39- L'ombra di un ricordo

P.O.V.
Dafne

Quattro.
Quattro è il numero di volte in cui mi sono trovata ferma di fronte a questa porta, quell'odioso calcolo mentale che sembra attivarsi da solo, come un ingranaggio, quando è lui a convocarmi.

La prima era stata a sei anni, la mia colpa risiedeva nell'aver rotto un vaso di porcellana preziosa, in vita da generazioni, decenni di anni, e quel giorno ho imparato ad essere meno maldestra, a prestare più attenzione a ciò che era presente nel limitrofo d'intorno, che si trattasse di oggetti come di persone. Vi risiedeva la stessa fragilità di fondo.

La seconda a otto, dovevo imparare a socializzare di più con le mie compagne. Dalla maestra di scuola era venuto a sapere della mia tendenza all'isolamento, così come della mia paura nel poter essere ferita. Sono stata costretta ad invocare parole timide, esenti dal mio quotidiano vocabolario di silenzio, ed in una tortura ho lasciato che strisciassero via dalle mie labbra, tentando di raggiungere altri, come una carezza.
In quell'occasione ho scoperto l'audacia, e che il mondo poteva non essere tanto male come immaginavo, che forse socializzare poteva portarmi del bene così ho continuato a farlo.

La terza a dieci, ed il motivo non me lo ricordo. Quello che ricordo a distanza di tempo sono ancora le sue grida, quel tono di voce che tanto ha cercato di forgiarmi nel suo fuoco come una spada, insegnandomi un'educazione di cui sin da piccola sono stata privata, a causa della malattia di mia madre, dell'assenza nonostante la corporea presenza di mio padre.
Con il suo concitato respiro mi mise in guardia, suggerendomi di stare attenta, di essere più furba, altrimenti ne sarei potuta uscire sempre sconfitta dal conflitto con la vita.
Quella regola ancora non sono riuscita a impararla o a conoscerla appieno. A spingermi avanti non è la grinta quando la comprensione, l'ascolto delle persone nemiche quanto di quelle amiche, in modo da prestare loro sempre maggior interesse, senza perderle d'occhio.

La quarta, l'ultima e indimenticabile volta risiedeva tra i ricordi dei miei undici anni, al seguito della morte di mia madre, per un tumore celebrale.

Ognuno di quegli eventi comporta una ferita, lascia un segno impresso nel cervello che ti obbliga a crescere, con forza e costrizione, sempre maggiore.
Ad undici anni ho abbandonato quella stanza come un relitto.
Nemmeno il vento mi ammaestrava le vele.
Camminavo, navigavo, lungo il corridoio spinta dalla corrente di un burrascoso mare che non conduceva a nient'altro che a degli scogli.

Quel giorno imparai che era inevitabile morire.
Che le persone, anche le migliori, sono costrette ad andarsene a causa di forze più grandi.
Che devi imparare a gestirtela da sola, con le tue sole forze. Devi imparare a vivere anche quando non hai niente, anche quando non è rimasto nessun altro a farlo, solo per te.

Ed ora temo una qualsiasi rivelazione questo legno possa celare. La mano mi trema avvicinandosi alla maniglia. Si ritrae, da sola e senza il mio consenso, forse ancora appartenendo a quella piccola bambina di sei anni, impaurita dalla conseguenza di un semplice gioco di corsa e del suo nome richiamato dalla figura dell'autoritario maggiordomo, posto a farle da guardia.

Vorrei allontanare quel passato dagli occhi, dalla testa, far crescere questa mano e dimostrarmi sicura, ma per farlo sono costretta a chiudere gli occhi.

Con decisione stringo tra le dita il ferro della maniglia, per consentire alla porta di aprirsi con lentezza inevitabile.

Lui è in attesa, seduto dietro la sua scrivania con le dita intrecciate tra loro, le labbra premute contro e gli occhi fissi su di me. Forse riusciva a vedermi, esitante e immobile oltre quel divisorio imposto, spiandomi con quei suoi occhi di ghiaccio e l'espressione guardinga che da sempre ormai tiene cucita sulla faccia.

<Dafne ti aspettavo. Prego, accomodati>

I modi sono cambiati come il tempo che ha permesso loro di crescere, ma lo schema è lo stesso.

