11. Il pomo della discordia


Gennaio 2018

La fine dell'anno fu durissima.

Nonostante la denuncia dell'aggressione di Alessandro, il provvedimento più duro che l'HR ritenne di dover prendere fu spostarlo all'hub di Singapore invece di farlo restare a Tokyo.

Shinichi, ovviamente e per fortuna mia, non aveva inteso la battuta a sorpresa di quel coglione nel fatale momento del loro incontro in corridoio, ma io sapevo di dover – prima o poi – affrontare quella discussione con lui. Soprattutto dopo uno strano dialogo da cui capii che aveva scambiato le foto di viaggi con Riccardo sul mio Instagram – dato che non eravamo tipi da immortalare le nostre effusioni – per scatti insieme al fratello che sapeva avessi, ma di cui non conosceva le fattezze.

Purtroppo, proprio quelle che pensavo essere le mie comode e convenienti esitazioni e temporeggiamenti, lo portarono a scoprire la cosa nel peggiore dei modi possibili.

Eravamo al Cyberia, una sera in cui ci eravamo radunati tutti lì di ritorno dalle feste di Natale passate a casa in Italia; io avevo iniziato a lavorare come hostess ormai da un paio di mesi, mi ero trasferita in un monolocale sponsorizzato dall'azienda – diciotto metriquadri soppalcati e incastrati tra i ristorantini coreani di Shin-Okubo – e avevo sempre meno occasioni di rivedere Cece, Yota e Niki.

Mi mancavano ma, paradossalmente, la mia ansia crescente per il non sapere come affrontare quella situazione che mi stava sfuggendo di mano mi rendeva la lontananza dagli affetti più lieve e gestibile.

Chissà perché, quella sera il club era affollato in particolare da numerosi gruppi di turisti – forse si era ormai sparsa la voce sul web che fosse un locale frequentato da idol e modelle – il più grosso dei quali aveva tutta l'aria di essere composto da marines americani o qualcosa di simile, dato lo stile della loro imponente uniforme blu scuro striata di bianco e oro.

Yota commentò con ammirazione: «Vorrei proprio indossare una bella divisa come quella per promuovere la prossima release del mio gruppo!»

Cece gli diede corda con un sorrisetto malizioso: «Adorabili! E vedessi che strage di cuori fa ora la nostra Annarella, con il suo fiammante coordinato da hostess!» rincarò. «Quasi quanto il suo fidanzato pilota... senza offesa, Chiare', ma si sa che gli uomini in divisa sono più affascinanti delle donne!»

Mi irrigidii come il marmo, ma mai quanto le membra del corpo di Shinichi – persino la temperatura corporea gli andò sotto di qualche tacca in un nanosecondo – seduto proprio al mio fianco, a sfiorarmi il braccio col suo di tanto in tanto.

Anche Yota lanciò uno sguardo perplesso nella nostra direzione, ma riacquistò subito il ghignetto furbo di sempre per poter girare il coltello nella piaga appena aperta. «E da quand'è che sei fidanzata? Non ce l'hai mai fatto conoscere!»

Celeste posò lo sguardo ceruleo su Shinichi, scrutandolo con inedita attenzione. Lui continuò a non aprire bocca, le mani impegnate a stringersi le ginocchia fasciate dal jeans scuro come se fossero il suo unico appiglio sul baratro della disperazione.

Il che dovette farla insospettire ancora di più, perché lei proseguì con tono civettuolo: «È fidanzata da una vita, ormai!» quell'informazione sbattuta lì così mi sembrò riecheggiare per l'intera sala come una sentenza. «Quant'è? Un paio d'anni?»

Annuii, con un movimento quasi impercettibile del mento.

Il tempo parve arrestarsi, anzi, rallentarsi come se un bimbo dispettoso ci avesse costretto allo slow motion della scena clou di un cartone animato. Con la coda dell'occhio mi fissai su un neon difettoso in fondo alla sala, che mi diede l'impressione di seguire pedissequamente i lenti battiti del mio cuore al suo lampeggiare intermittente tra il blu e il viola.

Gli astanti erano come congelati in un istante lunghissimo, che stava rendendo infinita e flemmatica la loro danza sulla pista affollata.

Solo l'alzarsi di scatto di Niki sembrò andare al ritmo veloce di un razzo. «Devo fare una telefonata importante» annunciò mentre già si muoveva verso l'ingresso che dava sulla strada, e si lasciava alle spalle il nostro tavolino come se fosse una bomba sulla soglia dell'esplosione. O forse era lui a essere su quella soglia.

Rimasi una statua di cera al mio posto, gli arti molli come se potessero sciogliersi da un momento all'altro, le labbra tremolanti, gli occhi fissi sul boccale di birra ormai calda.

Cece mi afferrò la mano con fermezza, la strinse tanto da farmi male, e mi trascinò fuori al cortiletto dove fumava di solito. Ci richiuse con forza il portone alle spalle e mi spinse contro il muretto di fianco ai cassonetti dell'immondizia.

Una spessa unghia finta dipinta di arancione glitterato, che mi aveva lasciato il segno sulla pelle mentre mi tirava via, le schioppò via da un mignolo. Lei, incredibilmente, non ci fece caso.

