35. L'ultima battaglia

Una lama le sfiorò il braccio e Myrindar gridò. Conficcò la propria spada tra le piastre dell'armatura del soldato che le stava di fronte e si volse per affrontare la nuova minaccia.

Era circondata.

Le bianche strade della Capitale pullulavano di nemici ed erano rosse di sangue, e presto anche il suo si sarebbe aggiunto. Strinse i denti e scagliò una scarica di saette tutto intorno a lei, abbattendo gli imperiali rimasti.

Non sarebbe stato così facile ucciderla, si disse.

Se solo Jahrien fosse stato con lei... purtroppo i loro compiti li avevano divisi. Il Cavaliere guidava un'incursione verso il palazzo di Uthrag, mentre lei doveva trovare suo fratello. Era l'unica che potesse contrastarlo, aveva detto Alshain, ma lei aveva un altro piano.

«Soldati» gridò, senza fiato. «Con me!» Sollevò la spada in aria e scattò di corsa attraverso il viale ingombro di cadaveri.

Non aveva idea di dove avrebbe trovato Layrath, così, per il momento, si era unita alle squadre che battevano le strade palmo a palmo, cercando di conquistare Sham una strada alla volta.

Si inerpicò sull'ampia scalinata di marmo, aggrappandosi al corrimano. Era già stremata e la sua vera battaglia doveva ancora cominciare.

Non dovrei usare la magia così spesso, si disse.

I suoi uomini la superarono di corsa. Chissà cosa pensavano di essere comandati da una donna, che per di più aveva il fiato corto a nemmeno un'ora dall'inizio dei combattimenti. Prese un respiro profondo e li raggiunse, celando la fatica.

La piazza su cui si affacciavano era ampia e, stranamente, deserta. Al centro, una fontana schioccava piano sul sottofondo di grida e clangori proveniente dai combattimenti in tutta la Capitale. L'unica altra uscita della piazza era un'altra scalinata, nella direzione opposta a quella da cui erano arrivati, oltre la quale si vedeva, in lontananza, la cittadella, con le torce e i fuochi della pece che baluginavano tra i merli delle torri.

«Andiamo, finché la via è libera» disse Myrindar, indicando l'altro lato della piazza. Si mosse per prima e riprese a correre, malgrado l'aria le bruciasse nella gola e nei polmoni.

Oltrepassò la fontana e si rese conto che sul primo gradino della scala c'era qualcuno. Myrindar si bloccò sul posto e sollevò la mano, intimando l'alt.

Nell'oscurità vedeva solo la sagoma, ma l'avrebbe riconosciuto tra mille. Indossava l'armatura completa sul corpo esile, aveva tolto l'elmo e lo teneva in una mano, e i ricci scivolavano sulle sue spalle.

«Layrath. Ti cercavo» disse lei. Il giovane non diede segno di averla sentita.

Myrindar si fece avanti, fino ad arrivare a qualche metro da lui.

«E io cercavo te, Odahir.» La sua voce la fece sussultare.

Il guerriero si voltò e Myrindar percepì i suoi occhi scorrere su di lei, nonostante il buio li celasse. La ragazza si volse appena verso i suoi soldati, che ancora aspettavano circospetti un suo ordine.

«Lasciateci. Tornate alla battaglia; Valtan, sei tu al comando, ora.»

«Ma, capitano» protestò il suo secondo, «gli ordini del generale...»

«Mi assumerò la responsabilità. Andate dove c'è più bisogno di voi, ora.»

«Sissignore» rispose Valtan, contrariato. La giovane udì i loro passi allontanarsi e sfumare nella distanza.

«Curioso» commentò Layrath a mezza voce. Myrindar si strinse nelle spalle.

«Tu sei solo. Affrontarti insieme a loro non sarebbe stato... leale» disse.

Layrath sbuffò. «Come se potessero essere una minaccia» replicò. «Chi ti dice che non nasconda un'intera divisione nei vicoli qui intorno, pronta a balzare fuori e ucciderti?»

«Mi hai lasciata vivere ad Antya solo perché secondo te non stavamo combattendo alla pari e non hai sfruttato la mia assenza nelle settimane successive per decimare il mio esercito» disse la ragazza.

Layrath inclinò la testa di lato. «Hai ragione» capitolò. «Ma siamo pur sempre nemici. Sono qui per ucciderti, in fondo.»

«Io sono qui per parlare, invece» ribatté lei, dura. «Il generale vorrebbe che ti piantassi la spada nel cuore, a dire la verità, ma non ho intenzione di farlo.»

«Be'» il giovane scrollò le spalle, «così renderai più facile per me piantarti la spada nel cuore.»

La sua voce, ora, era un ringhio, eppure alla ragazza parve che stesse cercando di convincere se stesso, più che spaventare lei. E il suo spadone era ancora nel fodero.

«Avresti potuto farlo già diverse volte. Confido che tu abbia la pazienza di sentire almeno cos'ho da dire.»

Il guerriero rise. «Non ti conviene sfidarmi a ucciderti di continuo, Myrindar» disse, aspro, «o potrei perderla, la pazienza.»

