3- Il Burnett
Questo capitolo è dedicato a MaryanneRoses16 la prima sostenitrice di questa storia, spero di non aver tradito le tue aspettative. A tutti voi buona lettura
Un'ora dopo sono sola, a passeggiare per le strade del nostro quartiere, diretta al punto di ritrovo.
Finita la cena Caleb è dovuto tornare al suo appartamento, non me ne ha detto il motivo ma ormai conosco la sua famiglia come se fosse la mia, sono certa riguardasse la madre.
Ad ogni modo, non mi ha offerto il tempo di preoccuparmene, si è alzato dalla tavola, dopo lunghi minuti durante i quali nessuno dei due voleva muoversi, e mi si è avvicinato. La sua mano si è mossa con lentezza, sfiorandomi il viso, lasciandomi una carezza.
"Ci vediamo al giardino", ha sussurrato, prima di voltarsi e rendere inaccessibili, per pochi istanti, i suoi occhi verde smeraldo. Li ho ritrovati sul ciglio della porta, intenti in un sorriso.
Così mi sono mossa anch'io, lasciando alla mamma il resto della cena conservata apposta per lei nel forno, in modo da mantenerla calda in un ambiente chiuso, mi sono cambiata necessitando di un paio di pantaloni lunghi visto dove stavo andando, e sono uscita.
Ed ora mi trovo qui, su queste strade impolverate, in una passeggiata lenta a preservare il momento migliore della giornata: il ritrovo, la vicinanza a tutti gli amici rimasti, distanti, adulti, di fronte allo splendere del sole, servi di diversi lavori, ma bambini, chiassosi e divertenti, al calare della notte.
Questo è ciò che amo, questo mi fa sentire viva.
<Nicole, dannazione ci stai mettendo una vita!>
<Non mettermi fretta Joseph altrimenti giuro che una di queste sbarre la uso come picca e la faccio arrivare dritta alla tua gola>
<Neanche sapevi cosa fosse una picca, prima che te lo spiegassi>
<Per la verità è stata Meg a dirmelo, tu non centri proprio niente> Mi tappo la bocca per non ridere, e farmi scoprire troppo presto.
<Si certo come no>, non si da per vinto, <e comunque è possibile che tu non sappia ancora scendere da lì? Persino da bambina avevi bisogno di me>
<Ti sembra che ti stia chiedendo aiuto?>
Non so con che battuta entrare visto il loro battibecco, pieno di punti a cui prendere ispirazione: potrei semplicemente raccontare di come un giorno, alla biblioteca dopo la lettura ai bambini, Joseph mi avesse chiesto quasi in ginocchio di spiegargli cosa fosse una picca, dopo averlo sentito da Nicole, che a sua volta l'aveva percepito in un discorso privo di senso e pieno di alcol da me. Quasi mi ci era voluta una vita per far cadere Nicole nell'affascinante periodo medievale, introducendola alle armi da lancio e all'artiglieria storica, e non credevo di riuscire a provare uno sforzo più grande nello spiegare, ma Joseph mi aveva fatto ricredere. Era testardo, duro, e come molti di noi, privo di educazione elementare. Tutto quello che so io lo devo ai libri, a nessun altro, non a mia madre, che a mala pena aveva fatto le medie, né tanto meno a mio padre, che al solo vedermi in culla aveva deciso di non restare più con noi. Sarebbe un bel modo di rimettere entrambi i miei due amici saccenti al loro posto ma c'è ben altro che mi sconvolge, e ancora una volta riguarda la loro testardaggine.
<Ragazzi ... ma come è possibile che tutte le volte vogliate sempre passare di qui? C'è un'altra apertura, dalla parte opposta e non si trova a un metro e mezzo da terra>
<Meg! Sei arrivata!>
Apro le mani quasi volessi rendere improvvisamente visibile a entrambi la mia incontestabile presenza e Joseph ride.
<Beh, perché scusa, non ci sei anche tu qui?>
<Vi ho sentiti bisticciare, sono venuta solo per verificare che non vi ammazziate con le vostre mani, se riuscite a salvarvi da questo cancello>
Perché la barriera che si erano trovati a superare era proprio questo, un alto cancello rifinito da caratteri floreali al termine delle sbarre di ferro di un metro e mezzo, dove la ruggine aveva preso il posto della vernice.
