8. Boys be boys
Agosto 2017
Per grazia quasi divina, Celeste si riprese in fretta.
Rimase ricoverata in ospedale per qualche giorno, giusto il tempo di accertarsi che le piccole pustole da ustione – che erano comparse al margine della mascella – sarebbero scomparse senza lasciar danni. E così fecero. Il resto dell'arrossamento da scottatura venne via in poco più di un paio di settimane e fu subito dopo che poté riprendere finalmente le riprese per gli spot della 7Up.
Sebbene io avessi nutrito violente perplessità su come avrebbe accolto la notizia della sostituzione temporanea, il mio senso di colpa era attutito solo dalla consapevolezza di quanto mi era costato in termini di energie mentali il prendere il suo posto, lei si rallegrò di non aver perso i soldi e l'ingaggio proprio grazie al mio aiuto – o meglio, di Shinichi – e io mi rifiutai di ricevere anche solo uno yen simbolico di quanto le spettava come compenso complessivo.
«Jamm', te lo meriti!» aveva insistito lei, «Ti ha lasciato pure il trauma, eh?»
Le avevo raccontato a grandi linee di come mi fosse sembrato un'interminabile via crucis, quello stramaledetto shooting. Mi aveva lasciato addosso la sensazione che non avrei più voluto entrare nel focus di un obiettivo fotografico per molto tempo a venire.
Tuttavia lei insistette che la accompagnassi ancora alle altre occasioni di riprese e, stavolta, ammetto che non mi facevo più pregare. Non sempre Niki era presente – capitava anche che fosse un altro collega a essere l'addetto all'elaborato video – ma, quando c'era, poi finivamo sempre a fare afterwork al Cyberia insieme a lui e Yota.
La riservatezza tipicamente giapponese di Shinichi mi permise di spingere il più tardi possibile l'eventualità che Cece si accorgesse del nostro intrallazzo avviato. Non che lui facesse nulla per nascondere il suo interesse verso di me, ma era la mancanza di vistose effusioni – a cui qualunque coppia occidentale si abbandonerebbe senza problemi – che faceva la differenza.
Lei era a conoscenza che lui mi piacesse, e aveva ben colto che anche io piacessi a lui, ma non poteva sapere fino a quale step di quella scala ci fossimo avventurati a salire. Non poteva certo immaginare che fossimo già giunti in cima al pianerottolo.
Però mi ripeteva spesso che avrei dovuto confidare con chiarezza a Riccardo come mi sentivo verso alcuni dei ragazzi che frequentavo – teoricamente – come amici. Non che non avesse ragione, anzi, ero consapevole che fosse mio dovere farlo. Ma, per quanto possa suonare banale, mi mancava il coraggio.
Il solo pensiero di iniziare una conversazione col mio ragazzo per introdurlo alle mie pulsioni per gente che non era lui, mi faceva tremare le gambe fino a rischiare di sbattere faccia a terra. Per di più, il fatto di girare il coltello nella piaga ammettendo che non fossero solo voglie carnali, ma molto di più, che avvertivo una chiara sensazione di innamoramento – pari a quella che avevo con lo stesso Riccardo – pure con gli altri... questo dettaglio sapevo che avrebbe potuto ferirlo ancor più dell'idea di vedermi nel letto di un altro per puro istinto sessuale.
E non era certo solo la sua reazione a una tale rivelazione che mi preoccupava. Celeste, i nostri amici, i miei genitori, quelli di Riccardo, mio fratello... come avrebbero retto una notizia del genere? Cosa avrebbero pensato di me?
Ad Annarella non poteva certo applicarsi la regola del "boys be boys", come si giustificava a Clemente l'allegro passare di fiore in fiore; perché lui è giovane, è "uomo", ci sta che sperimenti.
Ma tu, Chiaretta... tu c'hai un'età, una – costantemente precaria e messa in discussione – reputazione femminile da difendere: non ti puoi mica permettere questi capricci senza fare la magra figura della sgualdrina da due soldi.
Deludendo tutti quelli che ti conoscono. Perdendo la stima di tutte le persone a cui vuoi bene.
«Tesoro?» la voce di Riccardo mi riportò alla realtà della sua camera d'albergo a Ikebukuro. Aveva fatto uno scalo a Osaka e sarebbe ripartito da Tokyo il giorno successivo, appena una settimana dopo il completamento delle riprese di Celeste e con un paio di anticipo prima ch'io partissi per il training da assistente di volo in un paesino dimenticato da Dio alle pendici del monte Fuji.
