1. Cyberia
Marzo 2017
Il primo mese e mezzo scivolò via con molte meno ansie del previsto. Essere una bionda, straniera, fluente nella lingua locale e in inglese, mi aveva fruttato – nel giro di un paio di settimane – un part-time al Baskin-Robbins* nelle vicinanze del parco giochi della zona portuale di Yokohama. Non avevo nessuna intenzione di stare lì per molto, ma era un ottimo riempitivo finché non avessi trovato qualcosa di meglio.
Celeste veniva a farmi visita tra uno shooting e un provino, quando non doveva recarsi in centro a Tokyo, scroccava i sorbetti alla frutta – che erano meno calorici – e prendeva in giro le bambine che mi scattavano foto di nascosto, ammirando la mia somiglianza – a detta loro – con la principessa Aurora della Disney.
«Chissà, magari hanno ragione! Avresti dovuto provare a proporti lì» aveva suggerito, divertita, con un sorriso sornione e il naso sporco di pompelmo.
«Scherzi? Non lo sai che gli attori del Disneyland fanno orari atroci e vengono molestati di continuo dai visitatori?» avevo esclamato, con un brivido di ribrezzo che mi scosse la spina dorsale al solo pensiero.
«Nah, mica in Giappone?» dubitò subito lei, «Quale giapponese si permetterebbe mai di tentare un contatto fisico con un altro essere umano?»
Scoppiammo a ridere.
«Quindi ancora non sei andata a letto con nemmeno un local?» mi informai, con qualche nota scettica di troppo nella voce, «Non stavi frequentando un nightclub famoso tra modelle e idol**?».
Lei confermò con un lieve dondolio della testa, mordendosi le labbra per sottolineare la dose di prudenza nelle intenzioni che mi stava per illustrare.
«Sì, ma me li sto gestendo con cauzione perché non voglio rovinarmi la carriera e passare per la solita gaijin*** senza inibizioni a cui si possano chiedere favori sessuali in cambio di lavoro» si strinse nelle spalle e il suo sguardo si intristì per un attimo – forse depresso dal peso dei mille pregiudizi continui con cui deve scontrarsi una donna nel suo settore, forse perfino più che in molti altri – prima di tornare frizzante poco dopo, quando aggiunse: «Però è vero, dovrei proprio portarti in quel locale lì! Gli idol più simpatici vengono tutti da Osaka.**** Che sorpresa, eh?»
***
Mi sorpresi anche solo di riuscire ancora a sentire i miei pensieri – let alone individuare un accento di Osaka – quanto più ci avvicinavamo alla pista centrale dell'area VIP del celebre Cyberia di Roppongi*****.
Celeste salutò una quantità spropositata di gente che ci sgusciava accanto per approcciarsi alla zona bar, proprio come se fosse a casa sua e si stesse rivolgendo agli ospiti di un suo party privato esclusivo. I passanti rendevano tale impressione ancora più realistica, perché le riservavano sguardi di sincero interesse e piacere nell'averla incontrata e scambiare due chiacchiere, come se avessero molta più importanza del solito small talk.
A un tratto fu distratta da una mano che si allungò sotto una luce neon rosa in fondo alla sala, il cui proprietario era un uomo con più gel che capelli e l'aria di uno che non andava certo lì per ballare.
«Anna, lui è Satoshi, un importante manager di idol della Johnny's******» me lo presentò in giapponese, per fargli capire che conoscessi anch'io la lingua come lei.
L'uomo allungò il capo traslucente con uno sguardo al limite della decenza e chiese – in un colpo di tosse – forse per dissimulare l'arrapamento: «Modella anche lei?»
Magari si stava già chiedendo se io fossi meno furba di Cece, e se l'avrei data in giro per un po' di lavoro nello spettacolo.
Mi affrettai a scuotere la testa. «Non è il mio campo» tagliai corto.
Celeste mi sorrise comprensiva e poi aprì ulteriormente l'espressione di gioia quando piazzò gli occhi oltre la sommità della mia coda di cavallo.
