12. Aiaigasa*


Febbraio 2018

Tergiversammo per parecchio tempo ma, quando Celeste si rese conto che non avrei mai avuto la forza di rivelare nulla a Riccardo, pian piano le nostre strade si divisero.

Lasciar andare un'amica storica o perdere il più grande amore della mia vita?

Non era stata una scelta così facile. Non lo era stato soprattutto ammettere che faticavo a prendere la decisione di cambiare atteggiamento, una volta per tutte, che poi era l'unica richiesta che la povera Cece mi aveva fatto.

In cuor mio ero certa che tutto si sarebbe "risolto da solo", in un modo o nell'altro. Mi sarebbe passata la smania di innamorarmi di tanto in tanto di altri uomini che non fossero Riccardo, così come ai bambini passa il capriccio di non voler mangiare le verdure quando crescono. A un certo punto – puff! – quella insolente pulsione, simpatica come un sassolino nella scarpa, si sarebbe dissolta come neve di montagna a primavera.

Dopo un freddo – Oh! Davvero gelido – inverno, però.

Col matrimonio, forse?

Chissà? Mi sarei mai sposata?

Anna se sposa? No, no, che strana immagine. Dipingermi in abito bianco mi sembrava troppo irrealistico persino per la più fervida fantasia notturna.

E poi non è proprio l'istituzione del matrimonio, così come concepito e legiferato, a porre la più invalicabile barriera tra me e la mia percezione dell'amore?

Se anche io, Riccardo, Shinichi, Filippo, e tutte le altre persone che essi amano, decidessimo una volta per tutte di stare insieme, quale sarebbe il quadro civile e sociale in cui potremmo essere incasellati? Quale legge governerebbe e proteggerebbe la nostra unione collettiva? Di chi sarebbero i nostri ipotetici figli, le nostre proprietà, le responsabilità sulle rispettive vite? Se io mi ammalassi, chi avrebbe il permesso di venirmi ad accudire in qualità di marito, compagno, amante...?

Ma la verità è che proprio io aspettavo di continuo che a prendere le decisioni per me fossero gli altri.

Però le persone che sul serio ci tenevano; quando proprio tutto fosse andato male, quando fossimo messi davvero alle strette.

Come Shinichi.

Dopo che scomparve all'improvviso dal Cyberia, la sera della sciagurata scoperta, latitò per parecchi giorni.

Io non sapevo cosa fare. Anzi, da pusillanime quale sono sempre stata, non feci nulla.

Certo, mi mancava già da morire e il pensiero di non rivederlo mai più mi tolse la fame, la sete, il sonno, perfino la loquacità con Riccardo che pensò mi fossi ammalata.

Glielo feci credere, così che fosse più facile continuare a mentire e rimandare la conversazione.

Rimandarla o glissarla, invero?

Solo che, passate più di tre settimane di assordante silenzio, una notte decisi di prendere una pseudo-iniziativa – mossa dal poutpourri di disperazione e nostalgia che era diventata la materia grigia dentro al mio cranio – e mi trascinai verso nord a bordo di un bus notturno con direzione Minamisenju, per raggiungere il Lawson di fronte lo Shioiri Koen in cui avevamo mangiato i nostri primi taiyaki di mezzanotte.

Pioveva da giorni, come se il meteo avesse deciso di allinearsi al mio umore. Una meteoropatia al contrario.

L'asfalto cittadino era diventato uno specchio che rendeva gli alti grattacieli vetrati se possibile ancora più incombenti del solito, in un sottosopra opprimente che mimava alla perfezione il modo in cui iniziavo a percepire il mondo attorno a me.

Alle 23:57, cassiere escluso, il minimarket era popolato solo da un salaryman bagnato fradicio e mezzo ubriaco chino su una rivista per ragazzine nell'angolo coi tavolini a ridosso della vetrata d'ingresso.

Mi mossi cauta verso la vetrinetta del cibo pronto, le lacrime trattenute a stento nell'ordinare un taiyaki da portar via; poi decisi di non scaldarlo al microonde, per adeguarlo alla freddezza generale del momento, e trottai di nuovo fuori prima che l'impiegato brillo, o chiunque fosse entrato dopo, potesse rubarmi l'ombrello che avevo lasciato all'ingresso – come succedeva spesso.

Attraversai la strada con lo stesso passo incerto, le gambe tremavano al ricordo di quando avevo aspettato lì la sorpresa notturna di Niki, e mi parve quasi di scorgere i suoi lucenti capelli corvini in mezzo alla foschia dell'umidità.

Giunta finalmente al prato, mi accorsi che non era stato un miraggio.

Shinichi era seduto sullo stesso punto del prato dove eravamo stati accoccolati insieme – la Tokyo Sky Tree si scorgeva appena oltre la coltre d'acqua, ma la sua intensa luce blu era la stessa di quella notte – e sovrastavo la sua chioma zuppa da pochi centimetri dietro le sue spalle.