<Spero sempre che Joseph non riesca a passare, una volta salito fino in cima. Così si gioca i gioielli di famiglia>
<Non starla a sentire, ormai la cattiveria le scorre nelle vene come il sangue. E' che ci piace continuare a usare questo, di accesso, come quando eravamo bambini. Nonostante questa scema non riesca mai a superarlo alla prima>
Se gli occhi di Nicole fossero in grado di uccidere ... Joseph non sarebbe mai venuto al mondo. Ma era solo amore che cresce. Almeno, secondo la mia opinione.
Il mio amico con uno slancio riesce a trovare una presa sulla sbarre, e a issarvisi sopra, superando l'incombenza degli spuntoni, ritrovati nel punto più alto, e una volta passati quelli si lascia andare dall'altro lato della barriera, e atterra con la precisione di un'atleta su due piedi, lanciando un guanto di sfida a Nic.
La bionda non si da per vinta, recupera tutto il suo coraggio e riesce a farcela, con notevole sforzo, ma in grado di modificare l'espressione arrogante avvinta al volto dell'altro. Poi entrambi si voltano verso me.
<Beh Meg? Che fai non vieni?> Sorrido alla loro improvvisa collaborazione, e mi faccio avanti.
Non appena le mie mani sfiorano il freddo dell'asta un ricordo torna a farmi visita, e sorridendo mi fa chiudere gli occhi.
<Questo posto è fantastico, non pensi?>
<Si, è bellissimo>
<Attenta a dove metti i piedi Meg, potresti farti male>
<Sei sicuro che vuoi passare di qui? Questo cancello sembra molto alto, e vecchio>
<Stai tranquilla, mio padre mi ha insegnato come fare, in cantiere riesce sempre a muoversi bene. Guarda, metti un piede qui, poi uno qua, e ora sollevati>
Lo faccio e mi riesce, al mio fianco lui mi imita. Cadiamo insieme dall'altra parte, male, avvicinando per prima cosa al terreno una mano, un gomito, pur di non sbattere la testa. Ci è andata bene. Scoppiamo a ridere. Il cielo sopra le nostre teste è di un azzurro bellissimo, lo stesso colore della sua maglia.
<Hai visto Meg? Finché sono con te niente ti sembrerà impossibile>
Lo dice con sincerità, lo dice senza pensarci un attimo.
Osservo il modo con cui il sole gli illumina i capelli castano chiaro e schiarisce di varie gradazioni il marrone scuro dei suoi occhi.
<Lo so Ian, lo so>
Mi isso sulla presa creata dalle mie mani, e in un attimo sono al fianco dei miei amici. Joseph mi sta osservando con un sopracciglio alzato.
<Bravina. Ti alleni anche nell'atletica e non ci dici niente?> L'atletica, una sua fissazione, da quando a dodici anni era riuscito a vedere una partita nel vecchio televisore del ristorante di Nino dove adesso lavoro, affiancato a un sacco di gente ubriaca.
<Saresti il primo a cui lo direi, se così fosse>
<Al massimo il terzo>, mi punge, ed io scuoto la testa arresa. Nicole si avvicina al mio fianco e sorride, mi afferra un braccio. E' felice come me di essere ancora una volta insieme.
La luna già è presente nel cielo quando raggiungiamo il cuore del nostro rifugio, e la sua presenza crea un atmosfera di mistero a questo luogo già ricco di segreti.
Il Burnett.
Così veniva chiamato, da circa dodici anni.
Lo abbiamo trovato quasi per caso, io e Ian, stavamo giocando per la città e faceva molto caldo, ancora lo ricordo. Mia madre e suo padre ci avevamo obbligato a non stare sotto il sole nel pieno di quell'agosto afoso, e al massimo giocare nei pressi dell'unica fontanella presente nell'intero isolato. A quel tempo sembrava avere un aspetto persino peggiore dell'attuale, e forse anche troppo banale per le nostre avventure, così disobbedimmo, ci allontanammo, e arrivammo tanto lontani dalle abitazioni come non ci era mai stato permesso. Persino adesso devo fare i conti con quella distanza un tempo bruciata nella corsa. Da bambini non sembrava tanto, al massimo cinque minuti, dieci, se percorsi con calma, ma il tempo era caratterizzato da così tante cose, dalla fretta dell'età, dalla curiosità, e dalla magia. Quel luogo era carico di magia, la stessa che persino adesso lo protegge da occhi estranei.
