6. Attaka〜i!*
Luglio 2017
Diluviava, quella mattina.
La stagione delle piogge aveva dato il colpo di grazia alla cappa di caldo asfissiante e al crespo indomabile dei miei capelli.
La folta chioma di Celeste, invece, non si sa come, riusciva a mantenersi inscalfibile da qualsiasi intemperia come quella di un super saiyan. E quella mattina ancora di più.
Indossò la sua tenuta professionale da "tela bianca", jeans e canotta nera, e ci avviammo – con me che la seguivo come un peso morto – verso la zona di Yoyogi dove avrebbero scattato la campagna.
Il set era molto curato, nonostante riproducesse un grigio ufficio nipponico come tanti altri, ma serviva a fare da contrasto ai colorati effetti speciali che avrebbero aggiunto in post-produzione.
Una scimmietta, di quelle minuscole che si vedono spesso come animali da compagnia delle anziane giapponesi**, sarebbe stata la testimonial partner di Cece e c'era già un nutrito numero di assistenti di produzione raccolte attorno alla sua carrozzina per fare le prove dell'outfit – dato che dovevano farle indossare giacca e cravatta – cosa che sembrava disturbare non poco la povera bestia.
Quando vidi Shinichi in lontananza, impegnato a dare direttive ai suoi tecnici delle luci, non potei fare a meno di nascondermi lunga lunga dietro Celeste.
«Oh, ti prego, Chiare'! Non fare la scema» si indignò lei, con un tono di esasperazione che ebbe l'effetto di farmi agitare ancora di più. «Oggi basta una sola di noi a essere tesa. Tu sei qui per portarmi fortuna, ricordatelo.»
Direi che fu proprio quella sua strenua convinzione scaramantica a trasformarsi nell'arma a doppio taglio che rovinò la giornata a tutti e, forse, mise anche la prima crepa alla nostra amicizia.
Mi rannicchiai in un angolino per non dare fastidio alla gente che andava e veniva freneticamente per tutta la stanza a velocità aumentata, sperando di essere anche abbastanza nascosta rispetto alla traiettoria visiva che aveva Shinichi dalla sua postazione.
Invece, distratta da un'inserviente che mi offrì del matcha*** fumante, non mi accorsi che lui non si trovava più nei pressi del suo sgabello; ma dietro alle mie spalle.
Una mano calda e decisa mi agguantò il fianco destro, mentre un soffio sensuale e profondo mi fece accapponare la pelle quando riconobbi la sua bella voce di velluto a un millimetro dal mio orecchio. «Sono settimane che ti chiamo» denunciò con durezza e, quasi come punizione, spezzò subito la magia di quel contatto per muoversi con rapidità e piazzarsi mezzo metro di fronte a me – che mi sembrò dannatamente lontano – per inchiodarmi con lo sguardo.
Provai a raccogliere tutte le energie mentali necessarie a scampare a un attacco di pianto disperato e scrollai le spalle, dissimulando con più maestria di quanta me ne riconoscessi. «Ma no, sono passati appena tredici giorni» considerai, e subito mi pentii di essere stata così precisa. Tradiva il fatto, non certo di poco conto, che li stessi contando con eccessivo zelo.
Lui sorrise, deliziato dalla ridicola trasparenza di quel dettaglio, con i begli occhi che mi sfondarono l'anima come un cavallo di Troia.
Game Over, Annare'.
Con un certo nervosismo, mi leccai le labbra di riflesso e parve quasi speculare l'immagine di lui che compiva la stessa azione nel medesimo momento. Appena se ne accorse mi spinse nello stretto corridoio dei bagni, che si apriva proprio di fianco a me, fin dentro al primo cubicolo.
Ci chiudemmo la porta alle spalle senza neanche curarci di non fare rumore e ci fiondammo a baciarci con tutta la passione accumulata in quei fottuti tredici giorni; forse pure qualcosina in più.
Gli spalancai la candida camicia finemente stirata che rivelò il torso asciutto ma ben modellato come se fosse il protagonista di scena di quel teatro osceno quanto irresistibile, e lo assaporai con avidità come avevo fatto qualche notte prima.
Stavolta con la consapevolezza di essere perfettamente lucida, e quindi ancor più colpevole.
Mi afferrò il bacino per tirarmi su a sedere sul lavabo; le mani forti e impazienti scavarono un varco al suo cospetto – dalle ginocchia, in alto fino a perdersi tra le mie cosce – per ritagliarsi il giusto spazio prima che avvenisse l'incastro perfetto, e io assecondai ogni suo movimento con i miei mentre mi rotolavano via gli slip.