Riportai gli occhi sui suoi dopo averli persi a vagare per la stanza per chissà quanto tempo. «Dimmi, amore. Perdonami, stavo facendo mente locale sulle prossime occasioni per rivederci» mentii.
Lui tirò un sospirone sconsolato. «Già, per quel paio di mesi lì non riusciremo,» asserì, «però sto trattando con la direzione per farmi mettere in lista d'attesa, semmai si liberasse un posto con base in Giappone.»
Non sarebbe stato così entusiasta di farlo, se non fosse stato per amor mio. Il Giappone non gli piaceva poi così tanto, sebbene parte di quella cintura di fuoco a cui appartiene anche il suo impervio Cile, il cui sangue irrequieto aveva ereditato dalla madre. Gli unici terremoti che scuotevano il suo cuore, però, erano quelli scatenati dall'aria pura e rarefatta delle montagne e degli altopiani.
Le tendine accostate frettolosamente per nasconderci dalla vista della finestra dei dirimpettai – a neanche un metro di distanza – cominciavano a tingersi delle vivaci sfumature aranciate del tramonto. Il riflesso accecante che sfuggiva allo spiraglio laterale del vetro aderì perfettamente alla curva del collo lungo e sensuale di Riccardo, fino a fargli brillare i corti peletti della barba rimasta dal giorno prima, come un firmamento di glitter sullo sfondo ambrato della sua pelle.
Mi parve così bello e così in bilico. La forza fisica sfoggiata dalla sua estetica muscolosa era compensata all'interno da una sensibilità e una vulnerabilità fuori dall'ordinario, e tuttavia concorrevano entrambe a renderlo la persona equilibrata che era. Equilibrio imprescindibile per tutte le persone che mettevano la loro vita nelle sue mani quando prendevano un aereo; e anch'io, come loro, volavo solo grazie al bilanciamento perfetto di tempo, attenzioni e affetto di cui solo lui sapeva rifornirmi in porzioni perfette al milligrammo.
Gli intrecciai le braccia attorno alle spalle e sfiorai il suo naso romano con la punta del mio. «Ma basta parlare di cose tristi, dai!» esortai, «Ti ricordi che ti volevo portare a mangiare l'okonomiyaki *nel mio posto preferito? Ti va, stasera?»
Lui mi sorrise con gli occhi brillanti, le labbra già umide per il languore.
Il ristorante del mio cibo preferito a Tokyo era nel cuore di Asakusa, lì dove i vicoletti diventavano più tortuosi e silenziosi man mano che ci si allontanava dal Sensoji, e ci si perdeva tra le basse costruzioni tradizionali in legno dalle facciate adornate di accoglienti stendardi con grossi ideogrammi colorati per attirare l'attenzione dei passanti e accogliere i nuovi clienti.
Portare Riccardo in giro per quella che era la mia nuova città aveva sempre un sapore simile all'uscire insieme per il primo appuntamento: lui si faceva guidare, ammirato, tra i posti più sconosciuti di Tokyo, lodava la mia padronanza della lingua locale, mi riempiva di piccoli regali e dolci attenzioni, parlottavamo per ore e ore ininterrotte – di libri, di lavoro, di sua sorella che stava per avere il secondo figlio, di tennis, dei pazzi documentari su Netflix e dei percorsi di hiking che volevamo provare in Norvegia – finché non tornavamo in camera a farci le coccole e addormentarci nudi e stretti l'uno all'altra nel timore di aver solo sognato la compagnia reciproca, e risvegliarci di nuovo lontanissimi.
«Riky?» gli sussurrai all'orecchio, non appena tornò ad accasciarsi accanto a me dopo essere venuto, «Dov'è "casa" per te? Specialmente ora che non fai altro che vivere per aria.»
Lui parve dover tradurre la domanda in chissà quale altra lingua per capirla appieno. Forse stava pensando al fatto di essere nato a Bologna, da padre salernitano e madre sudamericana, e che solo nel pieno dei suoi sedici anni la famiglia aveva infine fatto pianta stabile a Vico Equense.
Fece schioccare la lingua sul palato e rispose: «Mah, per me è sempre stata un po' dappertutto».
Il display del suo cellulare si accese per segnalare la ricezione di un messaggio da parte di sua sorella, mostrando al contempo la foto del nostro viaggio post-laurea in Nuova Zelanda piazzata in bella mostra come screensaver.
