29- Il lupo di carta

P.O.V.
Kevin

Con le chiavi e le mani affondate nelle tasche del cappotto lungo, grigio scuro, che indosso percorro le scale di casa, rinunciando alla pretesa dell'ascensore nonostante abiti al quarto piano perché fare dei gradini non mi costa niente, anzi mi schiarisce le idee, e Dio solo sa quanto ne abbia davvero bisogno.

Sono appena le nove e mezzo ma dalle strette e lunghe finestre di questo condominio, parallele al pianerottolo di ogni piano, si intravede il blu scuro del cielo notturno e la presenza della pallida luna in un angolo di cielo. Non sono il solo a trovarmi al fissarla: tra il secondo e il terzo piano vengo affiancato da una piccola figura alta nemmeno mezzo metro, il secondo figlio della calorosa famiglia dell'appartamento 12a, Gabriel se non mi sbaglio, e con lui come scudiero al fianco rimango qualche istante immobile a godermi la vista che ci offre quel piccolo taglio di vetro, la contrapposizione tra moderno e antico costruito, fin troppo presente nella nostra città.

Quel bambino mi somiglia, nei pensieri, nelle scelte e me lo trovo sempre a fianco quando ritorno a casa. Sono arrivato a pensare che ormai abbia imparato i miei orari e mi aspetti, per potermi vedere anche se per poco, e questo riesce a riempirmi il cuore ogni volta, nonostante la sua spigliatezza non abbia mai confermato a parole quell'errore nella corazza dell'audacia. Mi ricorda anche Caleb a momenti, forse nei gesti o nelle espressioni, ma non ha niente della sua rabbia, è un bambino tranquillo e amato dalla sua famiglia, curioso quanto basta nel venirmi sempre a cercare, e mi incuriosisce almeno quanto penso di farlo io quando risolvo gli enigmi delle sue infantili domande con risposte risolute, macchiate alle volte da pura fantasia ma sempre con un sottofondo di verità.

Ma più di ogni cosa la sua curiosità mi ricorda Megan, e con il suo di ricordo non è affatto facile scontrarsi.

<Ciao ...>, esordisce con la sua voce cantilenante, simile ad una ninna nanna.

<Ciao a te, che cosa stavi facendo?>

Alza le spalle fissando fuori, oltre quel trasparente divisorio che ci limita al mondo.

<Guardavo la luna>

<E ti piace?>

<Si, ma non mi piace il buio>

<La luna però c'è solo di notte>, faccio notare, volendo sapere se quel piccolo faro gli piace abbastanza da riuscire a battere le sue paure.

<Si, è vero, però mi piace>, conferma la mia opinione ed io sorrido rimanendo a fissarlo.

<Come mai sei qui fuori, Gabriel?>

<Mamma è andata sul tetto a stendere i panni, e papà è dentro casa con i nostri parenti, stanno ancora cenando>

<E tu ti annoiavi?>

<Si, ti va di leggermi una filastrocca, Ke?>

<Più tardi piccolo, se la mamma ce lo consente. Ora ho bisogno di cambiarmi e lasciare queste cose in casa>, gli dico, scostando la borsa da lavoro che pende nell'incastro del mio polso, ancora nascosto all'interno del cappotto. Lui annuisce distrattamente, ma sua madre mi vuole bene, l'ho aiutata più di una volta con dei lavori in casa, o tenendo il figlio quando non poteva, quindi sono certo che ce lo possa concedere, almeno per poco. E in più ho saputo dal maggiore dei due fratelli che persino loro provengono da un piccolo paesino povero e senza troppe leggi, da cui si erano allontanati alla nascita di Gabriel, per ottenere maggiori possibilità in centro, guadagnando lavoro. Questo non ci aveva che portato ad essere più vicini, e la loro vita è l'emblema di ciò che vorrei avere con la mia Morisot, Gabriel il figlio che un giorno spero sia nostro, e che attendo con ansia vestendo i miei ventotto anni.

<Gabriel torna in casa! Tua zia chiede di te>, lo sentiamo richiamare dalla voce del padre, ed io lo incito a seguirla.

<Avanti, torna in casa, ci vediamo dopo>, assicuro e lentamente il piccolo si incammina passandomi a fianco. Sorrido e faccio scorrere una mano tra i suoi capelli, scompigliandoli di botto, cosa che lo fa ridere e iniziare a correre, credendo che si tratti di uno dei nostri tanti giochi, inventati nei pomeriggi di risate.

Poco dopo sono di nuovo solo, nel silenzio in cui Gabriel mi condanna, chiudendosi alle spalle la porta di casa e ovattando i suoni delle risate dei commensali, al tavolo della sua cucina.

Sospiro sentendo la tristezza posarsi come un masso sulle spalle mentre sollevo appena i piedi un gradino dopo l'altro, trascinandomi fino al portone di casa mia, al quarto piano, consapevole di meritare il mio destino essendomelo scelto, e se non bastasse la consapevolezza a ribadirlo, in piedi e appoggiato al muro di fronte alla mia entrata c'è un uomo che ormai ho imparato a conoscere fin troppo bene, con un sigaro tra le labbra e gli abiti firmati, in un contorno di disgusto che mi fa arricciare le labbra.

