2. Il concetto di casa


Giugno 2017

«Perdonami, ma proprio non riesco a sentirti per colpa di queste cazzo di cicale!*» gridai, sputacchiando direttamente dentro al microfono del cellulare tenuto dritto di fronte a me.

Il caldo insopportabile dell'estate sul Pacifico ci aveva investito come un tram già all'inizio di giugno e, non solo la gelateria era diventata una bolgia infernale, ma anche l'intera regione si era riempita di turisti sudati e assetati a ogni angolo di strada.

«Ho detto che stasera c'è un evento esclusivo al Cyberia!» ripeté Celeste, dall'altro capo della città e della chiamata. «Ovviamente io sono stata invitata, e tu sarai la mia plus one.»

Non pareva fossero ammesse repliche. Mi strinsi nelle spalle e annuii, anche se lei non poteva vedermi. «Ok, ti raggiungo a Roppongi appena finisco.»

Complice l'umidità al 100% e il mio corpo che si preparava alla disidratazione per tutto l'alcol che avremmo bevuto da lì a poco, giunsi al Mori Garden in stato liquido.

Celeste scoppiò a ridere e intercettò un paio di ragazzini al centro della piazza, impiegati come promoter per un qualche nuovo snack lanciato dal Family Mart, così da raccattare un ventaglio di plastica da uno e un pacchetto di fazzolettini dall'altro.**

«Oh, bella, non mi far fare brutte figure stasera, eh!» ghignò, un polpastrello allungato sul mio viso per sistemarmi l'eyeliner colato all'angolo dell'occhio destro. «Yota porta un suo amico che potrebbe aiutarmi ad avere un ingaggio importante il mese prossimo.»

Per questo si era tirata a lucido persino più del solito: scarpe traslucide Vivienne Westwood, curve fasciate da un tubino nero che sembrava strappato all'ultima passerella di Prada, labbra stuccate di un rossetto così rosso da far sembrare sbiaditi i freschi papaveri del parco.

Mi lanciò un'occhiata severa mentre la guardavo ammirata. «Forse avrei dovuto spiegarti meglio il tono della serata prima di permetterti di uscire con questi stracci» e rise, perché non era poi così male il mio coordinato blu navy con scollatura a cuore e minigonna a pieghe, anche se si poteva certamente fare di meglio.

Tirò fuori una forcina da chissà dove e mi spinse i capelli dietro l'orecchio sul lato sinistro, poi mi passò il lipgloss rosato che teneva di scorta in pochette.

Me lo strisciai sulle labbra con fare quasi colpevole, come se davvero stessi attentando alla sua carriera per colpa del mio look approssimativo da stracciona di periferia; e, del resto, la differenza Pozzuoli-Vomero tra noi usciva di frequente in quelle piccole cose.***

Anche il Cyberia si era dato un certo tono quella sera, i neon pastello avevano lasciato il posto a una illuminazione calda molto più classy, e perfino i baristi erano stati costretti dentro una divisa elegantissima con tanto di papillon.

Yota e Celeste sarebbero stati sicuramente eletti re e reginetta della serata, se quello fosse stato un ballo di fine anno all'americana.

Lui ci accolse con calore al suo solito divanetto in fondo alla sala, arroccato come fosse il suo fortino reale da cui poteva spadroneggiare e giudicare tutti dall'alto in basso come un vero principe.

Cece puntò subito all'estroso foulard di seta lucida che gli circondava il collo e che, da solo, sembrava emettere più luce dei pallidi lumetti sul soffitto agli angoli della nostra alcova. «Questo sarà il tuo regalo per il mio prossimo compleanno, vero?». Doveva costare qualche centinaio di euro, considerate le iniziali intrecciate di un brand francese che emergevano dai ricami monogram tono su tono.

Yota se lo slacciò di dosso e glielo porse, sfoggiando un largo sorriso candido. «È già tuo se lo vuoi, principessa.»

Le rivolse uno degli sguardi più dolci che avessi mai visto.