Ero al settimo cielo. Come se non avessi atteso altro che quel momento per tutta la vita.
Mi accorsi che sul viso avevano iniziato a corrermi giù lacrime calde, bollenti, che quasi mi raschiavano la pelle. Ma non avrei saputo connetterle con sincerità alla sensazione di essere una lurida traditrice.
No, anzi, erano lacrimoni figli di un piacere sublime, di una somma felicità raggiungibile solo con l'accoglienza intima e totalizzante di quel ragazzo semi-sconosciuto che per me si era trasformato in malattia, e con le sue labbra che marchiavano a fuoco ogni parte del corpo.
Con un dito mi bloccava in gola i gemiti crescenti, premendo sulla mia bocca, mentre il suo sguardo mi comunicò con il fragore silenzioso dell'onda di Hokusai che avrebbe potuto continuare per ore ininterrottamente.
Se non fosse che bussarono alla porta.
Lo sbalzo termico che avvolse la stretta toilette sembrò trasportarci dritti su Mercurio. Dal gelido silenzio oltre la porta, che ci aveva cristallizzato i corpi come se il tempo si fosse fermato, si levò la voce timida di un'assistente fotografa «Kumagawa-san? Siamo quasi pronti per cominciare, il direttore generale sta facendo pressioni per l'orario...»
«Arrivo» rispose lui piatto, con una nota appena percettibile di divertimento misto a disappunto nella voce. Poi si mise in ascolto dei passi della ragazza che tornavano verso il salone del set e, appena fu abbastanza lontana, si voltò a baciarmi con una lingua se possibile ancora più intransigente e appassionata di prima.
«Permettimi di rivederti» supplicò. «Ti prego.»
Come avrei mai potuto dirgli di no?!
Annuii d'istinto, con il fiato rotto e i neuroni in pappa. Lui non attese conferma verbale prima di mollarmi lì regalandomi un ultimo sorriso gioioso che mi lanciò il cuore come un razzo intergalattico oltre la via lattea, prima di gettarsi di corsa verso il palchetto dove avrebbe già dovuto essere.
Con l'affanno e la testa che girava come una trottola, tentai anch'io di rimettermi in piedi e tornare da Celeste, incrociando le dita di mani e piedi che non si fosse accorta di nulla poiché troppo presa da trucco e parrucco.
Ma, mentre riaprivo la porta del bagno e lanciavo un'occhiata guardinga verso la sala, fu proprio il suo urlo straziante che riecheggiò per tutto il palazzo.
Mi fiondai nella direzione da cui mi parve provenire, l'angolo adibito ai camerini, e la scena che mi si parò davanti mi fece dimenticare in un attimo tutti i casini successi fino a un attimo prima.
La mia amica era china per terra con l'acconciatura disfatta e zuppa, una mano sul viso e l'altra stesa in avanti nel tentativo di rialzarsi facendo leva su una sedia lì vicina. Gridava – in tutte le lingue che conosceva – che le serviva del ghiaccio.
Una serie di assistenti si dimenavano e correvano da un lato all'altro del camerino col panico in faccia, fermandosi di tanto in tanto per passarle dei fazzoletti, delle creme, un asciugamani, e per portar via i cocci di quel che rimaneva della tazza del tè che ci avevano offerto al nostro arrivo.
Ecco cos'era stato.
Quando Shinichi e il responsabile di produzione si avvicinarono, attirati anche loro dall'atroce urlo di Cece, la manager dell'agenzia di modelle riassunse la tragedia che era appena capitata.
Celeste aveva da poco finito di prepararsi quando le venne offerto un matcha caldo in attesa che fosse pronto anche il set e – proprio quando aveva cominciato a sorseggiarlo – la scimmia era fuggita dalla sua cuccia e aveva preso a importunare il fiocco che pendeva dai capelli di Cece.
Nel tentativo di togliersela di dosso, quest'ultima aveva compiuto un movimento inconsulto che aveva provocato la rottura di un tacco vertiginoso delle décolleté e la conseguente perdita di equilibrio in avanti, trasformatasi in una rocambolesca caduta che finì col versarle l'intera tazza bollente in faccia.
E mentre si consumava quell'indicibile dramma, io – che mi trovavo lì per essere il suo portafortuna e supportarla nel giorno del suo ingaggio più prestigioso – stavo scopando col fotografo della sua campagna pubblicitaria in uno dei bagni vicino alle uscite d'emergenza.
