42- Malinconico dolore
P.O.V.
William
Ritengo che ogni luogo possegga il proprio aroma. Gli ospedali odorano di disinfettanti e cibi racchiusi in contenitori di plastica, le scuole di bianchetti e gessi di lavagna, probabilmente a preservare l'anima del posto dal quale provengono.
Chiudendo gli occhi posso trovare tracce nell'aria di puro peccato adesso, di segreti detti dietro maschere di seduzione mescolati a miscele alcoliche provenienti dal bancone del bar verso il quale mi sto incamminando, e dove siede, su uno degli sgabelli alti, la donna che sto cercando.
Una delle ragazze mi passa accanto tenendo per il guinzaglio un vecchio aristocratico grazie alla presa della cravatta, e mi sorride complice sotto la bordatura della maschera posta in viso a rivelarle solo gli occhi, un piccolo gioco svolto una volta all'anno che incuriosisce i clienti, e dona un clima diverso alla serata.
Non tutte però sono vittime del medesimo buonumore.
<Joffrey due dita di bourbon, grazie>, ordino in direzione del barista, prendendo posto.
<Subito signore>
Da dietro un sottile vetro contenente martini gli occhi della giovane ragazza sono persi, ma attenti, e consapevoli del mio arrivo. Sorrido loro, felice solo in parte di rivederli, e afferrato il bicchiere che mi viene porto lascio che l'alcol mi bagni le labbra, prima di arrivare a parlare.
<Buonasera Lorelan, noto che il tuo carnet è scarno, dove sono i clienti della giornata?>
Fuori da questo posto il tempo segna appena il sole di un primo mezzogiorno, non è la notte a regnare sui peccati ma questo non è importante, perché qui dentro non vi sono regole, o imposizioni dettate da canoni, impegni, non per persone tanto illustri o per le nostre porte costantemente aperte a nuovi inviti.
Poteva essere una giornata qualunque di un'ora qualunque, e non sarebbe cambiato niente, per questo mi trovo qui.
Nonostante i centimetri scoperti di pelle visibili a perdita d'occhio, lei risulta comunque la più vestita tra le tante ragazze, nel suo fine abito blu scuro di seta, con i laccetti a farle da spalline scoprendo l'assenza di un reggiseno sottostante e i tacchi alti a rifinire il tutto, capaci, da ammettere mio mal grado, di far trasparire tutta la sua classe, e la provenienza delle tanto amate origini.
<Natalie non si è procurata di darti una maschera?>
<Teniamo velate le nostre identità ma non i nostri corpi?>
<I corpi sono la merce, Lorelan. Il tuo corpo è una merce, per quanto risulti invenduta>
Era stata Natalie per prima a comunicarmelo. Dal suo arrivo nella nostra casa Lorelan non si era concessa a nessun cliente, né aveva dato modo loro di avvicinarsi più del dovuto, mettendo una marcata linea di confine che non avrebbe dovuto esserci tra lei ed il possibile acquirente delle sue ore future.
Un'azione riprovevole, e affatto passata inosservata. Per tutto il tragitto in macchina ho provato a pensare alle giuste parole da poter dire in grado di metterla in riga, ma adesso, vedendo la sua ostinazione, non è affatto la rabbia che domina ma il divertimento misto a curiosità.
So bene come prenderla e non mi perito a farlo.
<Lorelan ... devo ricordarti la questione in sospeso tra di noi? Tu sei qui per un motivo, devi ricompensarmi di un grosso debito e per riuscirci ti ho offerto la via più facile. Qua dentro i soldi girano bene, devi solo alzare le mani e afferrarli, ma nel frattempo mostrarti anche gentile e disponibile con chi dall'alto si vede a lanciarli. Puoi riuscirci? Lo sai fare un bel sorriso?>
<Non basta un sorriso>
<Alle volte basta eccome. Ma puoi avere ragione, questi uomini non si fermeranno sempre a quello>
Il suo corpo viene agitato di un tremore del quale mi faccio beffa.
<Rabbrividisci, Lorelan? Se proprio non gradisci che siano altre mani a toccarti posso tornare a farlo io>, provoco, facendole a malapena capire cosa può succederle se non mi tornerà indietro quanto pattuito.