Durante quei mesi era venuto a bere a casa da noi qualche volta e avevo notato la sua affettuosa predilezione per Celeste, ma quella fu la prima volta che pensai che andasse al di là di una profonda amicizia o di un flirt passeggero.

Mentre lei faceva la timida fingendo di non accettare il dono del ragazzo, un'ombra alta e filiforme raggiunse il nostro tavolo. «Scusate il ritardo, lo shooting di oggi ha richiesto più tempo del previsto per colpa di un cane con la diarrea» esordì.

Non riuscii a coglierne subito i connotati del viso per intero, ma il riverbero delle lampadine arancioni sul suo naso importante e la battuta con cui si era introdotto mi fecero scoppiare in una risata incontrollata.

Il nuovo arrivato si rifugiò tra le spalle con timidezza e si presentò: «Chiedo scusa per la volgarità, non sapevo che avessimo nuove persone nel gruppo stasera...» mi porse con garbo la mano affusolata. «Sono Shinichi.»

Gliela strinsi e mi alzai per scusarmi, con un breve inchino. «No, sono io che devo chiederti perdono per la reazione... Credo di aver già bevuto troppi margarita stasera, e stiamo qui solo da un'ora!» mi difesi. «Mi chiamo Anna, sono un'amica di Celeste.»

Ma con la sua faccia perplessa dimostrò di non conoscere neanche la mia amica, infatti Yota si affrettò a prendere la parola per annunciare: «Queste due belle ragazze sono le nostre ospiti stasera, Shin-kun****» fece segno con il braccio all'amico di ricavarsi un posto tra me e Celeste lungo il divanetto tondeggiante. «Aoi è la modella italiana di cui ti avevo parlato, farà il provino per quel tuo lavoro del mese prossimo.»

Spiegò che in molti la chiamavano "Aoi" sul posto di lavoro, diretta traduzione del suo nome italiano in giapponese, per evitarsi lo stress di pronunciare "Ce-le-ste" senza fare carneficina di sillabe e suoni. Quella genialata mi strappò un altro risolino.

Shinichi viaggiò con lo sguardo da me a Celeste e poi sorrise tiepidamente a quest'ultima. «In bocca al lupo, allora» le augurò, con un tono mite e piatto che urtò l'autostima di Celeste come non le era mai capitato prima in vita sua.

Cece era la tipica donna che non deve chiedere mai. Quella che attirerebbe su di sé l'attenzione di chiunque si trovi nei dintorni anche se fosse avvistata appena sveglia a prima mattina, in tuta oversize, in fila al supermercato per comprarsi gli assorbenti. Tutti gli uomini vorrebbero averla e tutte le donne desiderano essere lei.

Eppure, il tono con cui Shinichi le aveva appena augurato buona fortuna era un palese "Non io" a quell'aspettativa ricorrente e mai disattesa.

Lanciò poi uno sguardo criptico a Yota, che io tradussi come un tacito accordo di rispetto delle regole tra uomini perché, essendo suo amico, doveva essere già a conoscenza della sua cotta per Celeste e non aveva alcuna intenzione di fargli da competitor. Anche se pensai che fosse molto arrogante da parte sua credersi uno sfidante all'altezza di un idol per una modella.

Del resto avevo capito che fosse solo un fotografo.

Invece, appena i fari sulla pista si accesero per richiamare la gente a danzare sulle note techno del DJ che era appena arrivato, la luce che colpì il viso di Shinichi me lo fece sembrare un Dio greco. Aveva un naso importante, sì, ma in perfetta armonia col resto dei tratti del suo viso spigoloso. L'allungata mandorla delle palpebre era dolce come un'onda bassa che si infrange sul bagnasciuga di una pelle olivastra, quasi abbronzata, e un minuscolo neo sotto l'angolo dell'occhio sinistro rendeva ancora più intenso il nero magnetico delle iridi.

Era bello.

Cazzo se era bello.

