55- Salvatelo, salvateci

P.O.V.
Megan

Compatibili.

Ne ero già cosciente da sola non appena mi sono proposta al dottore in carica affinché svolgesse i dovuti esami.

Io e Caleb ci eguagliamo persino nel sangue.
Ci assomigliamo secondo le regole di quel rapporto sviscerale che per anni ci ha tenuti uniti.
Siamo la stessa cosa. La stessa persona. Lo stesso corpo.

Quanto si può arrivare a provocare dolore, al tuo stesso corpo?

Direi incredibilmente tanto, inverosimilmente molto, masochisticamente, spietatamente, troppo. Troppo. Da non essere sopportabile.

Così mi sento, annientata. Mentre vedo il sangue scorrere dal mio braccio fino a lui, in un sistema di piccoli tubi, affatto in grado di svegliarlo da quest'anestesia e portarlo fino a me.

Non azzardarti Caleb. Non provarci nemmeno ad andartene.
Ti prego torna. Non mi lasciare, ti prego.

<Signorina si sente bene?>, chiede una delle infermiere in piedi, sul fondo della sala, con il solo scopo di badare a me, preoccupata avendo scorto le mie lacrime.

Sono una sorpresa? Da che sono dentro quest'ospedale non riesco a smettere di piangere.

Non dovrebbe farmi una domanda del genere.
È inopportuna.
Sconveniente.

<Si ... si sto bene, grazie>

<Infermiera mi passi l'aspiratore>

<Certo dottore>

Seduta su una sedia a fianco di Caleb quello che riesco a vedere è solo il suo viso, una piccola e bassa tenda ci separa dal sipario dell'operazione, impedendo a me e a lui di vedere cosa accade al suo corpo.

Di scorgere le mani dei dottori chiuse nel lattice e macchiate di sangue avventurarsi dentro un taglio procurato dallo stesso bisturi che riesco a scorgere, abbandonato su quel piccolo ripiano in ferro proprio accanto a noi, esanime.

<La pressione cala>

<Iniziate il massaggio cardiaco>

<Subito dottore>

Non ho paura poiché vivo in un limbo.
La mia mano libera gli sta sfiorando i capelli neri, vivendo in quella sola carezza.
Le sue palpebre chiuse danno modo alle ciglia di provocare l'ombra sulle sue guance ed è così bello l'uomo che amo, così forte, amante mio e della vita, non deve andare da nessuna parte.
Non può andare da nessuna parte.

Inconsciamente canticchio il motivo di una nostra canzone. È la colonna sonora del nostro film preferito, una specie di storia romantica con i ritmi dell'azione.
Lui non lo aveva ammesso mai ma adorava vederlo. Protestava solo all'inizio, facendo valere il suo accento spedito e forte di maschio ma poi cedeva, a me e ad ogni mia richiesta.
Io adoravo quel film. E la stessa passione l'avevo trasmessa a lui, tanto che in un momento di pura allegria era arrivato a recitarmene una battuta.

Momenti felici, che ora la mia mente richiama, mentre la voce, ferma abbastanza da far temere per la mia situazione psicologica, continua a cantare, in modo da riportare il mio amato fino a casa.

<È stabile>, ci avverte il medico, mentre il suono della macchina simula i battiti del suo cuore e la mia canzone termina, senza arrestare però la mia carezza sulla sua cute.

Vi prego, dottori. Vi prego salvatelo. Non ho che lui.

È l'amore della mia vita, vi prego ... vi prego ... salvateci.

P.O.V.
Ian

Passo entrambe le mani sul viso ben consapevole del tempo che è trascorso da quando Megan ha varcato quella porta.

Rachel osserva il mio venire come il mio andare, e per potermi allontanare da questa situazione decido di rivolgermi proprio a lei, in modo da capire cosa stia succedendo.

<Eri con lui?>, chiedo duro, e sentendo la mia voce la ragazza sobbalza.