Le labbra si arricciano in una smorfia di disgusto mentre nel suo volto leggo la grinta, mescolata a una stanchezza risiedente nei suoi occhi che odio e vorrei strappare via.
Persino Dafne la possiede, come una scheggia di vetro impiantata simile ad un'arma ad immobilizzarle l'iride, e vorrei tanto estrarla, permettere a quegli occhi di correre impazziti e pieni di paura, ma nessuna delle due me lo permette, tantomeno Lorelan, premendo a forza quello stiletto nel suo sguardo, fino a farne scaturire un'inevitabile scia di sangue.
<Ti consiglio di uscire da qui. Fatti un giro in città, con Natalie e le altre ragazze, andate in un altro nostro locale, sedetevi insieme a bere e vedi cosa sanno fare. Segui il loro esempio, avvicinati agli uomini anche solo per parlare. Devi pur aver avuto una vita prima di arrivare qui, giusto?>
<Non ho mai fatto niente del genere. A quel tempo erano loro ad approcciarsi per primi>
D'un tratto mi ricordo della verginità che le ho strappato, facendo i conti solo adesso della sua possibile ingenuità in ambito passionale, quanto amoroso. Nel resto regna sovrana la sua intelligenza, ma ecco che persino la regina delle nevi cade vittima di un dolce imbroglio, una sfida a cui non sa far fronte con nessuna strategia.
<Impara, allora. Mostrati interessata a ciò che dicono, e poi arriva a controllare il discorso, in questo modo riuscirai a manovrare anche il tuo interlocutore>
<Tu manovri le donne?>
<Costantemente>
Sorseggio il bourbon finendo in pochi secondi il terzo bicchiere della giornata mentre la qui presente accompagnatrice, con il suo sottile calice tra le mani nel quale risiede ancora lo stecchino con fissata l'oliva, mi osserva con attenzione spiando ogni mia mossa.
Mi alzo in piedi, avendo finito di dire ciò che c'era da dire, anzi ... forse non del tutto ancora.
<Ricordati che in un posto del genere, di classe, le persone pagano anche solo per parlare in modo da sentirsi meno soli, visto che il lavoro ha impedito loro di formarsi una famiglia, quindi come immagini il sorriso è necessario.
Occupati di guadagnare quanto pattuito.
Non uscirai comunque abbastanza presto da qui>
Afferro i due lembi della giacchetta chiudendola con il piccolo bottone presente in basso, sistemandomi l'abito prima di darle le spalle ed avviarmi a risolvere altre questioni ben più spinose della giornata, avendo deciso di partire semplicemente dalla più divertente.
P.O.V.
Nicolas
Osservo con attenzione i disegni che Celine mi propone per questa giornata di fiera nella quale lavoreremo senza retribuzione su tutte le persone che si fermeranno al nostro stend giù in piazza.
In occasione abbiamo, per l'appunto, idealizzato bozze di progetti per le richieste più comuni, raffinato il carattere di scrittura, controllato con attenzione gli aghi e gli inchiostri, preparato le macchine, per cui posso dire di essere pronti a partire, avendo persino completato quest'ultimo appunto.
<Sono perfetti, Celine. Dico sul serio, sono bellissimi. Dove hai trovato l'ispirazione? E che fine ha fatto il tuo vecchio album?>
<Questo è un regalo di Kevin, e si può dire che lo siano anche questi disegni, in parte ...>
<Beh, se il ritorno del tuo uomo ti fa disegnare così proporrei di non farlo più andare via>
Celine sorride e sembra che quegli occhi abbiano ben altro da dire, che ancora non hanno rivelato, ma non è il momento adesso per scoprirlo, siamo già in ritardo.
<Monta in macchina, partiamo>
Annuisce, premendo poi posto al mio fianco nei sedili davanti, e per il breve tragitto che ci separa dalla nostra meta faccio ricognizione del carico, valutando la fitta agenda di impegni che ci siamo trovati ad erigere per poter far fronte a questa giornata.
Avremmo molto da lavorare ma per nessuno dei due è un peso. Stare in studio ci permette di concentrarci e riflettere con attenzione, imparare a gestire la nostra vita, ed ormai è diventata una specie di valvola di sfogo. Ci siamo costruiti abitudini insieme, rituali, orari e modi di fare che mai riusciremo a perdere. Con Celine lavoro bene, e le sue novità in ambito artistico sono sempre un piacere di cui non mi privo, ma la migliore delle nostre riuscire deve essere stata senza dubbio la creazione di questo evento.
