posso essere l'unica a lottare, perché subire dal basso la sua grazia non è altro che ennesimo possesso, non si tratta di amore quanto di esercizio di potere, ed io non posso dimostrarmi la sola volenterosa, disposta a combattere per noi, perché abbiamo sbagliato entrambi.
Anche lui deve rivolermi indietro ma non lo fa, non lo fa, quindi non mi resta che arrendermi e incassare questo ennesimo dolore pregando, e al tempo stesso non facendolo, che possa essere l'ultimo.
Tento di recuperare il giusto fiato per dimostrare a me stessa di essere forte ma corro comunque via da questo posto, volando verso l'esterno mentre mi maledico per questo ennesima conferma di debolezza, per questo amore giunto all'eccesso e forse, con più certezza ormai, non ricambiato in tutto il suo ardore.
P.O.V.
Caleb
Inghiotto l'amaro pronunciando queste parole ma sono necessarie perché la mia codardia mi vieta di dire la verità a Ian sulla relazione instaurata con Megan, e al tempo stesso mi obbliga a dimostrarmi forte avendo saputo come lei sia corsa tra le sue braccia dinanzi ai nostri problemi.
Tento in questo modo di convincermi della mia forza ma dentro sto tremando. Mi torturo con paura e rabbia pregando che tutto questo finisca, immaginando che recidere ogni tipo di filo possa condurmi alla vera pace ma non ho la forza di impugnare quelle forbici.
Non posso escluderla dalla mia vita.
Parlare e riuscire a fare sono due cose ben diverse ma tento di scommettere sulla mia riuscita, pregando in qualche modo di farcela perché io e Megan dovremo smetterla, di farci male, di amarci in questo modo insano, di mentirci come facciamo da anni, di crederci al tempo stesso invincibili insieme.
L'amore è anche moderazione, ed io insieme a lei non ho controllo.
Non posso averla in questo momento così difficile della mia vita, proprio quando vengo a sapere che le mie radici familiari, nutrite da paterno sangue, sono sporcate di ennesime bugie e celate realtà.
La donna che Damien ama è mia madre, e da quell'amore, che non so se ancora vive e se si possa definire ricambiato, è nato Francis, mio fratellastro, sangue di altro sangue.
<Credo che tu stia mentendo, Caleb. E non solo a me e a Megan, ma anche a te stesso. Pensa bene a quello che decidi di fare.
Lei ha un cuore molto grande ma nonostante la sua bontà, se ferito a fondo, può arrivare anche lui a chiudersi nell'egoismo, e a quel punto ti sarà impossibile rientrare.
Ragiona prima di agire, perché in una situazione strana come quella che stiamo vivendo adesso il suo amore è l'unico luogo dove possiamo riuscire ad incontrarci tutti insieme, e rimanere uniti.
Una volta che ti escludi da solo sarai fuori dai giochi, e noi tre smetteremo di vivere in simbiosi>
<Ti farebbe comodo se me ne andassi così>
<Non amo vincere senza essere scelto. Resta, e lascia che la decisione spetti ad altri>
Allontano gli occhi ferito affondo dalla vera bontà che solo lui mi riserva. Da che eravamo piccoli mi ha sempre rispettato, decidendo di rispondere con insolita calma dinanzi alla mia furia, ha creato il gioco all'equilibrio dei nostri tre cuori e oggi come allora prega affinché nessuno di noi si ferisca.
La vergogna mi costringe a tenere solo per me la storia avuta con Megan, il terrore di quel disonore in grado di rivelarmi per il cattivo amico che so essere, che temo di essere, mentre lui è tanto perfetto da essere irraggiungibile.
<Adesso devo andare, l'uomo di Richard mi starà aspettando>, mi informa, ed io annuisco senza riuscire ancora a fissarlo.