Un gruppetto di giovani bellocci sfilava a passo lento in direzione del nostro divanetto, con l'andamento flemmatico di chi sta andando a conquistarsi il proprio momento di gloria. Quando il manager li vide arrivare strizzò loro l'occhio e si defilò di corsa, verso un appuntamento importante nel privè che proclamò di avere sebbene nessuno gliel'avesse chiesto.
I ragazzi salutarono la mia amica alla maniera occidentale e si assieparono in fretta dietro al tavolino per non perdere altro tempo prima di piazzare le prime ordinazioni di alcol.
Cece tornò a presentarmi alla combriccola, stavolta specificando anzitempo che non lavorassi nello showbiz.
«Dovresti!» consigliò il ragazzo che sembrava essere il più giovane del team, a cui non avrei dato più di sedici anni nonostante potesse potenzialmente averne quasi il doppio, «Le bionde guadagnano bene qui.»
Cominciai a spazientirmi di tutta quell'ossessiva attenzione posta sul mio aspetto fisico, a dispetto dei continui avvertimenti di Cece riguardo al fatto che avrei dovuto conviverci fino a farci l'abitudine, poiché nulla sarebbe mai potuto cambiare su quel fronte.
«Noi non ci confonderemo mai tra questa gente» mi aveva avvertita, «Lo sai bene anche tu. Tanto vale che ci fai il callo.»
Sentirsi costantemente stranieri nel posto in cui ci si vuole costruire una vita stabile a lungo termine non è una bella sensazione. Ma non era una novità, avevo già in programma di riuscire a ingoiare quel rospo il prima possibile.
Tornai a prestare attenzione all'immediata realtà attorno a me e feci ticchettare un dito sulla spalla di Cece. «Ma li conosci tutti questi?» investigai, «Chi sono?»
Lei fece una smorfia, scrollò le spalle e spiegò: «No. Solo il tipo lì in fondo è amico mio» indicò con la coda dell'occhio uno dei ragazzi dall'aspetto più maturo, che sfoggiava addirittura un accenno di barbetta sul mento, con piglio orgoglioso e aria da artista impegnato. «Questi ragazzini sono un gruppo della sua agenzia che ha debuttato da poco.»
Non c'era molto da fare se non parlare del più e del meno e scaricarsi in gola fiumi di cocktail – dai nomi molto fancy e scritti in un dubbio inglese sul menù – finché la serata non entrò nel vivo quando giunse una specie di DJ coi capelli blu ad animare la pista da ballo. A quel punto nessuno di noi aveva ancora bevuto abbastanza da essersi del tutto sciolto, ma un paio di ragazzini debuttanti – mossi alla sfrontatezza dell'età e dal contesto – ci chiesero di ballare con loro.
Il più alto del gruppo era comunque una decina buona di centimetri più basso di Cece, e quasi la ringraziò di non portare i tacchi. Celeste sapeva essere molto discreta con la sua statura giunonica, in Italia e, ancor di più, in Giappone.
Ciò non impedì al tipo di cercare di agguantarle i fianchi come un polpo ogni qualvolta lei gli posava le mani sulle spalle per ondeggiare a tempo di musica. Atteggiamento accomodante e controllato che durò pochissimi minuti, prima che lui non cagasse fuori dal vaso e tentasse di farle scivolare le dita sul culo fino a spostarle l'orlo della minigonna.
Il mio partner di danza – molto più discreto – si era limitato a fissarmi negli occhi allusivo, prima che io spostassi lo sguardo per seguire Cece che era tornata a sedersi al tavolo in gran fretta.
Mollai il ragazzino e le sue ridicole occhiatine goffe da tentativo di flirt cinematografico e mi fiondai verso la mia amica, seguita a ruota dal compagno di ballo che lei aveva abbandonato al centro della sala.