Sceso di macchina recupero il necessario, i due tavoli in plastica su cui lavorare, le macchine con gli aghi fissati, gli esempi di disegni stampati e quanto serve per partire. Poi raggiungo la nostra postazione. Allestisco il tutto mentre i nostri vicini, gli altri ben fin troppo noti commercianti scesi come noi ad esporre la propria merce, ci salutano in accenni di cortesia, alle volte sincera, alle volte del tutto artefatta, ma poco importa perché non gli diamo troppo peso.
Muovendoci di pari passo io e Celine riusciamo a creare il nostro piccolo spazio, vendendo subito accolti da sguardi di gruppo di giovani camminatori di questa grande città, o da curiose attenzioni di uomini a metà percorso della loro vita, pronti a una svolta.
Attendiamo ognuno di loro, lo facciamo per vivere, lo facciamo perché ci piace e ci fa stare bene.
Per Celine è semplice intuirne il principio, ama l'arte e il disegno più di ogni altra cosa, e con i tatuaggi riesce ad imprimere quella passione sulla pelle degli altri ma per me il motivo è ben radicato all'interno della mia infanzia e nessuno oltre la mia collega si è mai spinto a conoscere.
È la giusta benzina per giorni come questo.
Il motivetto canoro che mi ripeto in testa e che mi fa sorridere nei momenti in cui i problemi si fanno avanti.
Non lo faccio per me, ma lo faccio per loro.
Tatuare disegni sulla pelle di un'altra persona per me significa farla star bene e sentire amata, ed è inevitabile quanto questo si ricolleghi alla mia piccola sorella, sempre incline a farsi male.
Piangeva, si riempiva di lividi a quel tempo, mi chiamava sempre, continuando a ripetere a gran voce anche il nome della mamma.
Ma nostra madre non c'era, era a lavoro, come nostro padre, ed ero io a dovermi prendere cura di lei.
Così, affinché quei lividi non la spaventassero e capisse quanto il dolore, alle volte, può semplicemente essere un fattore mentale io prendevo dei pennarelli, stappavo il tappo e mi mettevo a dipingere sulla sua pelle. Coprivo il nero di quelle macchie facendolo passare sotto un'altra tinta e donandogli una nuova sfumatura, oppure gli permettevo di rimanere intatto ma di dover necessariamente far parte di un progetto più grande.
Alle volte era il naso di qualche piccolo cagnolino che non avrebbe mai abbandonato il suo fianco.
Altre era una stella, cometa per giunta perché lei lo pretendeva, o un frutto che avrebbe dovuto mangiare ogni giorno dopo pranzo, un fumetto, un pallone, un cuore ma mai, mai dolore.
E lei smetteva di piangere.
Per questo lavoro, per non far piangere le persone.
Per nascondere le loro cicatrici di sofferenza sotto gli abiti di nuovi sentimenti.
Per questo ho un fianco totalmente dipinto al seguito della morte di mia sorella.
<Nicolas passami quel quaderno>, ordina Celine per poter mostrare al nostro primo cliente il nostro catalogo e solo ora mi accorgo della piccola fila di persone venutasi a creare.
Sorrido al primo impavido messosi a sedere di fronte a me, un ragazzo poco più piccolo di noi probabilmente e con un bel sorriso.
Immagino cosa abbia scelto, prima di domandarglielo, un vecchio gioco che faccio e nel quale molte volte non indovino, proprio come ora.
Cedo alla sua richiesta interrogandolo su quanta paura abbia degli aghi ma lui non teme la mia provocazione e si dimostra coraggioso.
Sento al mio fianco Celine sorridere del mio rituale iniziatico, poi il rumore della macchinetta per i tatuaggi si aziona nella mia mano.
Assaporo il suono, trovando la mia pace, prima di chinarmi verso la giovane pelle del ragazzo, macchinandola di colore.
Si dimostra impavido ma ugualmente delle lacrime di fastidio abbandonano le sue guance.