Mi avvicino alla sua postazione, sedendomi stavolta, così da non rimanere in piedi a ricevere i suoi rimproveri o cure, regole, osservandolo molto più da vicino di come sono solita fare.

Richard Lee non è un uomo facile da avvicinare. Non lo è per nessuno, ed io non vorrei altrimenti per me.

<Perché mi hai chiamato qui?>

<Come stai?>, surclassa, con un temperamento degno degli affari.

Desolata cedo la risposta. <Bene ... sto bene>

<So che passi molto tempo nella serra, Monty me ne ha parlato>

<Era di mia madre, ci tengo particolarmente>

<Forse però desideri uscire, vedere il mondo dal fuori ...>

Resto immobile senza cedere ai suoi inganni, in silenzio e nell'ascolto di altre sue fredde e calcolate parole.

<Mi dispiace molto che tu non possa farlo, ma è per la tua sicurezza, ti posso garantire>

<Lo so>

<Ti sta bene così?>

<Mi hai detto di essere costretto a farlo, solo per mia difesa. Ti credo, tu potrai proteggici, allontana la persona che può farci del male ed insieme torneremo alla vita di sempre>

<E William?Che cosa ne pensa?>

<In merito a..?>

<Questa situazione. Tu e lui andate molto d'accordo>

Taccio di nuovo senza muovere alcun arto mentre i suoi occhi, attenti, spiano qualsiasi mia mossa.

<Prenditi cura di lui, Dafne. Ne ha davvero bisogno>, mi dice, senza alcun motivo.
Conosco William abbastanza da poter capire da sola ciò che è meglio per lui.

<Lo farò, non si preoccupi>

<Ti ho chiamato qui per parlare di una cosa. Il prossimo fine settimana ho intenzione di organizzare una festa per il tuo compleanno. I venti anni sono un traguardo importante e mi piacerebbe che non passasse inosservato, ma so che per te il tuo compleanno è una data importante, da trascorrere solitamente con un rituale quindi vorrei sapere cosa ne pensi>

Era importante, si, ed il mio modo di celebrarlo, solitamente, non coinvolgeva decine di persone racchiuse in un'unica stanza, sfoggiando abiti eleganti.

<Si tratta solo di una cena, non è vero?>

<Una cena, e un dopocena di gala, non vorrai scacciar via in malo modo gli ospiti cara Dafne>

Sorrido con compiacenza, vittima di un malumore più grigio del tempo visibile attraverso i vetri della prigione.
<No, no affatto. Va bene>, cedo alla richiesta, abbassando inconsciamente la testa, perdendomi all'interno di eventi passati. <Sarò presente>

<Ottimo, ne sono felice!>

<C'è altro di cui vuoi parlare?>

La sua testa si muove in un diniego degno di un piccolo bambino. Sorrido debolmente accogliendo la risposta, vedendogli fare altrettanto.

<No, non per ora piccola, puoi andare>

Lentamente mi alzo e mentre raggiungo la porta mi domando quale lezione stavolta mi sia trovata a subire.
Temo che inevitabilmente possa comparirmi davanti, in un ineluttabile destino ma forse è proprio qui di fronte, non appena spalanco l'accesso al corridoio.

William tiene la schiena premuta contro la parete a me opposta, braccia incrociate e testa china, occhi sollevati in direzione dell'uomo che ormai ho lasciato alle spalle.

Con delicatezza impedisco che quel contatto di sguardi possa proseguire oltre, permettendomi di essere il suo solo punto di vista, come è sempre stato.

Chiudo il portone anche se una volta soli non si scompone lo stesso di un solo passo.
Sono io a farmi più vicina percependo la sua paura, desiderando spazzarla via, in modo magistrale.

<Di cosa avete parlato?>, chiede infatti trovatami nel suo raggio visivo, proprio al di sotto della testa che ancora tiene china.

<Mi ha detto della festa di compleanno, la settimana prossima>

<Stagli lontana>

<Signorino Lee>, esordisce una voce fin troppo nota.

Will mi afferra il braccio, prendendomi sotto il gomito e incitandomi a mettere la dovuta di stanza tra noi e lei.