Mossi l'ombrello sopra di lui per ripararlo dalla tempesta impetuosa, che ci stava colpendo fisicamente tanto quanto quella che ci affliggeva mentalmente.

Lui trasalì e si voltò di scatto, gli occhi sgranati come se avesse visto il fantasma di un antenato sconosciuto, appena incrociarono i miei.

Spalancò la bocca ma non ne uscì alcun suono.

Notai che stringeva anche lui un taiyaki mangiucchiato e bagnato, proprio come me.

Dato che anche io non riuscii a esprimere nulla ad alta voce, lui scosse la testa e mi liquidò con un gesto della mano. «Non posso certo condividere l'ombrello con te» si rammaricò. «Non stiamo insieme e non siamo destinati a essere una coppia.»

L'amore secondo i giapponesi: condividere il rifugio di un ombrello con la propria anima gemella, in una malinconica notte di pioggia.

Un popolo che ha – così strenuamente e così a lungo – sublimato e al contempo inabissato la propria umanità pur di favorire il sistema, sacrificando la spontaneità della vita e dei sentimenti sull'altare dell'ordine, finisce con l'essere costretto a basare su un melenso stereotipo il proprio concetto di predestinazione romantica.

Eppure, in quel preciso istante, quanto avrei voluto che fosse vero! Che quell'ombrello potesse ingigantirsi fino a diventare un ombrellone, una parabola, un satellite, per essere il nostro dolce ricovero, il nostro tetto.

Nostro.

Mio, di Niki, di Riccardo. Di tutti coloro che si amano.

Avvertii l'acqua – tanta acqua – sul viso, ma tentai di convincermi che fossero impertinenti gocce di pioggia che avevano sfondato il tetto trasparente della plastica, e non fredde lacrime di rammarico.

Mi chinai sull'erba quasi congelata, e gli accarezzai una guancia con la mano che si era liberata lasciando cadere per terra il malcapitato taiyaki di mezzanotte.

Ci baciammo.

A dispetto di tutto.

Amaro, freddo, violento e pieno di disappunto fu quel bacio.

E fu l'ultimo.

«Sarebbe ingiusto dirti che ti amo» ammisi. «Non ne ho il diritto. Però non credo che proverò mai per nessun altro quello che provo per te.»

Lui chiuse gli occhi per farmi virtualmente sparire dalla sua vista, poi spostò di nuovo la testa verso il panorama offuscato del fiume Sumida.

«Tra poche settimane mi trasferisco in Italia. Ho accettato la proposta che mi avevano fatto l'anno scorso» annunciò.

Il cuore saltò un battito. Forse due.

Feci per complimentarmi, ma lui mi zittì con un dito allungato sulle mie labbra. «Non credo di avertelo mai detto ma, anche se sono un fotografo commerciale, la mia vera passione sono gli scatti naturalistici.»

Quella strana curiosità sui suoi hobby mi spiazzò, così all'apparenza fuori contesto, rimasi allora in silenzio come mi aveva ordinato coi gesti.

«Soprattutto la lava. Mi piace tantissimo fotografare la lava» sottolineò con occhi quasi sognanti, accesi, fumanti come un'eruzione.

Finalmente tornò a porli sui miei e deglutì con un rumore sordo, come per cacciarsi in gola un pillolone contro una brutta malattia. «I tuoi occhi me la ricordano.»

Mi incorniciò il viso con entrambe le mani, poggiando la sua fronte contro la mia per venire il più vicino possibile al mio sguardo e trafiggerlo col suo. «Se mai dovessi passare da Napoli, questa è l'unica cosa di te che voglio portarmi dietro. La ragazza del Vesuvio, dagli occhi di lava.»

Mi prese una mano per piazzarci dentro qualcosa e richiuderla a pugno, con movimenti brevi ma tremolanti.

Era lo scrunchy che mi aveva rubato dopo il provino di Cece.

*Aiaigasa (significa letteralmente: "condividere un ombrello") è un trope romantico molto tipico delle storie d'amore giapponesi. Nasce forse da antiche abitudini di frequentazione (quando le donne erano ancora costrette in casa per non "disonorare" le famiglie), ma è stata poi sdoganata nel mainstream dall'utilizzo di una certa iconografia tra i ragazzini in età scolastica. Questi, infatti, celebrano le coppiette e i primi amori disegnando un ombrello sotto cui vengono scritti i nomi degli innamorati (che può anche essere intesa come una freccia di Cupido stilizzata) considerato anche che il verso tradizionale in cui si scrive il giapponese è dall'alto verso il basso (i nomi sull'immagine in basso sono "Akito" a sinistra e "Haruko" a destra).

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