Perdile adesso, sotto forma di questa sfida, fai finta che non esistano, prova a celarmele, ma non farle mai cadere mentre sei solo, all'interno di una stanza. Da quelle non ti rialzi e si trasformano in un mare nel quale sarei costretto a galleggiare costantemente, confinato da quattro pareti.
Non perderle quando nessuno ti vede.
Non farlo mai.
<Ecco fatto! Allora che dici? Sei soddisfatto?>
<È venuto proprio bene>
<Ricordati; non devi metterti al sole. Spalma la crema protettiva ogni sera prima di andare a dormire e nel caso si arrossasse torna da noi, abbiamo un negozio poco più indietro, riconoscerai il nome dall'insegna>
<Certo, me ne ricorderò, grazie>
Sorrido divertito lasciandolo osservare il braccio fasciato dalla pellicola trasparente, prima di liberare il panchetto al prossimo mal capitato.
<E tu che cosa vuoi?>
<Mi piacerebbe un motivo tribale sulla gamba>
E certo, perché no, chissà quanti mi troverò a farne a fine giornata.
Pazienza, lo accontento, se questo è il suo desiderio inespresso.
<Te lo faccio ma solo se mi rispondi a questa domanda: lo fai perché ti piace o perché va di moda?>
<Perché mi piace, che domanda>
<Mh, meglio così perché la moda passa. E questa roba non si cancella tanto facilmente>
Al pari del dolore.
Il ragazzo annuisce e nel frattempo recupero un nuovo ago, cambiando il precedente quando un rumore mi colpisce ed una visione mi ruba occhi e mente, trascinandomi lontano.
Il suono appartiene a dei tacchi a spillo, ed è assurdo che sia riuscito a sentirli per quanto rumore c'è adesso in città, ciononostante mi hanno spinto a voltarmi e a scoprire nell'immagine di questa scena il viso freddo e impassibile di un angelo.
È circondata da altre quattro ragazze, ma il suo volto è il più bello di tutti, la sua tristezza la più marcata delle emozioni tanto da renderla unica rispetto a quell'approccio finto di sorrisi.
Resto fermo con la macchinetta tra le mani mentre sento quella di Celine continuare a lavorare emettendo sibili di suono, non abbastanza forti da distrarmi.
Gli occhi cadono lungo la figura di lei, quella visione astratta, che sotto il corto soprabito indossa un vestito blu scuro, di seta leggera, troppo per una stagione come questa ma lei non sembra percepirne il fastidio, avanzando nei suoi sottili tacchi con i capelli castano scuro lisci, lasciati sciolti, che nell'incedere si muovo sospinti dall'aria.
Dovrei realmente allontanare lo sguardo ma proprio quando lo penso eccola che mi trova.
Vengo inchiodato dalla sua traiettoria mobile, mentre continua a passeggiare con le altre, e quelle pupille ferme, immobili, scure mi fanno pensare a lei come alla più difficile delle sfide.
Malinconica ragazza.
Il suo sguardo riesce a parlarmi, per quanto il suo viso sia una muta maschera incisa nel ghiaccio più spesso e impenetrabile. Scorgo qualcosa, un breve bagliore, una scintilla ma è tenue e sembra dirmi di essere giunta alla fine della propria vita.
Non basterebbero tutti i miei colori per alimentarla ma forse ho altro, ho ben altro nella tasca da poterle offrire, frasi da dire, sorrisi da rivolgere, mani da offrire e sicurezze, certezze ...
Ma niente le appartiene, niente è suo perché la sua traversata è solo di passaggio.
Il suo vestito blu scuro diviene solamente una macchia di colore e la sua scintilla tanto lontana da non poter essere più vista.
La malinconica se ne è andata, lasciando dietro di se un vento gelido ma i miei vestiti sono abbastanza pesanti da resistere. Il passato che porto è abbastanza pesante per poter resistere.
La troverò e scoprirò i suoi lividi, e sopra a quelli disegnerò profili di colli nei quali potrà salvarsi, una via d'uscita a questo mondo fatto di sbagli e orrori.
Ti troverò, malinconica fata, ti salverò. Soffierò sulla tua luce e alimenterò il tuo respiro.
Non sei sola.
Nessuno è solo.
Per quanto ci sembri di esserlo, mentre proviamo dolore.
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