<Non ora Monty>

<Signorino!>

<Non ora!>

<Perché continua a chiamarti, ci sono problemi?> Non mi rendo mai conto di quando avanzino, per cui lo devo sempre chiedere senza alcuna prescrizione.

<Ci sono eccome. Mio padre vuole fare in modo che tu ti allontani da me, e usa anche Monty per riuscirci>

<Will di cosa stai parlando? Poco fa mi ha raccomandato di prendermi cura di te>

In fretta stiamo scendendo la scalinata principale della casa, lasciando dietro di noi la scia di quella vigile voce.

Alla mia risposta lui si volta e mi sorride, scoprendo persino i denti.

<Ti ha detto così?>

<Si>

<Allora capisci quanto io abbia ragione?> Aggrotto la fronte restando a fissarlo senza capire, mentre i gradini si succedono velocemente, uno dopo l'altro.

<Dafne, se mi stai vicino più di quanto io mi aspetti, e almeno quanto mio padre ti ordini, puoi arrivare vedere cose della mia vita in grado di non piacerti, e lo sai. Saresti costretta, per il tuo carattere e spirito, ad allontanarti da me, per sempre>

<Non è così, Will, io non voglio. Tuo padre non è una persona cattiva, ti puoi fidare>

<Dafne ...>, sospira senza fiato, ed eccoci giunti al termine della gara di corsa. Monty non è alle nostre spalle ma ancora si percepisce il suo richiamo dall'altra parte della casa.
I neri carboni che il mio sicario tiene al posto degli occhi si alzano in direzione del percorso appena superato, osservando quasi potesse scorgere, allo stesso modo con cui questi vedono, il resto e uccidere l'origine del fastidioso suono, una volta per tutte.

<Devo trovare altri uomini che ti facciano da guardia. Monty non può più essere uno di loro>

<Così sarai tu a spiarmi invece che tuo padre?>

<Quali preferisci, i miei o i suoi occhi?>
Sfortunatamente non ho mai saputo scegliere.
È la mia condanna?

La risposta sopraggiunge sulle labbra non appena Will si china lasciandomi un debole bacio.

<Resta qui>, respira sulla mia bocca, fissandomi nelle iridi nonostante la poca distanza, <aspetta che torni, poi potremmo stare insieme>

Annuisco debolmente prima che un soffio di vento gelido simboleggi la sua ritirata, ed immobile rimango a fissare le sue spalle, senza realmente comprendere di quanto sangue sia stata intrisa la sua pelle, e dove la sua colpa finisca per dare vita a quella di altri, inevitabilmente traditori dell'anima che un tempo albergava felice all'interno del suo corpo ma che adesso non è divenuta altro che una grave vittima di un conflitto a fuoco, iniziato fin dalla giovane età.
Una sparatoria al termine della quale altro non sono rimasti che brandelli, in grado di manifestarsi a me soltanto: piccoli e macchinati pezzi di nera oscurità pur sempre presenti, ed io sono la sola in grado di salvarli, così come accade per le piante della serra. Pianto freschi germogli in grado di fiorire, dalle quali spero nasca un bellissimo bocciolo al cospetto del sole, servo come padrone della sua futura nascita, in una tacita preghiera di inevitabile speranza.

P.O.V.
Ian

Mi sento come immagino debba sentirsi uno studente al termine di un corso di studi. Le regole per partire mi sono state date, ma adesso tocca a me metterle in pratica.
Aspetto con trepidante attesa questa prova, aggiungendo alla febbricitazione anche la tensione in un evidente grafico di crescita nella quale la metto a rapporto con il tempo, estremamente dilatato, attendendo l'arrivo del cliente a questo lussuoso tavolo in vetro, sulla terrazza di un ristorante.

Batto il ritmo della fretta con le dita mentre ripenso a tutte le informazioni raccolte da Bjorn poco più di tre ore fa, ricordandomi anche della sfida, lanciata da Monty. Voleva che gli dimostrassi cosa avevo imparato, ed io di certo non avrei fatto un passo indietro, per questo motivo sto osservando la traccia arancione del cielo durante la caduta di un'inevitabile tramonto, con in sottofondo il ticchettio dei tacchi dei vari camerieri obbligati al servizio al tavolo.

