Prologo - Lontano dal tuo sole


Il mio sorriso tiratissimo e gli occhi allucinati dal flash – o dalla finzione di bere un sorso di 7Up – mi guardano con fare beffardo, sovrastando quasi minacciosamente la folla perenne dello Shibuya Crossing dalla sommità del grattacielo di Tsutaya.*

Lo fisso già da venti minuti buoni senza riuscire a decidere se esserne intimidita, orgogliosa o se, addirittura, non sarebbe il caso di averne vergogna.

Molta gente mi ha già lanciato sguardi perplessi, o severi, perché sto bloccando la posizione centrale del marciapiede di fronte a una delle stazioni più trafficate del mondo, mentre alcune studentesse liceali hanno notato la mia somiglianza con la ragazza della pubblicità e mi hanno chiesto un selfie di gruppo.

Ma come diamine ci sono finita proprio io, col mio ingestibile carico di introversione e mediocrità, sul cartellone pubblicitario più ingombrante che si possa immaginare, al centro dell'immensità irrequieta della capitale giapponese?

Gennaio 2017

Papà mi strinse in un abbraccio che temetti essere inespugnabile, come se volesse portarmi con sé nella tomba. Mamma ci lanciò un'occhiataccia scocciata, dritta come uno stecco qualche passo più in là; anche se, quel giorno, perfino a lei non riuscì di sotterrare del tutto la commozione che la stava attanagliando, volente o nolente.

«Papà, ti ho detto che torno di sicuro per il tuo compleanno!» gli ribadii con veemenza, la stessa che imprimevo anche alle pacche ben assestate sulla sua schiena volte a sganciarmi dalla morsa.

Lui, infine, si decise a malincuore a liberarmi e mi fissò con gli occhi ancora lucidi. «Sei il mio orgoglio, Annare', statte accort'!** Mi raccomando» ripeté per l'ennesima volta, dopo un'intera settimana – se non di più – passata a lanciarmi solenni avvertimenti.

Clemente, in lacrime ormai da ore, si stropicciava le dita delle mani mentre restava impalato come un chiodo di fianco a mamma. Non mi piaceva quando papà mi trattava da cocca davanti a lui, lo faceva passare per il figlio inaspettato e poco brillante che in realtà non era.

Andai a scombinargli con affetto il ciuffo biondo ben ingellato in cima alla fronte spaziosa. «E tu, munaciello!***» il suo nomignolo da quando era piccolo, perché faceva sparire sempre tutto quello che toccava senza possibilità di ritrovamento, «Lo so che non vedevi l'ora di liberarti della sorellona rompicazzo per prendere possesso della stanza più grande. Piangi solo perché sei invidioso e vorresti venirtene in Giappone con me?».

Un'innocente bugia per sdrammatizzare il momento. Ho sempre saputo quanto il mio fratellino mi adorasse. Sentimento assolutamente ricambiato.

Per tutta risposta lui singhiozzò, strizzando gli occhi incollati di pianto, senza riuscire a trovare le parole per controbattere con la sua solita sagacia.

Mi intenerii e lo strinsi forte. «Mi mancherai tantissimo, testolino» sussurrai al suo orecchio prima di schioccargli un bacio in fronte.

Poi venne il turno di mamma, la cui calotta polare era più sciolta di quanto l'avessi mai vista anche ai funerali dei suoi genitori. Non potevo contare molte altre volte in cui mi era capitato di vederla così, in passato.

Le sorrisi e le presi le mani scosse da un lieve tremore di trasporto emotivo – inedito per il suo, altrimenti imperturbabile, cuoricino di ghiaccio.

«Mi verrete a trovare, mamma? Ti porto in giro per i bei templi dipinti del tuo colore preferito,» le lisciai il bel cappotto rosso all'altezza della spalla.

Lei annuì e mi baciò entrambe le guance, «Mi raccomando.» ribadì a sua volta, copiando la battuta a papà per non sbagliare.

Li lasciai così, a Fiumicino, in quello stato in bilico tra preoccupazione e eccitazione, quando partii per la terza volta della mia vita in direzione Tokyo.

Il penultimo volo da passeggera pagante, si potrebbe dire.

Ad attendermi a Haneda, dopo quindici sfiancanti ore di viaggio con scalo a Shanghai, avrei trovato la mia migliore amica e fidata compagna di disavventure universitarie. Il suo nome era impossibile da scrivere e pronunciare in giapponese, ma questo non l'aveva mai fatta desistere dal sogno di una futura carriera nel Sol Levante.

E infatti c'era, in parte, già riuscita. Torreggiando sul suo metro e ottanta e sbattendo i grandi occhioni verdi incastonati nel suo visetto tondo da bambolina, le era bastato davvero pochissimo tempo per farsi ingaggiare da una delle più grosse agenzie di moda e spettacolo del Giappone.

«Cece... sei sempre la solita» scossi la testa con finta disapprovazione quando la vidi saltare fuori dal cordone degli arrivi per venirmi incontro con la gigantografia di una nostra foto stampata su una felpa e un caotico cartellone in pieno stile "scuole medie" con la tag del mio nome circondato da enormi stickers colorati dei personaggi kawaii della Sanrio****. 

Appariscente in ogni cosa facesse, Celeste non poteva che diventare una promettente modella.