Pareva un'allucinazione causata dal caldo, o dalla disidratazione, quell'enorme cancello posto in mezzo al niente, contornato da fila e fila di foglie verdi, a proteggerne le trame, eppure non ci spaventò, anzi, fu il contrario. C'era come una forza, in grado di trascinarci a sé, ponendoci le mani sopra quelle lame verticali, senza nemmeno che ce ne rendessimo conto.
Un luogo tutto per noi. Un segreto da condividere.
Una volta addentrati l'illusione non svanì e ci rivelò parte dei suoi misteri, quella specie di casa con solo un piano, tre finestre ed un tetto pari, protetta da un'enorme albero a sovrastarla, proteggendola costantemente con i suoi rami. Anni dopo, sotto quello stesso albero, sarebbe stato posto un tavolo per sei, capace di accoglierci tutti, ma a quel tempo non ce ne fu bisogno perché io e Ian, scoperto il nostro nascondiglio, ogni pomeriggio ci ritrovavamo a giocare, e lo facevamo a terra, sul pavimento della casetta abbandonata, oppure perdendoci nell'immensa foresta che ci veniva offerta, piena di colori e di piante.
Fu attraverso una delle nostre spedizioni che trovammo l'altalena, e un cespuglio di rose. Avevamo sei anni, e da poco conosciuto Caleb. Io già leggevo, anche troppo per una ragazzina della mia età, la fantasia mi correva e quell'insieme di aspetti, l'altalena, le rose, l'amicizia tra me, Caleb e Ian, mi portò a condividere ad alta voce una riflessione mai dimenticata, capace di dare il nome a questo luogo, aggiungendo più magia, più mistero, più amore, per questo posto che era solo nostro, lontano dagli adulti, lontano dalla povertà.
E' il nostro giardino segreto.
E lo era davvero, lo era ancora oggi.
Quella frase sembrò piacere ai due compagni fedeli in piedi ai miei due lati, che mi chiesero, dopo attimi di religioso silenzio nel quale percepimmo la natura, gli uccelli, il vento, nel suo passaggio tra le foglie, il sole, a trafiggerci oltre quelle ampie foglie del castagno secolare, come fossi riuscita a definire quello che a parole non erano stati in grado di esprimere, se me lo fossi inventata quel termine magico. Ma io non mi ero inventata proprio niente, lo avevo preso dai libri, dal mio preferito sempre presente nello zaino rotto dei miei sei anni.
"Il giardino segreto" di Frances Hodgson Burnett.
Burnett.
Funzionava come suono.
Il giardino, usando il vento come mezzo, rispose all'idea nata nelle nostre menti.
Fu spontaneo.
Nessuno poi, nel corso degli anni, aveva replicato, persino quando al nostro trio vennero aggiunte sempre più persone, Nicole, Joseph, Nicolas, e subito dopo Andrew, Celine e Kevin, arrivando a formare un gruppo di nove per niente adatte ad andare d'accordo su tutti gli aspetti della vita, non ci trovavamo su niente, tranne che su questo posto.
Nel nostro giardino magico eravamo tutti uniti, felici, nella finestra ricavata dalle nostre giornate. E tutt'oggi abbiamo bisogno, almeno una volta al giorno, di quell'incanto. In questo modo nessuno sarebbe rimasto imprigionato nell'imposto isolamento dettato dalle nostre case popolari, ma sarebbe ancora stato libero di volare, sopra i cieli di una sfrenata fantasia.
Questa era la mia casa.
Questa la mia famiglia.
Lentamente io, Nicole e Joseph continuiamo ad avvicinarci e raggiungiamo la casetta a un piano, riccamente arredata del necessario, nel corso degli anni, seppur priva di una qualunque utilità non avendo impianti, e il grande albero che la sovrasta.
Ad aspettarci c'è Nicolas, uscito proprio in quel momento con un accendino e la candela dalla casa, e sembra solo.
<Ma buonasera, ben arrivati> ghigna con un mezzo sorriso, completamente rivolto a me. Alzo un dito e glielo punto contro.