Un rumore diverso dagli altri mi porta ad alzare gli occhi e scorgere il volto stranamente abbronzato di un asiatico dietro occhiali scuri di un'alta firma e marca, allo stesso modo degli abiti.
Osservo la grazia con cui si avvicina e la tranquillità dei suoi modi, mentre prende posto al mio tavolo da gioco. 
Bene dunque, iniziamo.

Con un sospiro chiudo la porta di camera, intrappolando dietro di me i problemi.
Fisso la stanza trovandola in ordine come promesso dal servizio dell'hotel e grazie al cielo sono pochi i passi in grado di congiungermi al letto. 
Cado di schiena sul materasso, cercando il giusto respiro.

Appena l'asiatico si era seduto erano partite le contrattazioni, anche se non erano andate a buon fine. L'uomo non cedeva facilmente, e non ne capivo il motivo fin quando non aveva chiarito di essere un semplice sottoposto, dinanzi a una cifra troppo grande in termine monetario, tanto da avere bisogno del consenso del suo superiore.
Forse Monty lo sapeva e voleva scoprire fino a che punto sarei riuscito a spingermi, a spingerlo, portandolo forse alla soglia di un consenso, oppure la vera sfida sarebbe iniziata al prossimo incontro, quando avrei direttamente parlato con il capo dell'uomo, in un confronto diretto.
Non potevo saperlo veramente, ma lo avrei scoperto presto. Dovevo solo pazientare alcuni giorni.

Sfinito stendo le braccia, passando la mano sotto il cuscino per riuscire ad afferrarlo e tirarlo a me, ma la mano sfiora qualcosa. La sensazione della carta arriva a tagliarmi la pelle.
Mi alzo a sedere osservando il capo del letto, scoprendo la presenza di almeno tre dossier, ovvero cartelle in plastica colorata, con dentro un quantitativo smisurato di fogli, racchiusi in altre cartelle.

Damien.

Una volta tre le mie mani cartelle e relativi fogli vengono sottoposti all'attenta indagine dei miei occhi, che ne scoprono l'attimo dopo l'importanza.
Tra le fila di righe sono costruiti legami di parentela in grado di congiungere generazioni, donandomi informazioni accurate delle loro vite.
Dossier con tanto di relative immagini a seconda della persona presa in analisi.

Impiego molto tempo ad analizzarli, registrarli nella mente congiungendoli ad eventi passati in modo tale da farmi trovare pronto, proprio come vuole Damien.  La data riportata su uno di loro però, relativa a un periodo straordinariamente vicino al nostro tempo, attira il mio sguardo catturandomi l'attenzione. Le dita riescono a pescarlo tra quel mare di pesci, scovandone il nome.

Lorelan Wilson.

Precipito nell'incubo della sua vita. Una particolare mostra al massacro di sogni costretti a non realizzarsi mai, fino a dover essere richiusi in un anfratto nascosto nella memoria.
A causa di debiti la ragazza venticinquenne è costretta a lavorare nella casa chiusa della famiglia Lee.
Non sapevo ne possedessero una, ma era immaginabile. Le voci migliori passano veloci tra le gambe disponibili di prostitute all'interno di un bordello. Avere potere per William, il capo della baracca seguito dalla madre, significa possedere il controllo degli uomini, specie dalla vita in giù, delle loro frasi sconnesse emesse nella perdizione del piacere in maniera del tutto inconscia, e affatto preparata.
Un modo meschino come un altro di ottenere confessioni.
E Lorelan ora è costretta a pagare i peccati del padre, un debitore incapace di coprire i propri debiti, e la pena dei suoi peccati la costringe a vivere la propria vita all'interno di quella specie di deplorevole confessionale, sulla propria pelle, senza alcun riguardo, manovrata da un  uomo che ancora non mi si è voluto mostrare per intero, rivelandomi la sua mente, la sua follia.