«Mi piace sentirmi a casa ovunque vado, quindi cerco sempre di scovare qualcosa di familiare in ogni posto nuovo» spiegò.
Pensai che fosse un pensiero molto bello. Avrei tanto voluto approcciarmi anch'io al mondo in quel modo.
«E cos'hai trovato di familiare qui in Giappone?» mi informai, alla ricerca di un appiglio che potesse aiutare anche me nella mia mission impossible.
Ma lui arricciò le labbra ed esclamò, come se fosse la risposta più scontata del mondo: «Te!»
Settembre 2017
Riccardo riuscì a riempirmi di decine di peluche vinti alle macchinette gru prima di andare via, così tanti che lui si stupì delle sue abilità nascoste da pescatore e io mi sorpresi di non avere uno straccio di angolo libero del microappartamento in cui poter stipare la mia roba.
Per fortuna era finalmente arrivato settembre, e la mia formazione da assistente di volo stava per cominciare.
Giunta a Gotemba, un remoto anfratto di mondo rurale sporadicamente popolato solo da gente costretta a recarsi lì per lavoro o per fare shopping nel triste outlet di provincia, compresi perché i giapponesi trattino il monte Fuji come se fosse una sorta di divinità ultraterrena.
Per una come me, nata e cresciuta alle pendici del Vesuvio, il pensiero di visitarlo non era mai stato di grande attrattiva. Finché non me lo trovai davanti appena misi piede fuori dal bus; lì stagliato contro il cielo della blue hour di un pallido turchese su cui sembrava dipinto, o meglio, su cui pareva essere appoggiato come un cartonato da romantica scenografia teatrale. Tutt'intorno, solo le sagome dei boschi alle sue pendici e i tetti delle poche costruzioni della cittadina, connessi dai caratteristici cavi scoperti.
Nella sua semplicità, fu uno degli scenari più impressionanti che avessi mai visto.
Lo stesso non poteva dirsi dell'hotel in cui avremmo alloggiato per i successivi due mesi: suggestivo nella sua architettura tradizionale nipponica – tutta legno, tatami e fogli di riso semitrasparenti – ma che reclamava silenziosamente la necessità di uno svecchiamento celere al fine di scampare alla soglia della fatiscenza.
Ci ritrovammo in una trentina scarsa, tutti assiepati ai lati lunghi di una grossa tavolata bassa al centro della sala da pranzo principale, fin troppo timidi e silenziosi nonostante molti di noi si fossero già conosciuti durante i vari passaggi della selezione.
Mi ricordavo in particolare di un altro paio di italiani, Alessandro e Melissa, che era anche mezza francese ed era stata una mia kohai** alla Waseda. Alessandro le stava attaccato come una cozza da quando ci eravamo radunati nella hall dell'albergo, riportandomi alla mente che l'avevo ben inquadrato come il tipico simpaticone che ci prova con tutte già da quando faceva gli occhi dolci a ognuna delle ragazze presenti alla prova scritta di lingua.
«Annachiara, giusto?» si accorse anche di me non appena Melissa si allontanò per rispondere al cellulare.
Annuii con un sorriso di circostanza.
«Beh, che dice il tuo fidanzato pilota? Sarà contento che ce l'hai fatta, no?» aveva ben memorizzato il fatto che fosse stato il mio ragazzo a raccomandarmi quel lavoro, gossip che aveva ricavato quando si era informato con svariati mezzucci su quali ragazze fossero single e quali no durante l'esame.
Piegai di nuovo la testa senza aggiungere nulla, nella speranza che si stufasse presto di me e andasse a disturbare qualche altra povera anima.
Invece lui continuò con le illazioni ed i vaneggiamenti, forse per ingannare l'attesa prima che ci servissero la cena. «Una coppia tra le nuvole, eh! Sembra molto romantico. Se lavoraste per la stessa azienda potrebbe scapparci anche qualche sveltina nei bagni durante la crociera automatica...» la mia faccia perplessa non lo fece desistere dall'oversharing dei suoi sogni ad occhi aperti. «Chissà se troverò anche io la mia lei tra queste belle ragazze.»
Feci spallucce e sbottai in modo fin troppo schietto: «Non mi sembra poi così tanto un lifestyle a cui aspirare. Io e Riccardo possiamo vederci pochissimo.»
Lui non parve capire l'antifona, anzi, mi passò un braccio attorno alle spalle a tradimento, avvicinandosi decisamente troppo al mio orecchio. «Meglio! Significa che nei ritagli di tempo potete pure distrarvi...» intimò.