Mi agguantò come il più efferato dei rapitori seriali «Allora... tu intanto mi ringrazi perché hai il privilegio di ritrovarti l'alloggio già bello e pronto, invece di doverti districare nella giungla immobiliare del Kanto!» sentenziò, un dito affusolato dall'unghia smaltata di glitter blu si agitò a un passo dal mio naso.

Notai subito il finto tono brusco, ma lei scoppiò anche in un'evidente risata gioiosa. «Che poi dovrei prostrarmi anch'io, dato che quel buco di culo me l'ha trovato l'agenzia!»

Per accaparrarsi quei venti metri quadri scarsi – alla periferia nord di Yokohama***** – c'era voluta la mano di Dio, sei mesi di contrattazioni e tre lettere di raccomandazione da stimabili cittadini nipponici. In mancanza di tutti quegli imprescindibili requisiti per assicurarsi un tetto sopra la testa in quel Paese, il mio progetto era di fare l'imbucata da lei per qualche mese nella speranza di trovare lavoro e anche una casa mia, prima dello scadere del visto turistico.

Per fortuna, io e Celeste avevamo già il rapporto di due sorelle da più di cinque anni ormai, da quando mi aveva fermata fuori dalla classe di Giapponese I per chiedermi come mai non frequentassi anche le altre lezioni di Lingue e Culture Comparate, facendomi scoprire l'errore fatale e ricorrente in cui incorrevo nel decifrare la schedule dei corsi – da brava matricola imbecille. Per questo non mi sconvolgeva più di tanto svegliarmi ogni mattina coi suoi piedi in faccia e il gracchiare pesante del suo naso, costantemente chiuso dall'allergia alla polvere.

Durante il weekend della prima settimana venne a trovarci Riccardo, grazie alla miracolosa coincidenza astrale di uno scalo del suo volo dalla Russia.

Quando incrociai i suoi occhi d'ambra in un angolo della stazione di Shinjuku, mi resi conto che sarebbe stato impossibile notare chiunque altro sulla faccia della terra con la stessa facilità con cui riuscivo a scorgere sempre lui, e solo lui, nella pazza folla di una metropoli che non dorme mai.

«Cuore mio» mi salutò con voce stanca ma intrisa di felicità.

Ci stringemmo forte in silenzio per un po'.

Riccardo era sempre stato una persona dalle vedute ampie e accomodanti, ma questo non gli aveva impedito di storcere il naso alla notizia delle mie intenzioni di trasferimento in Giappone. Lo perplimevano il conservatorismo confuciano, i visti a punti, la xenofobia legata a doppio filo con il costante senso di inferiorità nipponico che si scontra e si rimescola continuamente con l'orgoglio del passato imperiale.

«Sotto sotto, sapevo che sarebbe successo» mi aveva detto, quando gli avevo rivelato i miei piani post-laurea, «Ma speravo che tu riuscissi a sfruttare i tuoi studi linguistici anche in un altro modo.»

Io avevo scosso la testa. «Vuoi mettere con la possibilità di comprarmi Shonen Jump sotto casa ogni settimana, e guardare le puntate di Shingeki no Kyojin in diretta sull'NHK?» avevo scherzato, allungando un sorriso tiepido.

Spendemmo l'intero fine settimana nel suo hotel a Ikebukuro, a fare l'amore e progettare con qualche insicurezza l'immediato futuro, tranne la breve parentesi del sabato sera in cui ci unimmo a Cece e alcune sue amiche modelle per andare a bere e sfidarci alle macchinette Arcade.******

Era da un anno che non lo facevamo.

Da universitari avevamo più o meno le stesse abitudini, per quanto traslate nei tristi locali del Bowling di Fuorigrotta.

Ci salutammo il lunedì mattina a Narita, con un bacio in cui spendemmo tutte le nostre energie mattutine già drenate dal fine settimana impegnativo, e lo fissai dritto nei suoi irresistibili occhi quando mi apostrofò anche lui con un: «Mi raccomando».

Non ne potevo più di sentirmelo dire.


* "Tsutaya" è una storica catena, molto simile alla nostra Feltrinelli, che vende libri, CD e DVD. Il punto vendita al centro di Tokyo occupa uno dei grattacieli più iconici dello Shibuya Crossing.

** "Statte accort'!" = Stai attenta in napoletano.

*** Il "Munaciello" è uno spiritello dispettoso della tradizione napoletana, che si dice (tra le altre) nasconda le cose in casa per dare noie agli inquilini.

**** "Kawaii" = Carino in giapponese. La Sanrio è la casa produttrice dei famosi Hello Kitty, Kuromi, My Melody e Gudetama.

***** Yokohama è una grossa città adiacente a Tokyo, quasi inglobata nella stessa area metropolitana.

******Le sale giochi Arcade erano (prima che la pandemia ne facesse fallire la maggior parte) uno dei locali di intrattenimento più frequentati (grandi spesso quanto interi grattacieli da svariati piani) e diffusi del Giappone. Contrariamente alle sale giochi italiane (in cui si trovano spesso anche giochi non digitali come il biliardo), queste offrono per lo più videogiochi single e multiplayer, dispenser di gashapon (le sorprese dentro alle palline di plastica) e macchinette da pesca con le gru.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top