Com'era stato facile salire sulla vetta più alta del cielo nel segreto di quel cesso, solo per poi ricadere a peso morto nel profondo delle fiamme al centro della Terra, ora che ero stata impietosamente messa di fronte all'evidenza di quanto schifo facessi.
Scoppiai in lacrime silenziose mentre la guardavo ricevere assistenza dalla make-up artist, una povera crista che si era improvvisata anche medico per cercare di capire l'entità dell'ustione sul volto di Celeste e se fosse stato possibile coprirla col fondotinta senza compromettere i pori dilatati.
Cece era paonazza e gonfia come una maschera Oni**** rigata di pianto, pareva quasi pulsare e rifulgere di luce propria come una tempesta solare. La sua manager si stava facendo afferrare per pazza, ululava frasi sconnesse ai tutori della scimmietta finché non si attaccò al cellulare per richiedere un'ambulanza.
Non mi permisero di scambiare neanche due parole con la mia coinquilina, invero dubito che mi avesse anche solo adocchiata nei suoi paraggi – impalata com'ero in un angolo a una decina di metri da lei – prima che la portassero via verso gli ascensori.
Shinichi e i segretari di produzione presero a parlottare convulsamente per una decina di minuti, a seguito dei quali esplosero in una tempesta di chiamate d'urgenza a destra e a manca e ordini rivolti alla troupe e ai poveri addetti alle pulizie.
Sembrava fosse questione di vita o di morte che quel servizio fosse completato entro la giornata. La ragazza che ci aveva interrotti nel bagno era in connessione perenne su LINE con videochiamata aperta per sincerarsi delle condizioni di Cece e avere notizie fresche in diretta su quando e come sarebbe potuta tornare in carreggiata.
Ma niente, si vociferava che potessero essere ustioni di secondo grado e doveva essere ricoverata d'urgenza.
Il responsabile di produzione lanciò un bestemmione e fece volare per aria una delle valigette piene di trousse poggiate sulla postazione per il trucco. Fini polveri colorate si sparsero in ogni dove glitterando l'aria pesante nella stanza e suscitando l'ilarità della scimmia che, nel frattempo, si godeva le attenzioni dell'addestratore del tutto ignara del putiferio che aveva generato.
L'iracondo direttore cacciò entrambi in malo modo – neanche fossero Adamo ed Eva dal giardino dell'Eden – e infine si voltò furente anche verso di me, come se si fosse appena accorto di essere un bastione sotto invasione barbarica. «Chi diamine è quest'altra straniera?!»
Trasalii e feci per rispondere, nel tentativo disperato di capire anch'io chi cazzo fossi, ma Shinichi mi precedette: «È la sostituta modella» mentì. «Sai come sono professionali alla BRAVO, ne mandano sempre due per prevenire disguidi come questo.»
Mi strizzò l'occhio con complicità.
In quel modo evitava di mettere in cattiva luce Celeste e la sua agenzia – anche se, ovviamente, nulla di quello che era successo era colpa loro – con un cliente importante come PepsiCo.
Il vecchio parve oltremodo sorpreso, ma si dimostrò felice di poter cogliere subito quella palla al balzo. «Mettete questa a fare la parte fotografica e, se l'altra si riprende, le faremo completare la campagna con gli spot» sentenziò, non senza una palpabile punta di dubbio.
Era evidente che avrebbero continuato a preferire Celeste a me, finanche con l'inatteso colorito demoniaco.
Shinichi si affrettò a confermare quel piano e mi spinse di nuovo, stavolta verso la make-up artist. «Hai sentito? Datti da fare, hai dieci minuti» le ordinò.
* "Atatakai" (o "attakai" come viene contratto a volte) significa "molto caldo", dicitura tipicamente scritta sulle etichette rosse sui distributori automatici in strada per segnalare le bevande che escono bollenti all'acquisto (a differenza di quelle blu che indicano le bibite fredde).
** Alcune tipologie di macaco giapponese particolarmente piccole sono trattate più o meno come normali animali domestici. Non è raro vedere vecchie signore scorrazzare in giro per le strade con delle piccole scimmie vestite come neonati, alcune perfino tenute in carrozzina. Anche il famoso idol DAIGO ne possiede una, con cui partecipa spesso a degli show a loro dedicati.
*** Il matcha è il tradizionale tè verde giapponese.
**** La maschera Oni è una maschera cerimoniale e teatrale della tradizione giapponese, raffigurante dei demoni spesso di colore rosso acceso ed espressioni contratte.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top