<Bentornato a casa, signor Fillard>

<Non mi aspettavo visite, che cosa vuoi, Monty?>

<Sono solo passato per un saluto, e per sapere come mai oggi pomeriggio hai saltato il nostro incontro. Dovevamo vederci per le quattordici>

<Ho avuto da fare in università>, mento, recuperando con tutta calma le chiavi dalla tasca. MI avvicino al portone venendo intossicato dalla puzza del suo sigaro, anche se l'acqua di colonia che porta ha un retrogusto persino peggiore.

<Sei sicuro che non abbia niente a che fare con un certo Caleb, tuo amico, del South Side?>

Blocco i movimenti, ruotando la testa verso il mio il mio esattore, principalmente di tranquillità ma sfortunatamente anche la moneta, in questo nostro scambio di beni, ha avuto la sua parte, legandomi per il collo al controllo di un uomo che non avrei più voluto sentire nominare dopo quel mio passo falso, ma che Caleb aveva portato a far uscire dal suo nascondiglio questo stesso pomeriggio, facendomi cadere in un vortice di paure.

<Che cosa vi siete detti al parco?>

Il fatto che lo chieda mi rassicura in parte, dandomi abbastanza spazio per mentire. Monty non è mai stato un genio, ma io d'altro canto non ero un pezzo grosso o un problema da tenere sotto controllo come era già diventato Caleb, o come stava per essere Ian, intrufolandosi nella banda.

Dunque passo alla bugia, vedendo chi dei due tra noi è più in grado di bersela.

<Anche lui è passato solo per un saluto>, lo beffeggio, estraendo le chiavi dalla gioco di incastri interno alla porta. <Se ci hai visti bene gli ho passato le chiavi della mia macchina, ne aveva bisogno per lavorare. Tutto qui.>

Spingo con più forza la spalla per permettere alla serratura di scattare, e finalmente dopo vari tentativi questa si apre con un mio sorriso, e lentamente la spalanco, deciso a riposarmi e a scacciare quell'insetto.

<Sei un tipo intelligente Kevin, altrimenti non saresti arrivato fino a qui, dove sei adesso, quindi vedi di non scordarti chi sono i tuoi protettori, e le persone che ti hanno offerto tutto. La casa in cui vivi, il lavoro che hai ... senza di noi non saresti stato niente, solo uno dei molti morti senza gloria ne onore in quel buco di fogna nel quale era costretto a vivere, quella specie di Bronx che vi accatasta gli uni contro gli altri costringendomi ad essere uguali.
Tu ci devi tutto.
Quei libri che hai studiato non sono serviti a niente, non importa il genio che ti credi di essere o la cultura che credi di avere. Senza la nostra fama non saresti arrivato a nulla, e questo lo sapevi, altrimenti non ci avresti mai cercato. Devi la nostra fedeltà a noi perché siamo la vita che stai vivendo adesso, abbiamo tra le mani la tua vita, e il passato non conta niente.
Quindi se quello scemo di Caleb prova a fare qualcosa, se ha anche solo la mezza idea di provare a darci contro tu devi venire a parlarne con noi perché se lo scopriremo da soli saranno guai molto seri>

Sorrido, aspettandomi un discorso del genere, ma nonostante la verità che persino la sua stupidità è riuscita ad emettere mi faccio forza e non cedo, per quanto la tema, e non dico niente di ciò che ho sentito questo pomeriggio, pur rischiando la vita. Lo devo a Caleb, e alle persone che mi sono lasciato alle spalle quando ho deciso di compiere questa scelta.

<Lo terrò a mente, grazie per avermelo ricordato. Se mi dirà qualcosa sarà mia premura informarvi per tempo>, e lo dico con un'ironia che in parte vorrei far trasparire e in parte no, perché quest'uomo è uno dei mastini della persona al potere, e quindi è tanto matto quanto scemo e pieno di ferocia. Vedo da qui una pistola, e non vorrei scherzare troppo con quel grilletto. Per fortuna però Monty non è il tipo che spara a caso alle persone, non è uno psicopatico, non è William, è solo scemo, e servile nei confronti del padrone. Non farebbe niente che non sia ordinato da Richard Lee in persona.

<Non saltare più un appuntamento. Domani ci ritroviamo di nuovo alle quattordici, solito posto>, gli sento dire, prima di voltarmi le spalle. Non aspetto nemmeno di vederlo scomparire dalla visuale per chiudergli la porta dietro.

Appoggio la fronte contro il muro, tentando di respirare.