<Ci vediamo>
<Ciao>, sussurro, ed odo appena il rumore dei suoi passi allontanarsi dalla stanza, lasciandomi solo con lo strano desiderio addosso di continuare a vivere al centro di questo limbo senza uscire mai più, senza vivere nel mondo reale, poiché il colpo di quella pallottola non ha solo sfiorato il mio cuore intaccando vari organi ma ha creato una foratura alla mia corazza ... e privo di lei sono contagiabile, esposto all'inverosimile.
Affatto pronto ad affrontare il mondo, al di fuori.
Che questa prigione mi trattenga ancora per un po', al sicuro dietro le sue sbarre.
Mi rifugio nel posto dal quale volevo fuggire, senza più riuscire ad allontanare gli occhi in direzione del paesaggio esterno, oltre il vetro della spessa finestra.
Il buio mi raggiunge in un tetro saluto accompagnato dal colpo di un pugno contro il legno della porta.
<Posso entrare?>
A chiedermelo è una voce che mi fa sorridere, ed il viso si apre in direzione di un saluto.
<È giorno di visite oggi?>
<Non saprei, ma è l'ultima sera che ti tengono qua dentro ed io volevo proprio vederti così, cianotico e mal nutrito in questo letto di ospedale>
<Gentile come sempre>
<Ma figurati!>
Con pazienza osservo Kevin raggiungere il centro della stanza e guardarsi intorno, come ad osservare la qualità del posto in cui vivo. Attendo il sopraggiungere di frasi di circostanza ma non ricevo che silenzio.
Il mio amico mi studia in attesa di vedermi fare la prima mossa, ed io afflitto cedo, rivelando la mia verità.
<E' stata una giornata strana, quella di oggi>
<Come mai?>
<Ian è venuto a farmi visita, ed io ho avuto molti pensieri>
<Di che tipo?>
<Non sono certo di volermene andare>
<E chi lo vorrebbe?>, mi domanda con un tono divertito e un sorriso aperto in grado di suscitarmi in corpo un' accesa curiosità. <Si, insomma, intendo oltre che per la strana brodaglia che sembrano spacciare per cibo e per la vista immobile dall'unico schermo offerto a mostrarti un pezzo di cielo direi che il soggiorno è invidiabile. Hai sempre una bella donna a girarti intorno e a verificare che tu stia bene, un equipe di persone pronte ad anticipare i tuoi bisogni e un letto, un tetto, gratis. Chi non lo vorrebbe?>
<Kevin>, lo rimprovero ma lui sembra incline all'ironia stasera.
<Sono venuto per scacciare via i brutti pensieri. Che ne dici, ti va di lasciarmelo fare?>
La domanda rimane sospesa nell'aria mentre penso a quanto una persona possa scegliersi la propria famiglia. Francis sarà sempre un fratello per me, nonostante i legami di parentela e quant'altro. Lui è mio fratello, e lo stesso vale per Kevin. La vita di tutti noi è incasinata, ma a tenerla ferma ci sono importanti capisaldi, e grazie a loro nessuno potrà mai perdersi.
<D'accordo Kevin, che hai in mente di fare?>
<Vorrei tanto raggiungere il tetto. Che dici, si può fare?>, chiede in un sorriso ed io scuoto la testa, arreso.
P.O.V.
Kevin
Era da molto tempo che non vedevamo una notte così, tanto stellata grazie all'apparente buio di questa lugubre cittadina ospedaliera presente molti metri più sotto del coperchio del mondo.
Le stelle brillano luminose in cielo ed il silenzio della solitudine genera una pace accarezzata dall'inverno, corso dentro i nostri vestiti, quasi a risvegliarci.
Sorrido nella sua direzione mentre poso sulle labbra il filtro di una Marlboro aspirando avido il suo fumo. Caleb fa lo stesso, percependo come uno spirito lontano il pensiero del cielo sopra di noi, tanto distante quanto vicino, da poter essere sfiorato con un dito.
In lontananza tetti spioventi di case povere ma vive macchiano di rosso la scena, associandosi al verde della boscaglia.