Tanto da farmi chiedere come potesse lavorare dietro alla fotocamera anziché piazzarvisi di fronte dalla mattina alla sera, dando al mondo la chance di catturare come il sole e la luna baciassero quel suo volto ben scolpito in ogni prospettiva possibile. Proprio come quei faretti mossi a tempo di musica che me l'avevano fatto scoprire.

Celeste non doveva pensarla allo stesso modo perché, dopo la risposta secca e accondiscendente di Shinichi, lei si alzò e se ne andò dritta verso il bancone del bar con aria quasi indignata.

Lui si sedette accanto a me come se niente fosse successo, sistemandosi la montatura dei grossi Ray-Ban neri da hipster sul naso. «Ho lavorato tante volte in Italia, sai» affermò. «A Milano, Verona, Venezia... Tu di dove sei?»

Fissando un po' stranita Yota che si muoveva tra la folla per raggiungere in gran fretta Cece – piazzata davanti al barista come se stesse conducendo un interrogatorio – risposi in un sussurro: «Napoli...» per poi correggermi subito, «...Ehm, Pozzuoli, per essere precisi.»

Il mio povero interlocutore faticò non poco nel cercare di ripetere il nome del mio paese e rise di gusto quando si accorse che continuava a sbagliare. Anch'io non riuscii a trattenermi dal ridergli in faccia, di nuovo, ma poi tentai di rassicurarlo: «Non ti preoccupare, è difficile! E comunque non è così importante.»

Quella constatazione parve coglierlo di sorpresa. Si grattò la minuscola fossetta sul mento, pensoso.

«Perché non è importante? Se è casa tua...»

Già. Ottima domanda.

Come avrei potuto spiegare che venire da un paesino della periferia napoletana significa essere proiettati dalla propria famiglia e dalla società in un certo tipo di educazione che mi andava strettissima, specialmente se si è femmine; che quando disattendi quelle aspettative la gente inizia a vederti solo in due modi: o come un pazzo o come un genio e, in entrambi i casi, la pressione per continuare ad aderire a quello stereotipo è inaudita.

Che dal nostro lungomare si vede Nisida e io, da bambina, mi sentivo come se fossi chiusa lì dentro insieme agli altri ragazzini che avevano sbagliato, ma quello che mi ero convinta di aver sbagliato io era l'essere nata in un posto a cui non sentivo di appartenere. Poi ci si fa grandi e ci si sposta – l'università a Napoli, i viaggi-studio all'estero – e così si acuisce quella sensazione di essere in costante errore, perché questa "casa" a cui tutti sembrano ancorarsi mani e piedi proprio non mi è mai sembrato di averla, né nella mente né nel cuore. E diventa dilaniante la consapevolezza che non esiste nessun posto in cui vorrei fermarmi per sempre, neanche quello natale dove vive l'adorata famiglia.

«Il concetto di "casa" mi è del tutto estraneo» considerai, senza accorgermi di averlo detto ad alta voce.

L'istante di silenzio che ne seguì mi convinse, infatti, di averlo solo pensato tra me e me. Almeno finché Shinichi non ribatté: «Forse posso capire cosa intendi» ammise. «Io sono mezzo filippino da parte di madre, però sono nato e cresciuto a Osaka. Non sono mai neanche stato nelle Filippine e non ne conosco la lingua.»

Mi voltai a guardarlo, stralunata, forse ricollegando la sua pelle ambrata a quel posto un po' esotico.

«Ma, sai, i giapponesi ci tengono proprio a ricordarmi costantemente che "non sono dei loro"» continuò, accompagnando la riflessione con un ghignetto amareggiato. «Mia madre dice che questa gente riuscirebbe a fare il pelo alla purezza del sangue persino alla principessa Mako, ma secondo me il problema va ben oltre il DNA. Del resto, pure Mako ha mandato tutti a cagare e se n'è scappata in America.»

Quelle sue osservazioni così tragiche e profonde mi fecero sentire in colpa per i miei patemi di un attimo prima.

Il dolore di non riuscire a sentirsi a casa da nessuna parte non può essere comparato a quello immenso ed eterno di non essere riconosciuto a casa propria neanche quando si è ben coscienti di quale sia.