«Avete scopato?» mi interrogò a bruciapelo.

Io la guardai terrorizzata, come se l'ambiguità di quell'illazione potesse essere il mio ago della bilancia tra la vita e la morte, la mia unica ancora di salvezza, il fumo che cela lo scempio dello sparo appena esploso di una battuta di caccia. Aveva infine cacciato la domanda di Schrödinger, solo l'apertura di quella scatola poteva confermarla o smentirla, ma io non avevo nessuna intenzione di scoperchiare quel pacco.

Mi fissò negli occhi in silenzio per un tempo che mi parve interminabile, aspettandosi certamente che io fossi una persona migliore di quella che ero o, almeno, matura abbastanza da prendersi le proprie responsabilità con onestà; invece non una sillaba fuoriuscì dalla mia gola.

Sospirò con tono deluso e amareggiato, invece che furioso come un attimo prima.

«Cazzo, Anna...» mi redarguì con un filo di voce, «Ma perché fai così?»

Così come? Cos'è che faccio? O sarebbe meglio chiedersi, cos'è che sono?

Non sfogai con lei tutte quelle domande.

Non ne ebbi la forza, o il coraggio, nemmeno in quel momento in cui mi aveva ormai scovata e scavata come un polveroso scatolone dimenticato in soffitta troppo a lungo. Sapeva che era sempre stata lì, silente ma incombente, quella parte di me che odiava e di cui aveva voluto negare l'esistenza al fine di riuscire a tollerare, nonostante tutto, il suo affetto maturato in così tanti anni per me. E, forse, se non fosse mai successo il guaio col suo ex, sarebbe anche stata in grado di perdonarmi perfino certe nefandezze in onore alla nostra amicizia; invece era ben evidente che non sarebbe più stata capace di farlo neanche forzandosi.

«Va bene» aggiunse, sorprendendomi con un'improvvisa inflessione pacata e contenuta. «Sono cazzi tuoi e non vuoi rispondere, neanche se te lo chiede la tua migliore amica.»

Probabilmente si aspettava che, punzecchiandomi a qual modo, avrei ceduto, senza riconoscere che a me mancavano proprio le parole. Non avevo la più pallida idea di cosa dire, neanche mettendoci tutta la buona volontà.

Cece temporeggiò ancora un po', per concedermi il tempo di rinsavire, ma non funzionò.

Prese a massaggiarsi con veemenza l'unghia lasciata scoperta dalla ricostruzione gel saltata, come se si stesse concentrando tutto in quel punto il dolore e la delusione che provava nei miei confronti.

«Beh» sentenziò. «Immagino che Riccardo non ne sappia un cazzo. E tu non hai nessuna intenzione di dirlo a lui, così come non avevi intenzione di dirlo a Shinichi, immagino?»

Non del tutto corretto.

Erano settimane che meditavo su cosa fare e come fare, il desiderio di essere sincera c'era sempre stato. Ma a quale prezzo? Non sarebbe stata in ballo solo la mia reputazione, ma anche il mio cuore, i miei sentimenti, la mia felicità.

Ero egoista, sì, però di un egoismo che faceva stare bene non solo me, ma anche Riccardo – che avevo sempre adorato! Sentimento che non sarebbe mai cambiato – e Shinichi, questo sconosciuto che mi aveva mozzato il fiato con un solo sguardo e che sembrava irradiare una luce nuova e accecante da quando avevamo iniziato a frequentarci.

Sì, forse mentivo a me stessa anche solo a pensarla così, ma il nostro amore era bello davvero. Lo era, senza dubbio, nei momenti in cui si manifestava, in quelli in cui si consumava, in quelli in cui mancavamo l'uno all'altra quando eravamo distanti. Lo era per tutti e tre allo stesso modo.

La mia amica mi riportò bruscamente alla fredda e umida realtà del cortiletto dell'immondizia del Cyberia, schiarendosi la voce con severità: «Se non glielo dici tu non posso certo dirglielo io, e non posso neanche costringerti a farlo» deglutì a vuoto, forse in meditazione profonda sull'opportunità o meno di pronunciare l'ultima battuta. «Ma se non lo fai la nostra amicizia è finita».

In fondo sapevo che sarebbe successo.

Confidavo sempre tutto senza filtri a Celeste. Tutto tranne il caos emotivo in cui ero stata catapultata appena trasferita in Giappone. Infatti, in passato le avevo rivelato delle mie attenzioni per Filippo, con la notevole differenza di non averle mai messe in pratica, e questo mi era bastato e avanzato per capire quanto dura potesse essere in tema di tradimento. Ma dopo esserci passata lei in prima persona, per di più col fidanzato storico, era ovvio che fosse diventata ancor più inamovibile.

«Non mi renderò complice di una traditrice seriale, che si rigira per le mani dei poveracci ignari in giro per il mondo, solo perché ha il vantaggio della distanza e dell'itineranza» rifletté un attimo sulla parola finale, poi completò: «O come cazzo si dice, insomma, un'egoista patologica.»

