5. L'amore ai tempi dello showbiz
Shinichi tentò di consolarmi, senza neanche sapere perché stessi piangendo, ma la mia mente si era bloccata sull'assoluto bisogno fisiologico e psicologico di rimanere da sola con la mia testa di merda.
Gli chiesi cortesemente di andare via, e lui ubbidì con mestizia.
Rimasi stesa immobile come un corpo morto sul letto, per un'ora buona, prima di raccogliere un po' di energia e di vergogna per riuscire a fare una doccia veloce e scendere a prendere la colazione per Celeste al 7Eleven sotto casa.
Solo al mio ritorno, forse disturbata dal tintinnio dei miei portachiavi che riecheggiò contro la serratura, la bella addormentata si destò dal suo sonno. Per fortuna.
La fissai in silenzio, spargendo gli anpan* appena comprati sulla tavola al centro della stanza accanto alle tazzone di caffè americano piazzate alle nostre consuete postazioni da pasto.
Lei si grattò la nuca, confusa, e si spostò tutti i riccioli bruni sul lato sinistro della testa come a bilanciarsi da improvvise vertigini.
«Che ore sono?» biascicò.
«Le 14:20. Hai dormito come un orso» comunicai.
«Marò, sì, ci voleva proprio!» confermò lei. «Anche se ormai stiamo diventando troppo vecchie per reggere questi hangover.»
Eh. Non dirlo a me...
Annuii simpateticamente mentre continuavo a fissare il vuoto, impalata accanto alla sedia per qualche minuto, con la brioche mezza scartata stretta in una mano.
Cece si fiondò in bagno tra mille sbadigli incontrollati.
Non si era accorta di nulla.
Certamente, né Shinichi né – tantomeno – Yota glielo avrebbero mai rivelato.
E neanche io.
Non potevo.
Quello era un errore imperdonabile che volevo costringermi a portare dentro in silenzio, nella tomba, facendomi dilaniare dalla colpa piano piano. Sì, una condanna a morte per stillicidio ad Annachiara: la ninfomane, la ruba-fidanzati, la traditrice senza dignità.
Sarebbe stato troppo facile svelarglielo e farmi gridare addosso, impormi di sentirmi appellare come la sciagurata che ero: una zoccola**, sì, proprio quella che sotto sotto sia io che lei ci aspettavamo che sarei diventata. Anzi, come ci aspettavamo che si sarebbe fatta spazio per emergere da me come dalla fogna dove era stata costretta per chissà quanto tempo. Ma sapevamo tutti che era sempre stata lì.
«Cece» sussurrai, quasi senza aver ragionato in anticipo su quanto stessi per dire, «cosa c'è tra te e Yota?»
Volevo almeno sapere quante persone avevo tradito in tutto, fare la conta del male che avevo fatto nel breve spacco di quella nottata maledetta.
Lei addentò il cuore caldo di marmellata di azuki come se non mangiasse da anni e alzò un sopracciglio nella mia direzione. «Perché me lo chiedi?»
Eh, sapessi.
«Perché ho notato come ti corteggia, ma non so quanto siano serie le cose tra di voi.»
Oh, no che non lo sapevo. Perché mai era venuto a letto con me pure lui? Quella domanda mi stava assillando più di ogni altra, perché era il tarlo che – forse – mi faceva stare più male: non solo perché c'era il rischio che uno dei ragazzi che mi ero appena scopata per caso piacesse alla mia migliore amica, ma anche perché era successo – appunto – per caso. Avrei potuto, anzi, dovuto evitarlo.
Celeste mi lasciò in balia dei miei dubbi ancora per qualche secondo, a macerarmi l'anima, perché troppo impegnata a scoperchiare il suo caffè tall per versarci dentro del latte d'avena. Ne bevve un sorso, constatando che fosse troppo caldo, e allora spiegò: «Sì, lui ci prova fin dalla prima volta che ci siamo conosciuti. Ma lo fa perché è un farfallone, non è da prendere troppo sul serio!» strappò via un altro morso dal dolcetto e precisò, «Io lo trovo simpatico e molto bello, certo, ma siamo solo amici.»
Cadde il silenzio su tutto l'appartamento per qualche tempo, finché non accesi la TV per coprire i miei pensieri.
Eppure ero certa che lui non le fosse indifferente.
L'avevo vista tante volte civettare a tempo perso coi ragazzi che ci provavano – gli innumerevoli spasimanti – ma non mi sembrava che l'atteggiamento complice e coinvolto che rivolgeva a Yota fosse poi così spassionato. C'era una luce particolare negli occhi di entrambi quando confabulavano, chiusi nel loro piccolo mondo, al margine del loro divanetto riservato del Cyberia.
Mi voltai a guardarla di nuovo, quasi come a sottintendere che stessi ancora aspettando una risposta più sincera.
Lei capì, forse, o potrebbe essere più probabile l'ipotesi che volesse confidare a qualcuno – prima o poi – quello che stava per dirmi.
«Sai...» proferì quella sua verità con del riflessivo quanto significativo ritardo rispetto a quando era morta la conversazione, «... comunque gli idol non si possono impegnare sentimentalmente con nessuno, per contratto».
Deglutii sforzando troppo i muscoli della gola irrigiditi.