«Perdonami» mi affrettai a dire. «Non volevo provocarti brutti pensieri.»

I suoi occhi mi trafissero come una lancia. La più dolce ed efficace delle armi da scontro ravvicinato.

Ebbi l'impressione che stesse pian piano accostando il suo viso al mio, ma fummo interrotti da Celeste che venne a prelevarmi forzosamente dal divanetto per portarmi a ballare con lei in pista.

Notando il disappunto nei suoi limpidi occhi cerulei – da cui ogni singola emozione trapelava come urlata al megafono – le domandai: «Tutto bene? È successo qualcosa?»

Lei mi afferrò le spalle con entrambe le braccia e mi intimò all'orecchio: «Andiamo a fumare.»

Era rarissimo che Cece fumasse, specie da quando stava in Giappone dove è reso impossibile, ma durante i picchi di stress troppo alti non riusciva a farne a meno.

Ci ritrovammo ancora una volta nel cortile interno oltre alla porta di ferro dietro al DJ-set.

Sfilò uno spinello già pronto dalla pochette e se lo mise in bocca con le dita tremolanti. «Vedi, cazzo, perché questo lavoro è così strafottutamente difficile?» dichiarò, con la voce spezzata. «Dove cammini cammini, pesti sempre una merda!»

«Ma cosa è successo?!» mi affannai a starle dietro, sempre più confusa.

Lei deglutì e spostò lo sguardo umido oltre le inferriate che davano sulla strada. «È che, ogni tanto, mi faccio prendere la mano "da italiana" quando devo affrontare dei provini importanti, dove magari c'è gente che può raccomandarmi...» spiegò. «Yota mi aveva detto di conoscere il fotografo della campagna per la 7Up e io ho insistito per farmelo presentare.»

«E allora?» la esortai a continuare, dato che ancora non capivo quale fosse il problema.

«Eh, quello è un tipo particolare, non hai visto?» buttò fuori una nuvola di fumo come se fosse un vulcano in piena attività. «Allora, quando ho chiesto a Yota perché mi avesse arronzato in quel modo, lui ha detto che a Shinichi capita troppo spesso di venire approcciato dalle straniere per ricevere favoritismi.»

Restammo in silenzio per un po', prima che lei si sentisse in dovere di sottolineare: «In questo settore bisogna imparare a distinguersi per avere successo! Io, invece, ho fatto proprio come tutte le altre teste di cazzo.»

Aggrottai la fronte e incrociai le braccia sotto al petto. «Ce', ma tu questo benedetto provino ancora lo devi fare! Perché ti stai bagnando ancor prima che piova?»

Lì per lì non mi seppe rispondere. Proseguì solo a consumare con movimenti meccanici la sua erba leggera, che per fortuna ebbe successo nell'alleggerirle anche un po' la mente dalle paranoie.

Solo più tardi, in taxi verso casa, chiarì: «Un italiano questa cosa se la legherebbe al dito. Spero solo che coi giapponesi sia diverso.»

Un giappo-filippino, pensai tra me e me.

Senza riuscire a trattenere quella considerazione che, forse, avrebbe potuto ferire Shinichi.

Eppure, a me suonava tanto come un valore aggiunto.

* Durante l'estate le città giapponesi sono davvero congestionate dal gracchiare delle cicale! È così assordante da fare a gara col rumore delle macchine XD

** In Giappone è piuttosto raro il volantinaggio con semplici depliant cartacei. È molto più diffuso regalare piccoli gadget o oggetti di uso comune su cui è stampata la pubblicità del prodotto da promuovere, come quelli che si accaparra Celeste in questo caso!

*** Pozzuoli è un piccolo paese alla periferia nord partenopea, mentre il Vomero è un quartiere alto-borghese situato su una delle colline centrali della città di Napoli. In genere, i napoletani che abitano al Vomero sono molto benestanti.

**** In giapponese, "Chan" e "Kun" sono suffissi che si aggiungono ai nomi per crearne il vezzeggiativo.

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