Espiro con calma lasciando la nicotina scorrere nel mio corpo.
Ha sempre un'effetto calmante.
Al diavolo chi dice che non si tratta di una dipendenza. Respiro meglio tramite questo filtro analizzando lo scorrere di miei giorni in un mentale processo rifinito dal silenzio.
Forse dovrei smettere però.
Presto io e Morisot saremo una famiglia e non voglio che mio figlio si ammali della mia malattia, in maniera mentale quanto fisica.
Voglio il meglio per noi, perché infondo ce lo meritiamo, così come Caleb.
<Allora, vuoi iniziare a parlamene o vuoi che te lo domandi io?>
<Immagino che tu abbia saputo di Francis>
<Si, lo so, e mi dispiace molto ... ma lui rimane comunque tuo fratello, non credi?>
<Si>
<Quindi che cosa ti preoccupa?>
<I problemi ... sembrano non finire mai, Kevin>
<È così, non finisco>
<E noi come riusciremo a sopravvivere?>
<Imparando a correre tra l'uno e l'altro>, rispondo furbamente facendo precipitare la cenere in una lenta discesa fino a terra.
Siamo seduti fianco a fianco con le spalle premute contro un una delle preti a sorreggere la porta che ci ha condotti fino a qui, tramite ripide e strette scale, mentre di fronte il parapetto fa a metà con la visione del mondo e del cielo.
<Non credo di essere tanto bravo. Forse sei tu il solo a riuscirci>
<Forse ... ma sto ancora correndo quindi vedremo come andrà a finire>
<E tu invece a cosa pensi, Kevin?>
<La verità?>, domando, ed il suo silenzio sembra un assenso. <Ad uno studente stronzo che si fa firmare la presenza dai compagni di corso>
Scoppia a ridere voltandosi con una bella luce negli occhi.
<Che cosa?>
<È così>
<E perché mai?>
<Se trovo chi lo copre e lo smaschero di fronte al professore allora lui mi firmerà una lettera di raccomandazione, e mi farà tornare a casa finito l'anno scolastico da tutti voi, e da Morisot>
Segue un impagabile silenzio e dentro lui mi perdo, recuperando pezzi di anima.
<Vuoi tornare quindi?>
<Sai che cosa c'è, Caleb? È che non mi sono mai accorto di quanto sia bello questo posto>
<Adesso mi prendi in giro. Che cosa ci può essere di bello nei vetri rotti provenienti da bottiglie di ubriachi e presenti di prima mattina sulle strade? Nei tetti costruiti con materiali scadenti, nei vestiti bucati, nella diseducazione scolastica e nella povertà? Me lo spieghi?>
<La sincerità>, confesso, fissandomi nei suoi occhi verde scuro, tanto simili a quelli di Francis, di Damien, prima di perdermi nel blu, oscuro e notturno. <Siamo così sinceri noi sporchi ragazzi di strada. L'arrivismo ci contamina, ma finché il nostro desiderio tende le sue radici in un terreno genuino il nostro cuore può definirsi il più puro perché non sente il bisogno di niente che dell'essenziale, non pretende sfarzi, non eredità guadagni, non si lascia comprare ne calpestare ... siamo nati puri, Caleb, sono ambizione e rabbia a condannarci alla vera povertà. L'ho capito molto tardi ma l'ho fatto>
<E adesso vuoi tornare. Vivere di sincerità>
<Non é quello che vuoi anche tu?>
<Non credo di esserne in grado>
<Ti sbagli eccome, ma te ne accorgerai>
<E invece tu la sai una cosa, Kevin?>
<Che cosa dovrei sapere?>
L'esitazione della sua risposta mi spinge a voltarmi della sua direzione e attendere il sopraggiungere della confessione, e mai mi sarei aspettato che giungesse con un simile candore.