Io lo spinsi via, accigliata, ma cercando di mantenere un tono di voce pacato per non attirare l'attenzione degli astanti. «Non capisco cosa intendi dire. Non mi servono distrazioni.»
Melissa tornò a sedersi di fianco a noi giusto in tempo perché arrivassero anche i bento*** a tavola e il Training Manager prendesse parola e mi salvasse da quel mare di disagio.
Il resto della serata filò liscio ad intervalli irregolari di infobombing sul corso di formazione, chiacchiere di formale conoscenza tra colleghi e caldi shots di sakè di dubbia qualità.
Andai a letto con la consapevolezza di avere all'orizzonte davanti a me un concatenamento di sacrifici e tempi duri di cui non vedevo la fine, che non sapevo bene neanche io per quale motivo avrei voluto tollerarli e cosa mi avesse spinto a sceglierli in the first place.
Certo, io e Cece ci eravamo ripetute spesso quanto fosse incerta e precaria la vita di chi si laurea in Humanities, che si finisce sempre col fare lavori che non c'entrano un cazzo con le competenze acquisite e che, per giunta, contribuiscono a incenerirle come se non avessero alcuna importanza già in partenza. Forse lei, in fondo, aveva sempre saputo che la sua bellezza l'avrebbe portata a lavorare con l'immagine molto più che con la filologia, ma io non sapevo cosa volessi farci con tutte quelle lingue e letterature che avevo imparato.
La proposta di Riccando era giunta quasi come un messaggio divino, provvidenziale, un tempismo quasi perfetto per togliermi dalle tarantelle di dover seriamente pensare a cosa farne di me e della mia vita.
Mi venne voglia di sentirlo, di farmi tranquillizzare dalla sua voce calda e profonda come faceva sempre prima di un esame, quando mi portava sugli scogli e mi coccolava tutta la notte finché non mi addormentavo sulle note di qualcuna delle sue adorate band grunge anni '90.
Accesi il salvaschermo del cellulare per scoprire che erano le 3:47. Mi sarei dovuta svegliare alle 7 e non sapevo se Riccardo stesse lavorando in una zona di fuso orario favorevole, ma mi accostai comunque alla finestra e provai a contattarlo.
I rintocchi della chiamata mi fecero avvertire come un macigno tutta l'incredibile distanza tra me e lui – anni luce più lontani a ogni tu-tu – amplificando quella sensazione di essere fuori posto, di trovarmi lì per caso, ma al tempo stesso non sapere dove altro mai sarei dovuta essere se non proprio in quel remoto punto del globo dove non potevo farmi male o far male a nessun altro.
E invece, quando Riccardo non raccolse nessuno dei miei tentativi di chiamata, il dito mi scivolò con spontanea stoltezza sul numero di Shinichi.
«Nana-chan?» rispose lui dopo pochi squilli, con voce assonnata, appellandomi con l'anagramma del mio nome con cui mi prendeva in giro amorevolmente, da grande fan di Ai Yazawa.
«Ti ho svegliato?» domanda stupida.
Mugugnò indispettito. «Però mi ha fatto piacere essere svegliato dalla vista del tuo nome sul display.»
Una lacrima mi scese dritta e veloce fino al mento, prima ancora che potessi accorgermi di averla prodotta.
Io non merito questo amore, pensai. Non merito l'affetto di queste persone, così tanto migliori di me.
Deglutii con forza, cercando di cacciare indietro in qualche remoto cassettino della mente quei brutti pensieri, imputati subito alla stanchezza più che a un reale esame di coscienza.
«Va tutto bene?» chiese allora lui, mosso a preoccupazione dal mio silenzio inatteso.
Trattenni a stento un singhiozzo. «Sì... Avevo solo bisogno di sfogare la tensione con qualcuno. Sai, è sempre dura cominciare un nuovo lavoro e questo, poi, è decisamente impegnativo...»
Avvertii il suo sorriso vivido davanti a me a dispetto dei novanta chilometri che ci separavano. «Capisco, capisco! Sarebbe stato molto più facile se avessi potuto avere il tuo cornetto di mezzanotte, eh?»
Così fu lui a strapparmi una risata. «Sì!» confermai. E un'altra lacrima, stavolta calda e tenera, fece capolino all'angolo del mio occhio destro.
«Ganbatte ne, Nana-chan» mi incoraggiò, come solo in giapponese si può fare.
Il giorno dopo non dovevo avere una bellissima cera.