Ecco, come sospettavo.
La conoscevo da troppi anni per non aver ingarrato la lettura dei suoi occhi limpidi quando nel suo campo visivo entrava Yota.
«E quindi? Ti piace ma non potete stare insieme?».
Lei scosse la testa e fece spallucce «All'inizio pensavo che fosse così. Del resto, quale ragazza appassionata del Giappone non ha mai sognato di avere una love story con un idol j-pop come in un drama?» concesse. «Ma la verità è che non è il mio tipo di fidanzato. Lo vedo più come un bestfriend.»
Friendzonato a morte, quindi? Forse per questo era venuto a letto con la coinquilina della ragazza dei suoi sogni, allora, per sfogare in qualche modo quel sentimento frustrato?
Eppure, quella negazione così superficiale non mi aveva convinta per niente.
***
Nei giorni che seguirono alla threesome da dimenticare, mi trasformai nella ragazza casa e chiesa che non ero mai stata.
Uscivo solo per andare a lavoro in gelateria o a fare colloqui. A casa mi riducevo allo stato primordiale da ameba sciolta sul divano; le videochiamate a Clemente o Riccardo erano i miei unici contatti sociali esterni, e qualsiasi anime passassero in TV a tutte le ore del giorno e della notte divenne la mia imprescindibile fonte di intrattenimento e svago.
Celeste era così presa dai suoi servizi fotografici di importanza sempre crescente – Uniqlo l'aveva richiesta per un catalogo di intimo e pigiami – che non faceva neanche più caso alla larva in cui mi ero ridotta, anche se festeggiò con molta più gioia di me la notizia che la compagnia aerea mi aveva selezionata per procedere con il corso di formazione a settembre.
Mi portò a mangiare sushi in un ristorante superlusso a Ginza – le avrebbero fatto un generoso sconto perché era stata il volto di una loro campagna pubblicitaria qualche mese prima – e fu la prima cosa di cui non potei impedirmi di godere da quando avevo deciso di flagellare interiormente me stessa. Era davvero troppo buono.
«Ho rivisto Shinichi durante la firma del contratto con PepsiCo» buttò lì Cece durante la cena. «Mi ha chiesto dove sei finita.»
Tossii con violenza, quasi a siglare un'ammissione di colpevolezza involontaria.
Non avevo più risposto a nessuna delle sue chiamate, né ai messaggi. Per infliggermi quella punizione in maniera ancor più profonda avevo evitato con maniacale accuratezza di bloccare il suo numero, così avrei continuato a soffrire nel vedere il suo nome sbucare sul display del cellulare ogni paio d'ore, solo per impedirmi di rispondere con disciplinata sistematicità.
Mentre morivo dentro.
Non ribattei all'insinuazione di Cece, ma lei colse la palla al balzo per investigare. «Quindi lui ti piace» e con la pronuncia di ognuna di quelle lettere mi trafisse sedici volte il cuore. «Proprio come ti piaceva il barista di tuo nonno?»
Va bene, almeno questo potevo dirglielo, «Sì» confessai.
Lei si schiarì la voce con severità. «E... quindi?»
Il suo sguardo di ghiaccio era intento a scrutarmi come se volesse cavarmi i fatti da dentro come palle di gelato dalla vaschetta.
«Per questo lo sto ignorando» confermai.
«Non hai intenzione di parlare di questa cosa con Riccardo?» diede tono alla frase come se fosse un consiglio, ma in fondo ai suoi occhi c'era qualcosa di più. Un ordine? Una sentenza?
Sospirai.
«Cece, ma tu davvero non hai mai avvertito attrazione verso nessun altro che non fosse il tuo ragazzo, quando eri fidanzata?» sollecitai una sua conferma, anche microscopica, che non ero del tutto sola nel mio essere sbagliata.
Per tutta risposta, la mia amica si grattò l'angolo del naso come se stesse fingendo di pensarci. «Ehm... no!?» il suo diniego rimbombò nel locale forte quasi quanto dentro alla mia coscienza sporca.
Abbassai gli occhi sul nigiri al pesce burro che mi ero stipata per ultimo nel piattino.
Sapevo che quello del tradimento era un argomento tabù delicatissimo per lei, che era stata cornificata davvero brutalmente dal suo fidanzato storico neanche tanto tempo prima.
Magari la ferita era ancora troppo fresca o, forse, io ero davvero strana e lei non mi stava nascondendo nulla: sul serio non aveva mai provato le stesse sensazioni che attanagliavano me con alcuni uomini. A dispetto dell'amore infinito che avevo sempre provato per Riccardo.
«Se te lo chiede di nuovo, digli che non ho intenzione di rivederlo» decisi.
Ma lei scosse la testa con disappunto «Non esiste! Tu devi venire a portarmi fortuna anche il giorno dello shooting.»
Chissà perché si era tanto convinta di quella sciocchezza.
In realtà, quello fu il giorno in cui si consumò la tragedia.
* Gli anpan sono brioche dolci tipiche dei Paesi dell'est asiatico, per tradizione ripiene di marmellata di fagioli rossi (azuki), ma oggigiorno si trovano anche con altre varietà di creme.
** "Zoccola" in napoletano vuol dire anche ratto, da qui la similitudine che crea Annachiara col doppio senso della parola.
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