<No...>

<Sapevi dove stava andando?>

<No, nessuno poteva saperlo, non ci ha detto niente>

<E le sue ricerche? Sapevi niente delle sue ricerche?>

Che cosa le hai detto, Caleb? Perché questa ragazza è qui?

<Sapevo che stava dando la caccia all'uomo che ha tradito suo fratello alla centrale>

<L'ha trovato?> A capo chino la ragazza annuisce. <Chi?>, sibilo e lei mi onora di saperlo.

<William Lee>

Mi arresto, proprio al centro del corridoio.

Ma certo.
Ma certo, chi altri?
Ancora quel figlio di puttana pronto a mettersi in mezzo.

Un viso al termine del corridoio desta la mia attenzione.

<Devo occuparmi di una cosa, tu aspetta in caso tornino i dottori>, ordino a Rachel incamminandosi verso quella figura che, vedendomi venirgli incontro, prova solo il desiderio di fuggire.

<Cosa ci fai ancora qui?>

Damien esita a rivelarlo, guardandosi intorno.

<Si sa niente di Caleb?>

<Ti senti tanto in colpa, per questo sei così sconvolto? Ci hai messo tu in questo casino Damien, nessun altro>

<Lo so>

<E adesso nascondi la mano?>

<No. Richard Lee e suo figlio la devono pagare>

<Per cosa? Vuoi dirmi per cosa?>

È tutto inutile, non me lo dice. Dunque tento un altro approccio.

<Sapevi che Caleb e Francis non erano fratelli?>, chiedo e a quella domanda, con le braccia stretto al petto dove risiede ancora la maglia piena di sangue, Damien alza gli occhi verso di me, colpevoli.

<Si>

E non pensavi di dircelo? Di dirglielo?

Tutta questa preoccupazione ... un dubbio mi assale.

<Sei il padre di Caleb?>

<No>

Ma non finisce qui.

In fondo ai suoi occhi scovo qualcosa, un piccolo lampo, e a un tratto capisco.

<No ... no, non lo sei. Tu sei il padre di Francis, non è vero?>

Ed è tutto così dannatamente ovvio.
La sua voglia di schierarmi in prima linea mettendo Caleb dietro una scrivania.
Le informazioni passategli e che lui, consegnandole alla polizia l'attimo dopo, arrivava a bruciare, a bruciarmi.

Perché non gli era mai importato niente di me, usandomi come semplice strumento.

Quello che desiderava era il benessere di Caleb.

E trovarlo con un proiettile nel corpo, al molo, lo aveva devastato.

Ed ora voleva vendicarsi di Richard Lee perché il figlio William aveva ucciso il suo ....
Dannazione era tutto così ovvio.

<Non posso crederci, davvero, non ci riesco>, commento quasi sorridendo in un istinto di pazzia mentre faccio nuovamente su e giù nel corridoio dell'ospedale. Poi mi arresto, davanti al suo silente sguardo.

<É tutto un gioco per te questo?>, gli urlo addosso, esaurito ogni controllo. <Il sangue che hai sulla maglia è quello del mio migliore amico. Pensi che sia uno spasso giocare con le vite degli altri? Fare il burattinaio di noi tutti? Avresti dovuto dirci la verità e l'odio verso cui stavamo andando incontro, avrei potuto proteggerlo! Io ... avrei potuto essere presente, a quel maledetto molo!>, urlo con le lacrime agli occhi che minacciano, con maledetta insistenza, di voler uscire.

<Avrei voluto esserci anche io>

<E invece dove eri?! Dove cazzo eri quando avevamo bisogno di te, eh?>

<Mi dispiace ...>

<Non mi basta. Hai capito Damien? Non basta! Le tue parole non valgono più un cazzo per me, vedi di rifilarle a qualcun altro>

E detto questo gli volto le spalle e me ne vado.

Non vengo lasciato però troppo solo con la rabbia perché Nicole e Nicolas mi sopraggiungono sulla scena seguiti da Joseph, arrivato di corsa.

<Si sa niente?>

Muovo la testa in un no deciso. <Megan è dentro con lui>

<Perché?>

<Stanno usando il suo sangue per la trasfusione>

<C'era quello di Francis>, si ricorda Nicole, cadendo nel nostro stesso errore.