Damien mi aveva raccomandato di stargli alla larga.
Mi aveva fatto promettere di tenere le distanze da William.
Posso farlo, dopo aver scoperto ciò che voglio sapere, andando fino in fondo a questa storia per spazzare via a tutti loro il terreno sotto i piedi, come un terremoto. Non rimarrà altro delle loro fondamenta e dei loro imbrogli, niente dei loro traffici o delle loro vite, ma per riuscirci ho bisogno di prove, ho bisogno di parole e non c'è uomo migliore di Bjorn per procurarmele.
Fisso con aperta attenzione il caso di quel fantino, camminando con particolare interesse al di sopra del filo della sua gioiosa vita, cercando di scovare l'attimo esatto in cui la corruzione è entrata a farne parte.

P.O.V.
Megan

Un'occasione. È quello che vedo. La mia occasione, vestita nei panni di una sedicenne.

Con attenzione mi faccio avanti porgendole l'ordinazione, stando attenta ad offrire un'impeccabile servizio, direi senza precedenti.

<Deve esserci un'errore, mi dispiace ma non ho ordinato alcun dolce>, mi fa notare la ragazzina in un tono affettuoso degno dei suoi modi gentili, ed io sorrido alle sue spalle, dall'alto della mia tentazione.

<Dice sul serio? Eppure è la sua torta preferita, come può rifiutare?>
Bastano queste parole, l'udire la mia voce per permettere di cadere di un candido sorriso, e voltarsi di scatto, trovandomi.

<Megan!>

<Ti sono mancata?>

<Dove sei stata per tutto questo tempo?>

Spalanco le braccia, mostrandole l'evidente stazionarietà della mia monotona vita.

<Proprio dove mi hai trovata, ultimamente vesto troppo spesso i panni della cameriera>

<Un tempo ti piaceva molto>

<Anche ora mi piace, ma sfortunatamente non mi concede una vita piena di eventi come la tua. Ho sentito che oggi tuo padre inaugura l'apertura di un nuovo negozio, al termine della strada>

<Propio così, e vuole che sia presente! Mi aiuteresti Meg? Non so proprio come vestirmi>

<Il mio turno finisce tra poco>, commento, in un calcolo all'apparenza istantaneo, <se vuoi possiamo andare insieme a casa tua, e scegliere il giusto abito. Per i capelli ci può pensare Nicole, se lo vuoi>

<Sarebbe fantastico, sai?>

<Finisco il turno e poi insieme passiamo ad avvertirla. Sarà contenta di rivederti, vedrai>

Anche se non quanto me, avendo appena ottenuto la scusa perfetta per entrare nell'ufficio del sindaco, nella sua casa, e scoprire quale segreto William abbia tentato di rubare.

<Va bene, ti aspetto all'entrata>

<Goditi il dolce>, le consiglio, per poi avviarmi verso l'uscita secondaria e gli spogliatoi, così da togliermi di dosso questi abiti.

<Megan, scusami, potresti passare a buttare la spazzatura prima di terminare? Le ordinazioni si sono accumulate e in cucina è un delirio assurdo>, avanza richiesta Louis, ed io dopo quella cena in pizzeria con Caleb e Deborah non posso che accettare.

<Certo, non preoccuparti, me ne occupo io>
Lo faccio. Trasporto il necessario velocemente fuori dall'ingresso secondario del ristorante, incline a non perdere ulteriore tempo.

L'aria mi sferza gelida il viso, batte contro la mia pelle tanto da farmi stringere gli occhi ma non abbastanza da impedirmi di scorgere un'ombra.

È un movimento, un solo ed unico tratto eppure quanto basta a rendermi immobile di fronte a quell'accenno di ricordo, impossibile da collocare in un punto definito del mio passato, ma che ad ogni modo vi risiede, quasi con prepotenza.

Quell'ombra di un uomo castano dai vestiti scuri e gli occhi verdi, il cui nome assume sembianze liquide, informe, senza un recipiente nel quale poterne raccogliere il dolore.

L'amore tragico che un tempo gli albergava nel cuore mi aveva stregato, impedendo fin da allora di fuggire via dal mio.

<Damien!>, grido con tutta la mia voce per permettergli di sentirmi.
I suoi passi si arrestano, i miei corrono verso la strada che l'aveva assorto.
Mi affaccio su di essa e lo scorgo ancora di spalle, ancora dritto nella sua postura altezzosamente arrogante a celare il cuore ferito al centro del petto.