Accanto alla tavolata buffet della colazione, continentale e non – dalla quale mi versai una ciotola spumeggiante di zuppa di miso – Alessandro mi lanciò un'occhiata di commiserazione come se gli avessi mai concesso chissà quale confidenza.
«Notte insonne?» ficcanasò.
«Ho difficoltà ad adattarmi ai letti nuovi» mi giustificai con la prima scusa che mi venne in mente.
«Buona fortuna con questa carriera, allora!» esclamò lui, ridendomi in faccia. «Ne cambierai spesso di letti da ora in poi.»
Si allontanò con un occhiolino maldestro, probabilmente volto a sottintendere un doppio senso che finsi di non cogliere.
Iniziai a legare con un paio di altre colleghe, la spagnola Miranda e due donne giapponesi più mature che si chiamavano entrambe Miyuki, anche se con ideogrammi diversi.
La fatica della socializzazione non mi distolse comunque da quella di tutte le nuove nozioni e processi da imparare, dagli strambi orari di lavoro a cui avremmo dovuto abituarci e dalle continue battutine moleste di Alessandro verso chiunque fosse portatore di una vagina nel raggio di tre metri da lui. Mi chiesi che razza di professionalità potesse mai sviluppare un personaggio simile, specialmente se immerso in un lavoro così a stretto contatto con centinaia di persone ogni giorno.
Dopo cena ero così stremata che crollai addormentata sul letto senza neanche mettermi il pigiama, persino prima che scoccassero le 21:00. Ma quella notte fui io a essere strappata al torpore del sonno dal nome di Niki che pulsava sullo schermo del mio Samsung.
«Ti stai vendicando?» esordii, un po' contrariata dal brusco risveglio proprio la prima notte che mi stava riuscendo di dormire senza intermittenze.
«Affacciati alla finestra» suggerì lapidario.
Mi mossi con perplessità verso gli oscuranti che davano sulla strada principale d'accesso all'hotel.
E lo vidi proprio lì, sul marciapiede al lato opposto al mio edificio, con i nerissimi capelli che scintillavano sotto ai candidi raggi di luna piena.
Mi si fermò il cuore in petto.
Strizzai gli occhi più volte per essere sicura di non essere bloccata nella finzione di un sogno un po' troppo realistico. Ma lui continuava a esortarmi a scendere con ampi gesti delle braccia finché non mi decisi a raggiungerlo, nella fresca aria notturna delle pendici del Fuji.
«Ma che diamine ci fai qui?» domandai, stretta con timidezza nel mio cardigan color pesca, mentre i suoi occhi discendenti lungo le mie curve segnate dal pile – con un pizzico di lascivia – mi suscitavano lo stesso effetto estasiante di mezza bottiglia di un'ottima Falanghina scolata tutta in una botta.
«Ti ho portato lo spuntino di mezzanotte!» annunciò con orgoglio, tirando su le braccia per posarsi in equilibrio sulla testa un pacchetto di carta scura preso in chissà quale conbini. «Stavolta non sono caldi, però, a meno che tu non abbia un microonde in camera?»
Salvai la povera coppia di taiyaki dal precario posizionamento sulla sua liscissima chioma, accogliendoli tra le mie braccia, e sorrisi. «È un modo subdolo per farsi invitare in camera di una ragazza, Kumagawa-san?»
Lui si intrufolò sotto i vestiti ad accarezzarmi il punto vita con entrambe le mani, fino a scavare giù con le dita le mie fossette di Venere, e mi baciò con la dolcezza e la morbidezza di una mousse di panna sulle fragole fresche, come per recapitarmi un assaggio del mio agognato dessert notturno.
Ricambiai con passione, senza più un briciolo di rimorso.
Non più, per quella sera.
Ce l'avevo il microonde in camera, ma non ce ne curammo.
Passai anche quella notte insonne, stavolta per colpa di un'appagante e coinvolgente distrazione a cui non avrei mai saputo negarmi.
* L'okonomiyaki è un ricchissimo tipo di frittata tradizionale giapponese. Si mangia in ristoranti dove i tavoli sono dotati di grandi piastre centrali, e i clienti vengono serviti con ingredienti freschi da mescolare alle uova come una specie di self-service.
** "Kohai", nella gerarchia scolastica nipponica, è uno studente di una classe precedente (quindi più piccolo).
*** I bento sono le classiche "lunch box" giapponesi, ma possono anche venire serviti come menù pre-confezionati in occasioni come training, gite fuori porta et similia.
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