Posso aver sbagliato, in passato, nel chiedere loro dei favori, ma se l'ho fatto è stato per prendermi ciò che meritavo, ciò che mi spettava di diritto, una casa, un lavoro dopo tutto questo impegno, un posto in cui crescere mio figlio, mio e di Morisot ed è per questo che ormai non riesco più a non pensare a Megan senza sentirmi macchiato. Lei ancora crede nei suoi ideali, crede alla salvezza che può offrire un buon libro, il giusto cuore, il coraggio, ma io ci sono già passato e so che niente di tutto questo potrebbe servire. Niente la porterà verso il futuro che merita, verso risultati, ma non ho la forza di dirlo ... perché per ottenerli mi sono intriso nell'infamia, ho chiesto aiuto a questa specie di mafia che ci governa la vita, e sono riuscito nell'intento abbandonando tutti gli ideali.

Mi sento un guscio vuoto a non averne, il traditore che ha cambiato schieramento nel corso di una battaglia che sembra essere in atto, eppure il solo ad averci realmente sperato, un tempo, averci creduto, aver lottato. Niente era servito e tutto si era annullato, portandomi a questo.

Morisot non sarebbe fiera. Megan non sarebbe fiera. Ma io ormai non posso più fare niente avendo venduto la mia anima.

Quello che mi resta è provare a ricrearla attraverso l'amore di un piccolo bambino che ancora mi supplica di leggergli le fiabe, stupirlo e iniziarlo al mondo della magia, alle filastrocche, ai sogni, facendomi tornare ad essere la persona che ero un tempo e che spero di non arrivare del tutto a perdere, e mentre mi cambio spogliandomi per la doccia, è una delle filastrocche di Gabriel a rimbombarmi nella testa, dovuta forzatamente imparare a mente, perché quel libro che tanto desiderava, sentendosi cercato, puntualmente la sera correva a nascondersi, lasciandomi sprovvisto.

Quella filastrocca è la sola cosa in questi momenti capace di donarmi parzialmente la pace, per questo me la recito in testa, poche ore prima di doverla ripetere a lui, ed è talmente adatta a questi momenti da farmi quasi paura, e donarmi un finale di speranza in cui ancora spero, e che attendo, con tacita impazienza.

Sul mio libro c'è una figura

che mi mette tanta paura:

c'è un bosco profondo e nero

e dentro il bosco c'è un lupo vero.

Il lupo vero spalanca la bocca

ma è di carta e il dito la tocca,

tocca il pelo, le orecchie, la zampa:

"buongiorno lupo, come si campa?"

"male, malaccio, caro lettore,

ho tanta paura del cacciatore

che arriva cupo dal bosco nero

e tiene in mano un fucile vero"

ma qui si avvera un grande miraggio

che due paure fanno un coraggio:

il lupo non trema e l'uomo non caccia

e la filastrocca cambia la faccia.


P.O.V.
Ian

Il mazzo di carte passa veloce nel gioco delle mie mani, mentre il cielo stellato guarda il prestigio e tenta la soluzione del trucco.

Non ho molto addosso per ripararmi dal freddo, se non una lieve maglia grigia scura di cotone a maniche lunghe e dei jeans sbiaditi, scarpe bianche: un punto di colore nel buio contesto del Brunett.

Nessuna luce è presente intorno, e questo evidenzia ancora di più il cielo, abbandonandomi in una macchia nera di inchiostro dalla quale tendo di riemergere per prendere decisioni infinite, e sentenziare una volta per tutte la soluzione a tutti i tranelli che la mente mette in atto. Ormai sono vicino alla soluzione. Sto per accettare. Il destino che viene, quello che mi porterà, sto per prendermi la responsabilità di ogni cosa, e entrare a far parte della famiglia di Richard Lee per colpirlo dall'interno, pregando che questo basti, mentre da fuori Caleb continuerà a cercarlo senza sosta, in un gioco di squadra grazie al quale riusciremo a far cadere la preda nella trappola. Sperando appunto che tutto questo sia sufficiente.

Penso di averlo deciso ormai, ma qualcosa ogni volta interrompe i miei piani portandomi a interrogarmi nuovamente su ulteriori fatti.

Damien, è un asso nella manica quanto un jolly matto, più che capace di fregarci. Non so cosa lo spinge ad agire così, e questo mi porta a non credergli completamente, non del tutto, e la mia poca propensione nell'affidarmi ne risente.

Sto per lasciare la mia vita tra le mani di uno sconosciuto, senza poter fare niente, senza poter dire niente perché lui ha un piano migliore di ogni altro possibile nostro. Sa come allontanarlo avendolo conosciuto e ancora di più sa come colpirlo.

Perciò mi prometto una cosa, seduto ad una sedia del Brunett. Prometto a me stesso di entrare nella mafia e arrivare fino in fondo, senza smettere però di cercare anche la verità sul capo della nostra rivoluzione, portando a far riemergere anche il suo passato, inevitabilmente legato a Caleb a quanto era parso, scoprendo i suoi intrighi, perché solo così saremmo liberi di capirci qualcosa, e certe informazioni potrà darmele solo l'uomo per cui lavorerà, il mio nemico e al contempo la soluzione, in un circo vizioso di cui sono già entrato a far parte. Domani mi presenterò in cantiere per ritirare l'ultima busta paga e chiederò di Lee.

Da domani ogni cosa seguirà il suo ciclo.

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