<Caleb e Francis non erano fratelli, ma fratellastri>, comunico, e a quella notizia ognuno di loro tace.

Si, a quanto pare è lo scoop della giornata, penso con ironia macabra, mentre poso una mano sulla fredda parete della sala, e su di essa ci appoggio stanco la testa.

P.O.V.
Kevin

Entrare negli ospedali mi ha sempre dato un senso di vertigine da quando mia madre mi obbligava a fare i quotidiani prelievi, per i quali mettevo in atto una tragedia immensa. La situazione ad oggi non era tanto diversa. Ancora di più essendo consapevole dello scopo che mi ha condotto qui.

<Mi scusi>, richiamo l'attenzione di uno degli infermieri, avente una cartella in mano, <salve, sto cercando un mio amico, Caleb Dowson, dovrebbe essere arrivato qui stamani>

<È ancora in sala operatoria ma può raggiungere i suoi altri amici nella sala d'attesa. Salga da questa parte, li troverà subito>

<Grazie mille>, saluto, seguendo il prezioso consiglio.

Ancora in sala operatoria. Sono passate otto ore. E se ci fossero stati dei problemi? Complicazioni?

Arrivo nella sala designata, notando subito che Celine è stata in grado di anticiparmi.
Mancavo solo io ... e a quanto pare Megan, che non riesco a trovare seduta a una di queste scomode sedie rivestite.

<Megan?>

<È in sala>, mi fa sapere Nic, ed io annuisco per poi far scorrere lo sguardo.

Da un lato di questa scena Ian mi guarda a braccia conserte.
Tento di far andare via l'imbarazzo, ma non ci riesco, il suo sguardo mi sottopone a giudizio ed io posso solo sperare che Celine non venga a conoscenza di tutta la nostra storia.

Mi avvicino al fianco di lei, rifuggendo dagli altri glaciali occhi, rimanendo in piedi e semplicemente appoggiato a questo muro pieno di piastrelle.

Infermieri passano, ed il silenzio regna sovrano.

<Ce la farà, vedrete>, ci incita convinta Nicole, osservandoci lentamente uno per uno.

Ian adesso ha lo sguardo perso nel vuoto e solo una cosa lo desta, in una melodia di richiamo: un telefono squilla e a quanto pare è il suo.

La sorpresa passa negli occhi di tutti, a eccezione dei miei.

Ian studia lo schermo, poi noi, e si allontana dalla postazione.

<Scusate. È lavoro>

E con queste parole si fa più lontano in modo tale da non essere sentito.
Nessuno osa commentare.
O anche solo ha la forza per poter farlo.

<Sapete da quanto Megan è dentro?>

<Ormai sono due ore>

<Uscirà?>

<Credo che voglia assistere all'operazione>

<Non le permetteranno di farlo>, mormora Nicolas, giocando con la sua moneta da collezione grazie alla quale supera le sfida più dificicili. <Non fino all'ultimo, nel caso ... le cose possano mettersi male>

Perché anche i dottori sono umani ma le persone ferite non sono capirlo. E se anche solo viene fuori una complicazione, a causa di un'errore, il parente del paziente ferito, sul momento, non deve venire a saperlo.

Molte volte vengono tralasciate tali pratiche, per poter fare in modo che l'ospedale non subisca denunce.
Cioè che nasce nella sala operatoria può arrivare a rimanere nella sala operatoria.
E Megan in questo stato potrebbe non riuscire a capirlo, come è giusto in fondo che sia.

Attendiamo pazienti, rimanendo in silenzio ... quando noto Damien poco distante.

Facendo attenzione che altri non mi vedano mi avvicino a lui, tentando di mascherare la sorpresa.

<Ciao ... che cosa ci fai qui?>, domando, e lui, in quel dolore tanto instabile, mi osserva confuso, tentando di capire.

<Tu ... ti ricordi di me?>

<Ma certo! Chi non lo fa?>

<Tutti loro>, mi dice, alzando appena una testa in direzione dei miei amici.