Celeste fece finta di niente, rivolse un sorriso stirato a entrambi e fermò una cameriera per reclamare altro mojito, restituendo il bicchiere di quello appena finito.
Il ragazzo si mostrò piccato dalla sua noncuranza.
«Perché te ne sei andata?» domandò, con tono impertinente.
Lei lo fissò alzando un sopracciglio perplesso «Non ho più voglia di ballare.»
Lui si scolò un po' di sakè direttamente dalla brocca che troneggiava in mezzo al tavolo, ma non doveva essere uno capace di reggere poi tanto bene l'alcol. «Pensavo di piacerti» mugugnò indispettito.
Cece continuò a guardarlo accigliata. Si portò una ciocca bruna dietro al collo e sospirò appena. «Non è questo il punto».
Il ragazzino mi superò con uno scatto veloce, per piombarle addosso e infilarle con estrema irruenza una mano tra le cosce «Voi gaijin dovreste essere un po' più riconoscenti! Venite a casa nostra a fare la bella vita e poi neanche ce la date» strillò, oltraggiato dal non ricevere qualcosa che si aspettava gli spettasse di diritto. «A cosa cazzo servite, allora?»
Celeste si alzò in piedi, fulminea, scaraventandolo su un lato del divano con tutta l'imponenza della sua stazza. Si morse il labbro e fece per rispondere, ma poi scosse la testa e si allontanò rapida, la fronte coperta con una mano tremante.
Io mi voltai verso il ragazzino – trafelato e ancora ululante sull'angolo della panca – e gli piantai un sonoro ceffone in pieno volto. Poi seguii la mia amica che, nel frattempo, si era diretta e spalancare una porta in ferro battuto dietro al palchetto lasciato temporaneamente vuoto dal DJ.
Ci ritrovammo ai margini di un fazzoletto di cortile quadrato circondato da inferriate, il cui solo proposito sembrava ospitare grossi cassonetti dell'immondizia e cicche di sigarette nascoste tra la ghiaia.
Cercai il suo sguardo ma non lo trovai, lo aveva rivolto a un lampione mezzo fulminato che stava ricevendo delle cure tecniche da un operaio sull'altro lato della strada.
«Noi ci sentiamo delle elette a stare in questo posto, ma la verità è che il Giappone è repellente agli stranieri, ai progressi sociali e a tutto quello che minaccia il loro fragilissimo status-quo» esordì, come a svelarmi – sviscerandone la vera essenza – le ragioni più profonde dietro a quanto era appena successo. «Per molte persone può essere un inferno vivere qui».
Con nostro sgomento la porta si riaprì proprio in quel momento, prima che potessi accordare le mie considerazioni, ma Cece accolse la figura che ci venne incontro con un sospiro di sollievo che tranquillizzò anche me.
«Scusali, Shi-chan» sospirò la voce profonda del ragazzo che Cece mi aveva indicato in precedenza come l'unico che conoscesse, tale Yota che faceva l'idol in un trio pop-folk da quando era bambino, «Hanno appena debuttato e si sentono il centro del mondo. Gli passerà!»
Lei tirò su col naso e annuì, senza aggiungere altro. Lui parve sollevato di vederla distendersi, e ne approfittò per tendermi la mano e presentarsi, mentre si ravviava il ciuffo meshato e ondulato artificialmente che aveva avuto l'ardire di oscurare uno dei suoi occhi sottili e penetranti.
«"Shi-chan"?» sdrammatizzai io con un sorriso sorpreso, ponendo l'accento sul nomignolo macabro con cui l'aveva appena chiamata.
Loro scoppiarono a ridere e si lanciarono un'occhiata complice.
«Questa donna potrebbe uccidere la gente con un solo calcio in questo Paese!» mi illustrò il ragazzo, segnando nell'aria – con entrambe le mani – i contorni delle lunghissime gambe di Celeste. Poi allargò le braccia e rincarò: «Oltretutto abita al quarto piano!»*******
Maggio 2017
Tornai a casa a primavera inoltrata, per essere presente alla festa dei sessant'anni di papà.