<Non ti hanno cambiato, Kevin. Tu credi che sia così, ma non l'hanno fatto. Sei ancora un ragazzo del South Side. Il tuo cuore è ancora semplice e levigato dalla nostra terra. Non potrai mai perdere la tua bontà>
Sorrido sentendo al centro del petto un forte calore in grado di farmi volare e ricevendo un verdetto di giudizio, al termine delle sue parole.
La scoperta di essere riuscito, in qualche modo, comunque, a vincere.
La luna piena ricopre di pallido chiarore l'oscuro vestito del cielo, filtrando con i suoi raggi all'interno delle scale del condominio grazie alle finestre poste ad ogni piano.
Il silenzio circonda la casa mentre il sapore di nicotina è incastrato tra i miei capelli, sui vestiti, nelle mani, ricordami nonostante il tempo trascorso il confronto avuto con Caleb, sul tetto dell'edificio. Il modo con cui l'uno ha aperto all'altro il proprio cuore sostenendo lunghe pause di impagabile silenzio, capace di offrire conforto.
Avevo proprio bisogno di uno di questi nostri momenti per tornare a respirare, ed ora posso farlo a pieni polmoni nonostante il pacchetto vuoto di sigarette sembra volermi dire il contrario.
Manca giusto una rampa di scale quando al centro dell'ultimo pianerottolo noto il libro delle fiabe di Gabriel abbandonato per terra.
Mi chino a raccoglierlo e sorrido immaginandomi quel bambino in piedi sulle scale, in attesa del mio arrivo, con quel libro tra le mani ed i piedi ballerini, incapaci di stare fermi, e quell'idilliaca illusione mi cede alla premura, facendomi ritornare sui miei passi per poter raggiungere la sua porta e riportargli indietro il raccoglitore delle storie della buonanotte, e forse chissà magari leggergliene qualcuna.
Giunto all'appartamento busso delicatamente, per paura di disturbare, ma il rumore deve essere stato troppo impercettibile per destare attenzione.
Ripeto il gesto, ed esercitando più forza l'infisso si muove in risposta, aprendosi nella più completa autonomia con un cigolio, appena acuto.
Rimango immobile esplorando possibili spiegazioni ma nessuna risulta plausibile e mi conduce in uno stato di allerta mentre percorro con lentezza la casa tenendo gli occhi ben aperti a recepire qualsiasi movimento.
Il suono sordo dell'assenza tappa le orecchie e rallenta il mio cuore, addentrandomi nelle spoglie stanze, nel bagno, nella cucina fino a giungere nel soggiorno.
Sento il cuore battermi come un tamburo al centro del petto mentre il timore si allarga a macchia d'olio all'interno del mio corpo, rimanendo incastrato con la vista verso quell'unica porzione di spazio impossibile da registrare, nascosta dietro un basso mobile tra la cucina e la sala, a dividere gli spazi con serviti di porcellana negli scomparti, e verso di lui mi avvio con passi sempre, sempre più lenti.
Il silenzio mi perfora le orecchie come un silenzioso urlo.
Il suono dei miei passi risulta impercettibile nel cuore della notte.
Il cuore batte lugubri colpi di una sorda campana.
E gli occhi si riempiono di sconcerto e paura dinanzi alla visione offerta dinanzi.
Rosso.
È tutto ciò che vedo.
Un'immenso lago rosso scuro, intriso nel motivo del tappeto persiano.
Tre corpi, privi di vita, con la gola tagliata ed il viso ancora contratto da un'ultima invocazione.
Padre. Madre. E figlio.
Gabriel è sdraiato al centro di questo macabro quadro con i suoi due genitori a lato, che hanno tentato forse fino all'ultimo di proteggerlo, schierandosi tra lui e la lama.
Cado a terra in ginocchio ed i miei vestiti si macchiano del loro sangue, mentre il mondo si fa sfocato nei suoi confini ed io perdo i sensi, con il libro delle fiabe ancora stretto in una mano.
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