Non lo vedo da anni ormai ... credevo che fosse riuscito a scappare. Non era forse il suo piano? Il grande viaggio grazie al quale costruire la propria vita, a fianco della donna che amava.

A separarci ci sono decenni di anni, età differenti che ci portiamo addosso e che ci vedono diversi dal nostro ultimo incontro in un giardino pubblico, ma le sue parole non se ne sono andate, la sua voce non è corsa via.
La speranza riservata al suo promettente futuro mi ha permesso di sperare ogni giorno in un'amore che un tempo non capivo, in un posto che un tempo non amavo abbastanza.

<Mi dispiace, devi avermi confuso con qualcun altro>

<No, non l'ho fatto, non scappare! Aspetta Damien, sono io ... Megan, ti ricordi? Sono passati dieci anni, credevo che fossi partito, avevi detto che lo avresti fatto. Sei insieme a lei adesso? Ti va di presentarmela?>

<Non so di chi parli>

<Perché fai così? Voltati, riconosco la tua voce, non mi sto sbagliando>

<Devi avere la mente confusa ragazzina, mi confondi con qualcun altro>

Quel tono gelido non corrisponde affatto ai miei ricordi.
Rimango immobile scoprendolo.

L'uomo di quegli anni era un uomo buono.
Non aveva niente di quest'indifferenza.
Perché la odiava.
Odiava fingere, odiava non parlare.
Era un'anima libera, voleva amare.
Ed era gentile, affatto scostante.
Uno dei pochi veri amici che abbia mai avuto.

No ... non può essere quella persona.
La schiena, le spalle, la nuca, i capelli sono gli stessi e anche la cadenza della voce, anche la mascella d'un tratto contratta e quel taglio di verdi occhi che di profilo mi spiano, ma deve essere uno sbaglio.

Si, devo essermi sbagliata.
Molte cose in fondo sono cambiate.
Come poteva non farlo anche lui?
Come poteva rimanere la persona piena di speranza e buon umore che un tempo aveva allietato le mie giornate passate in solitaria, tra giochi da bambina e pericolose arrampicate sugli arredi in plastica di un pubblico parco? Sotto gli occhi di mia madre e i suoi, a sostituire quelli di un padre venuto da sempre a mancare, con amore e dedizione, alle volte divertita ostinazione nel volermi far sottostare alle sue regole nonostante le ignorassi, senza mai apportare rancore o dispiacere.

Quell'uomo mi voleva bene, ma non era altro che un ricordo.

Si, si devo essermi sbagliata, lui è corso lontano, tenendo per mano l'altra metà della sua passione, si era salvato.
Alla fine queste spalle non sono affatto simili, sono semplici spalle da uomo, ed i vestiti pure sono diversi, quegli occhi semplicemente verdi, la voce modificata dallo scorrere del tempo.

<Si ... si devo essermi sbagliata, mi scusi>

Retrocedo mentre la sua figura rimane immobile permettendomi di correre via come facevo da bambina sentendolo contare, scappando dall'incubo di quella retrocessione di numeri al solo scopo di dimostrare la mia scaltrezza, troppo piccola per quel gioco, come ero io al suo confronto, anche se il vero scopo era farmi trovare e precipitare in una catastrofica risata sotto la sua tortura del solletico, implacabile lotta dalla quale non si sottraeva mai obbligandomi alle risa.
Mia madre ci fissava dall'alto del balcone del nostro piano, contenta della vista mentre stendeva i panni, quasi stesse osservando un litigio tra il fratello maggiore e la sorella, amando come lui si prendeva cura di me ed io lo ricordo mi sentivo amata, sicura, protetta affiancata da lui, da Caleb, Ian e mia madre, ero al sicuro ...

Ma non si trattava che di un ricordo.
Quel fratello disperso era riuscito ad ottenere il suo meritato finale, il premio della sua dolcezza e perseveranza.
Si era salvato, era corso via dal South Side, e adesso viveva sicuro la vita felice che per molto tempo gli ho augurato.

Solo questo, un ricordo, una vita immaginata, una speranza avente le radici in un antico passato.

Niente altro, niente maggiore dolore.

Quell'uomo non era qui con noi, nel nostro tempo, costretto a subirne altro.

Si, senza dubbio mi ero sbagliata.

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