Sorrido, provando a consolarlo.
<Sono passati molti anni, ed io sono il più grande di quel gruppo, lo ero persino allora sai? Mi ricordo bene di te>

<Allora forse non verrò completamente dimenticato>

<È il sangue di Caleb quello?> Indico con un cenno la maglia e lui annuisce. Annuisco anche io, decidendo il da farsi. <Vieni, cerchiamo qualcosa di pulito da farti indossare>

Sono passati molti anni, ma lui è sempre lo stesso. Stesso sguardo, anche se più triste, stesso taglio di occhi, stesso fisico, per quanto ora risulti accartocciato, e piegato in se stesso.

<Entra qua dentro, lavati le mani. Ho una maglietta proprio qui in borsa>, racconto alzando la piccola valigetta ventiquattr'ore nella quale tengo gli appunti per la lezione del mio collega all'università, tra le molte cose.

Siamo in bagno e Damien è immobile con le mani rosso scarlatto appoggiate sul lavandino, senza riuscire a sporcarlo. Il sangue ormai si è seccato.

<Damien ... avanti, le mani>

<Non voglio>

<Devi, avanti>

<Lascia che lo abbia ancora addosso>

<No, ti proibisco di farti del male, forza. Adesso ... lo togliamo>, ammetto, prendendo una buona dose di sapone e facendo quindi scorrere l'acqua.

Il calore di quella cascata arriva fino a noi.
Ed io non so se dover regolare l'acqua sotto un getto più freddo o lasciarla andare così, perché non ho mai tentato di togliere il sangue dalle mani.
Lascio la modalità calda, con la sola speranza che possa tranquillizzare il suo cuore, come è in grado di fare un abbraccio.
E sotto questa particolare carezza lo conduco, macchiandolo con del sapone, ed ecco che vedo lentamente il suo corpo arrivare a rilassarsi, la tensione scendere ... per quanto il suo viso rimanga ugualmente triste e fermo.

Deve averne passate così tante.

<Ecco qui la maglietta, ti aspetto fuori>, gli dico non appena sono certo che sia arrivato a calmarsi, <per qualsiasi cosa chiamami, sono proprio dietro questa porta>

Lentamente, tenendo ben salda la maniglia e accompagnando l'infisso, chiudo la porta su questa scena di fragilità, permettendogli di rimanere da solo con se stesso, almeno per un po', ma lascio un orecchio appoggiato contro il legno, nella costante paura di poter vedere la debolezza trasformarsi in un atto folle, costringendo persino un uomo forte come lui a spezzarsi sotto un'ordine superiore, anche se non è il tipo da farlo, anche ... se ha già sofferto troppo, per cedere ora.

P.O.V.
Ian

Restando in linea ascolto le concitate parole di Bjorn mentre mi prega di tornare a casa.

<È successo qualcosa Ian, vedi di tornare subito! Qualcuno ha sparato al signor Lee ed ora non sta bene>

E quindi, Caleb, sei arrivato a colpirlo.

<È grave?>

<No, non penso, ma è di cattivo umore>

Che se lo tenga, ho altro a cui pensare oltre che ai suoi capricci di ricco signore.

<Ho capito Bjorn, ho capito>

<Tornerai?>

Lo farò? Dovrei farlo?

Se è vero che Richard mi fa seguire e che quindi attende con pazienza ogni decisione della mia vita significa che dovrei, facendogli arrivare a credere che potrei non c'entrarci niente con quell'amico sotto i ferri.

E se glielo faccio credere, mascherandomi di falsità, allora posso arrivare a colpirlo quando voglio. A modo mio, e non con un colpo di pistola.

Molto, molto di più.

<Si Bjorn, lo farò, ma prima ho da risolvere una questione>

<Ti aspetto qui capo>

E sulla sue parole chiudo la chiamata rimasta in linea.

Prima devo vedere se Caleb riesce a rimettersi e parlare con Megan.
Io e lei abbiamo ancora un'affare di cui discutere.

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