<Io e te dobbiamo parlare>
Posa accendino e candela sopra il tavolo in acciaio. <Dai Meg, nessuno oltre me, te, Nicole, Andrew e Ian lo sa>
<Sapere cosa?> Se ne esce Joseph, e lo sbruffone alza una mano come dire "hai visto?"
<Hai appena nominato cinque persone, e noi siamo nove>
<Beh ma non mi pare di aver detto il nome di Caleb o sbaglio?>
Il ricordo di Caleb in tuta, appena uscito dalla doccia a piedi nudi in casa mia, mi raggiunge come un contraccolpo.
<Giuro che non dico niente, se mi prometti che facciamo pace>, mi tenta questo diavolo, a voce bassa, in modo da poterlo sentire io sola.
<Facci di nuovo uno scherzo del genere, e non sarò così incline al perdono>
<Ma piccola io lo faccio per te, per farti capire chi inconsciamente ti saresti trovata a scegliere>
Apro la bocca, sconvolta dalle sue parole mentre il suo sorriso arricciato prendere un'ulteriore curva ad un angolo delle labbra. <Non c'è niente da scegliere, vedi di mettertelo in testa, sono miei amici, entrambi>
<Prova a dirlo a loro>
Sono pronta a protestare ma con una mossa mi zittisce. Si avvicina il dito alle labbra e con divertimento emette un <Ah, ah> intimidatorio, poi i suoi occhi mi sollecitano a voltarmi.
Dal fronte scuro degli alberi vedo la figura di Ian raggiungermi così, tornando a Nicolas, decido di mollare la presa seppure mi costa uno sforzo immane, che credo si immagini visto come continua a osservarmi sorridente, posando prima nella sua teca la candela accesa, poi agganciandola sul ramo più basso e robusto dell'albero, proprio sopra il tavolo.
Con gli occhi Ian corre al gruppo di amici intorno a noi, e dopo quella breve ispezione si ferma su me, che gli vado incontro.
<Ehi>
<Ciao di nuovo. Ancora arrabbiata?> domanda inclinando il capo, provando a studiarmi affondo.
<No, ma potrei uccidere Nicolas se stasera si lascia sfuggire una battuta di spirito>
<Fallo pure, credo alla fine tu possa ricevere un applauso, una volta che ci saremo accorti della sua assenza>
<Non tentarmi>
<Fai un giro con me, mentre aspettiamo gli altri?>
<Non dovrebbe mancare molto ormai> E' presto fatto, alle mie parole, dalla parte nord del giardino, vediamo arrivare anche Celine e Kevin, mano nella mano.
Loro due stanno insieme da quasi otto anni, una specie di record nella nostra compagnia. Nessun altro si era fidanzato, eccezione fatta per Nicolas e Nicole in quello che definirei essere il periodo più oscuro nella vita della mia migliore amica, in senso ironico. Non so veramente cosa le fosse preso, per tutto il tempo quei due erano sempre stati cane e gatto, ma un bel giorno io e Caleb stavamo entrando nel giardino con la quasi assoluta sicurezza di essere soli, gli altri erano a lavorare e noi avevamo bisogno di un momento nel nostro giardino segreto, per tornare a parlare un po', ma non ci fu concesso. Appena superato l'ingresso secondario, raggiunto l'albero avevamo sentito lo schiocco di baci.
Subito pensai a degli estranei, Celine e Kevin li avevamo trovati lungo la strada venendo li, ma non potevo dire lo stesso di Caleb: si era stretto il labbro inferiore in una morsa, tentando di non ridere, eppure non mi disse niente, costringendomi, lentamente, a raggiungere il tavolo, e una volta riusciti vedemmo Nicolas seduto a una delle sedie, con Nicole a cavalcioni, la quale sembrava quasi tirargli i capelli, da tanto glieli stringeva aggressivamente, nel loro bacio.
Pareva anche più coinvolta di lui.
Rimasi sconvolta mentre lo stronzo al mio fianco probabilmente doveva già essersi immaginato tutto, pur non avendomi tenuta informata di niente, e piegandosi sulle ginocchiata era scoppiato in una grossa risata, provocando un effetto disastroso: entrambi erano sobbalzati, ma nel farlo Nicolas era caduto indietro con la sedia, e Nicole con lui.
Non credo dimenticherò mai quella scena.