Era davvero così, quindi? Mi piaceva tradire gli uomini che amavo per puro egocentrismo, mitomania, narcisismo?

Ma io non volevo "tradirli"; volevo solo stare insieme a loro e poterli amare, senza dover fare una selezione come se fossero articoli nell'elenco di un catalogo.

Ma come avrei mai potuto esporre una cosa del genere a un italiano e un giapponese, intrisi di culture profondamente possessive e maschiliste, senza il rischio di perderli entrambi?

«Hai mai pensato a cosa proveresti se Riccardo lo facesse a te?» ragionò ancora Cece, un dubbio che poteva avere solo qualcuno che non capiva né mai avrebbe potuto capire ciò che provavo. Misuravamo le cose con unità talmente diverse che quasi sembravamo non parlare neanche più la stessa lingua.

Cosa ne avrei dovuto pensare, se Riky avesse fatto la stessa cosa a me? Amare me e un'altra donna allo stesso tempo? O, perché no, un altro uomo?

Il mio cervello non è mai riuscito a concepire l'arrogarsi l'esclusiva su una persona come se fosse una cosa così scontata e naturale. Riccardo non sarà mai una mia proprietà, né nel concetto né nella fattualità. Neanche il matrimonio rende un essere umano "proprietà" di un altro.

Non più, almeno, non qui.

Non per noi.

L'unica cosa che avrebbe potuto urtarmi, o farmi soffrire, sarebbe stata perdere l'amore di Riccardo; perderlo del tutto. Non il condividerlo con qualcun altro.

Che poi, anche lì... cosa significa "condividere", in questo caso? Che strane definizioni. Come se fosse un oggetto, una tavola a cui si siedono più commensali. Ma non è così.

L'amore che prova Annachiara non è diviso o "condiviso" tra Riccardo e Shinichi, come se fosse prodotto in numero finito, una serie di tot beni disposti sul nastro trasportatore del deposito di una fabbrica. Beni che poi, si badi, devono essere distribuiti in equa quantità all'uno e all'altro.

Chi potrebbe mai vedere l'amore in questo modo? Perché mai dovremmo soggiacere a una tale becera consuetudine?

Il mio sentimento per gli uomini di cui mi innamoro non esala dalle mie cellule, che hanno numero finito. Non trasuda dai miei neuroni, finiti anche quelli. Non scorre nei miei globuli rossi, forse anche un po' carenti.

Non è misurabile.

Non viene esaurito o tolto all'uno per darlo all'altro.

«Voi...» presi la parola a sorpresa, prima di tutto mia, perché non ero neanche pienamente cosciente di cosa stessi per dire, «...parlate di fare una "scelta" come se fosse un dogma. Ma chi è che l'ha deciso? Chi l'ha detto che questa cosa debba farsi per forza, che debba applicarsi a tutti quanti? E perché?»

Lei mi lanciò un'occhiata di commiserazione, come se fossero deliri rimbalzanti nelle ristrettezze di chissà quale stanzetta di un ospedale psichiatrico.

Lì, nei suoi occhi limpidi come lo specchio di un lago vulcanico, lessi chiaramente la convinzione incrollabile della sua superiorità morale che, come un'onda anomala alimentata da chissà quale vento, stava per abbattersi impietosa su di me. «Tu puoi scegliere di stare con chi cazzo vuoi, Annare', pure con mezzo Giappone se te la senti» rispose, «però tutta la gente coinvolta lo deve sapere. La scelta non è solo tua. Ragionando così, è a loro che togli la possibilità di scegliere che reclami per te stessa.»

Sbatté le palpebre più volte per il nervosismo, poi decise che fosse arrivato il momento di accendersi una sigaretta alla vaniglia che si era fatta dare da Yota, forse per addolcire almeno l'odore dell'aria su cui sputava le sue critiche. «Altrimenti non avrai mai delle vere relazioni, stai solo collezionando una serie di tradimenti.»

Spostai gli occhi sulla cicca che veniva succhiata avidamente dalle sue labbra carnose, il bianco della carta diventare cenere, il cremisi del tizzone rinvigorirsi al ritmo dell'aspirazione fino a sembrare una stella sul punto dell'esplosione in gigante rossa. Avrei voluto essere al centro di quel fuoco, incenerirmi con lentezza ed essere trasportata via in volo dal freddo inverno.

Celeste continuò, con inflessione sempre più sconfitta; forse dalla discussione pesante, forse dal mio silenzio insopportabile, dall'incomunicabilità e l'inconciliabilità delle nostre idee, oppure dalla nostra amicizia al capolinea.

«Magari ti comporti così solo perché non hai ancora trovato l'altra metà della mela» suggerì.

Non so te, ma io la mela la mangio a spicchi.


Ebbene, la resa dei conti con Celeste è finalmente arrivata... ve l'aspettavate?

Entrambe hanno esposto il proprio punto di vista, chi meglio chi peggio, ma è chiaro che sono mondi che non riusciranno mai a capirsi veramente. 💔

Cosa ne pensate? 

Io penso che non ci sia un torto o una ragione, nei loro modi diversi di intendere l'amore, ma sono curiosa di sapere la vostra e come vi schierate in questo confronto! 😁

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