Il ramo femminile dei miei parenti aveva sempre reazioni eccessive alla vista di Riccardo, ed era subito un turbinio di domande inopportune – "Allora quando vi sposate?", oppure "Bambini in arrivo?" – a cui seguivano le nostre risposte negative e imbarazzate che venivano accolte con disappunto, "Siete una così bella coppia!".
Le pressioni sociali farebbero passare la voglia di metter su famiglia persino ai conigli.
Vero è che la nostra relazione era sempre andata a gonfie vele, ma stavamo insieme solo da poco più di un anno!
Mi estraniai dal question bombing su quanto fosse importante e pericoloso il lavoro di Riccardo e colsi l'occasione per andare a coccolare il mio fratellino, che era rimasto in disparte come suo solito a guardare video su YouTube.
«Che c'è, testolino? Sembri stanco» gli passai un braccio attorno alle spalle e insinuai le dita tra i ciuffetti biondi lasciati più lunghi dietro la nuca.
«Già, sono rimasto solo io ad aiutare il nonno al bar perché Filippo se n'è andato!» sbuffò lui, con gli occhi tristi.
Filippo era un bel ragazzo bruno che aveva preso a lavorare al nostro bar di via Toledo durante l'estate dell'anno prima. Clemente aveva legato molto con lui perché studiava musica ed era un po' nerd.
Mi dispiacque sapere che non lo avrei più incontrato se fossi passata dal locale a trovare il nonno.
La nostalgia per la sua figura snella e scarmigliata, i vestiti oversize che gli pendevano addosso come su di un manichino, le mani agili che scattavano dalla macchinetta dell'espresso ai bicchieri per gli spritz quelle poche volte che non aveva fatto notte in bianco, il suo incespicare nell'inglese mutuato dalle serie TV americane nel servire i turisti... mi attanagliò molto più di quanto mi aspettassi.
«Eh, vabbè!» minimizzai, «Mo nonno troverà qualcun altro per dare una mano.»
Clemente annuì con mestizia, poi sospirò sconfitto: «Alla fine ve ne andate sempre tutti, però».
* Baskin-Robbins è una catena di gelaterie americana, molto diffusa anche in Giappone (personalmente tutti i loro gusti mi sanno di banana, ma vabbé, è gelato americano XD).
** Gli "Idol" asiatici sono professionisti dell'intrattenimento a tutto tondo, spesso addestrati a tale mestiere fin da piccolissimi. Lavorano come modelli, cantanti, musicisti, attori, promoter, presentatori, e sono spesso il volto di grosse campagne anche di temi sociali e di beneficenza.
*** "Gaijin" è la traduzione giapponese di "straniero", parola spesso usata in tono ancora più denigratorio e dispreggiativo che in italiano.
**** Osaka è la seconda città più grande del Giappone, spesso detta la "Napoli" del Sol Levante per ragioni di affinità socioculturale e anche per il netto contrasto di atmosfera con Tokyo (che sarebbe più una "Milano").
***** Roppongi è un quartiere noto per la ricca vita notturna di Tokyo. Si distingue dalle più famose zone di Shinjuku (Nichome e Kabukicho) perché considerata più d'elite, e quindi frequentata da celebrità. Il "Cyberia" non è un club realmente esistente, ma è un locale notturno presente nell'anime sci-fi "Serial Experiment Lain".
****** "Johnny's" è una vera agenzia di idols giapponese, specializzata nel reclutamento di soli uomini.
******* La sillaba "Shi" ha la stessa pronuncia della lettera C (iniziale di Celeste) come pure è traduzione giapponese del numero 4, ma anche l'ideogramma di "morte" ha la stessa pronuncia. Per questo motivo il numero 4 in Asia è considerato un numero portatore di sventure e viene letteralmente evitato in molte occasioni (anche nella numerazione dei piani di un palazzo negli ascensori!)
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