Non si trattava di amore ma di semplice curiosità ... avevano entrambi dei caratteri molto forti e si erano semplicemente attratti, anche se su quella sedia Nicolas continua comunque, dopo anni, a sedervisi.
Mi faccio più vicina al tavolo sentendo Ian seguirmi, e mi accomodo al posto più vicino, uno dei due capotavola, con Ian subito alla mia sinistra e Nicole alla mia destra.
Sorrido nel vedere il modo agguerrito con cui si fissano, mentre Nicole tira fuori un mazzo di carte.
<Allora bel bambolotto, pronto ad essere stracciato?>
<Dai queste carte, biondina>, le si rivolge agguerrito mentre io tiro fuori il pacco di sigarette. Vecchio vizio che non mi abbandona. Mamma un giorno mi ha rivelato che anche papà fumava.
Velata comicità.
<Meg sarai il giudice imparziale, tieni il conto delle volte che lo metto al tappeto>
<Sono qui apposta>, mi faccio avanti, sapendo già come va a finire. Poche volte Nicole era riuscita a batterlo.
Osservo le carte volare sul ripiano, e seguo qualche manche, mentre il resto della compagnia si aggiunge a noi, creando un piacevole sovrastarsi di voci e discussioni. Non tutti giocano a carte, ma nella sfida a due riescono con precisione, nelle giuste pause di quell'estenuante scontro, a inserirsi anche Nicolas e Kevin, lasciando me, Joseph, Andrew e Celine, intenti a fare altro.
Celine sui suoi fini fogli di carta è impegnata in quello che sembra essere, a tutti gli effetti, il ritratto di questa scena. Ha una mano molto bella, ed è bravissima nei ritratti. Non abbiamo fotocamere e la sua precisione, nel preservare i ricordi, ci è preziosa, soprattutto perché riesce a ritrarci in modi con cui neanche noi riusciamo a vederci. E' difficile da spiegare eppure si riesce a capire, notando anche solo i suoi schizzi. Sembra quasi in grado di ritrarre le nostre anime, oltre che ai nostri tratti. L'ho sempre amata per questo.
Ecco i suoi occhi attenti seguire con precisione le mosse e la posa di Joseph, intento nella lettura di quello che sembra essere, a tutti gli effetti, un manuale sulle moto da corsa. Joseph lavora insieme a Caleb in officina, e fin da piccolo aveva un talento innato nel capire i meccanismi delle cose, era stato quasi inevitabile per il signor Bing prenderlo a lavorare sotto la sua supervisione.
Poi gli occhi della mia amica saltano Andrew, che con la testa rivolta indietro sta fissando le stelle, e passano a me. Non vorrei che mi ritraesse così, mentre questa sigaretta tra le mani mi porta alla luce vecchi ricordi, in grado di macchiarmi l'anima. Giace tra le mie dita e non riesco ad allontanarla, così come allo stesso modo vorrei distanziare il ricordo di mio padre, senza riuscirci. Mi pesa come un masso caricato sulle spalle, schiacciandomi al suolo, togliendomi l'aria.
Vorrei tanto alzarmi e mandarlo via, correre lontano invece di rimanere schiacciata sotto questo dolore, eppure non ci riesco, mi tolgo sempre un po' più di fiato, un po' più di vita, aspirando in lunghe boccate.
I miei occhi non si allontano dalla sigaretta mentre sento quelli di Celine percorrermi il corpo, la sua matita correre sopra il foglio, e poi ... una mano, pallida e dalle dita lunghe, sottili, entra nella mia visuale. E' leggera e dolce, mentre con un movimento, uno solo, lento, seguito dai miei occhi, recupera la mezza sigaretta incastrata nella mia debole stretta.
Seguo il percorso di quella mano mentre si porta dietro di se il fumo, salendo, sempre di più, fino a posarsi su delle labbra rosee e piene, che l'accolgono socchiuse.
La matita di Celine corre ancora sul foglio mentre ritrovo quegli occhi verdi e calmi fissarmi dall'alto. La nicotina brucia dettata dal suo respiro, ed è come una lucciola in questa notte scura.
Rimaniamo intenti a fissarci, a due altezza diverse, mentre l'attenzione degli altri è altrove, per lunghi attimi ma sono certa che bastino a Celine per concludere il quadro di questa scena.
Adesso siamo tutti.
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