«Perché deve andare così?» sospirò la ragazza. «Siamo fratelli, Layrath. È stato solo un caso a separarci.»

«Bah. Fratelli.» Volse il viso verso il cielo, con le labbra tese in una smorfia. «Saremo anche nati dallo stesso ventre, ma non c'è alcun legame tra noi oltre a quello che ci porta a combattere, oggi. Non può esserci null'altro.»

«Perché?» quasi gridò Myrindar. Più passava il tempo, più sentiva la speranza che l'aveva condotta lì scivolarle dalle mani. «Perché un Sacerdote dei Demoni ti ha fatto un giuramento che non potrà mai mantenere? I Demoni sono il male, per gli dei! Credi che un loro emissario si farebbe problemi a usare uno come te? Uno come noi

La risata del ragazzo, stavolta, fendette l'aria come una lama. «I Demoni sono il male? Ti svelerò un segreto, sorella. È facile scrivere la storia, quando si è i vincitori. Non mi sembra che le tue Fate siano state tanto più buone e misericordiose.»

«Tu non hai vissuto per un mese con gli Elythra!»

«E tu non hai vissuto una vita con Tyris» ribatté. «Tu non sai nulla di me. Nulla. E ora credo proprio che abbiamo parlato abbastanza.» Senza darle il tempo di replicare, sfoderò lo spadone e si lanciò contro di lei.

***

Nel settore sud le cose non stavano andando affatto bene, ragionò Alshain. La carica si era arrestata quasi subito, appena oltre la prima cerchia di mura e sembrava incapace di sbloccare la situazione.

Il generale strinse i pugni. Dal padiglione di comando in cima all'altura aveva una visuale completa dello scontro, vedeva le fiamme divampare dai fuochi dei difensori e le torce dei suoi uomini riflettersi sullo specchio quieto del Lago Inferiore. E non gli piaceva quello che stava osservando.

Affatto.

Era prevedibile che le forze difensive si concentrassero verso sud, visto che la loro avanzata era giunta da nord-ovest, e Uthrag ormai conosceva fin troppo le sue strategie. Aveva avuto il presentimento che l'effetto non sarebbe stato quello che lui si aspettava, ma aveva ignorato l'intuizione e ora se ne stava pentendo.

Mugugnò un'imprecazione e spostò il cannocchiale verso i settori nord e ovest. A nord la divisione di Cavalieri Erranti, mercenari e maghi elfi era penetrata fin quasi alla cerchia della cittadella e la fanteria pesante yndirana si stava allargando a raggiera per le strade; mentre a ovest l'ultimo terzo dell'Esercito Libero, dei Cavalieri e della fanteria elfica stava guadagnando terreno, ma non velocemente come sperava.

E, soprattutto, non vedeva da nessuna parte i lampi viola di Aleestrya. Che Layrath non fosse ancora sceso in campo? Gli pareva improbabile.

L'Ynahar non gli avrebbe permesso di lasciare Myrindar viva ancora una volta.

Alshain tornò a osservare la divisione capitanata da Bessar, a sud. In quel momento un'esplosione fiammeggiò bianca e il tuono giunse ovattato al suo orecchio con un istante di ritardo. Il generale non avrebbe saputo dire se fosse stata una delle trappole di Uthrag o i marchingegni diabolici dei Selvaggi, assegnati al settore sud; ma a giudicare da come la divisione si spezzò nel caos concluse che doveva essere la prima ipotesi.

Strinse la presa sul cannocchiale, inveendo.

«Non sta andando bene» disse Tarazed alla sua destra.

Alshain gli passò il cannocchiale e si massaggiò la fronte.

«Siamo troppo pochi, ecco il problema. Li superiamo di appena un terzo e Uthrag ha avuto tutto il tempo necessario per preparare questa dannata battaglia. Ha il vantaggio del terreno. Ho sopravvalutato le mie conoscenze della città.»

Un dolore pulsante aveva cominciato a battere contro la sua scatola cranica. Erano almeno due settimane che non dormiva più di due o tre ore al giorno e non era più così giovane.

Strinse i pugni, in preda alla frustrazione.

«Non è Uthrag a tenere i fili, lo sai» ribatté l'amico di vecchia data, brusco. Alshain volse lo sguardo verso di lui, concentrato sul combattimento in corso oltre la lente.

«Non cambia. Uthrag non è uno stupido.»

Vorrei che lo fosse, pensò.

«Se fosse il settore ovest ad aver raggiunto la cittadella potremmo trasferire almeno un decimo delle forze al settore sud» rifletté Tarazed, «ma la divisione a nord è troppo lontana per essere efficace.»

Il Cavaliere aveva espresso i suoi stessi pensieri.

«Se spostiamo parte delle forze dal settore nord potrebbero non arrivare in tempo per essere d'aiuto, o essere decimate durante il tratto, e rischieremmo anche di perdere l'occasione di incunearci nella cittadella» rispose, e Tarazed annuì.

«Non eravamo pronti per questa battaglia» mormorò, rendendogli il cannocchiale. L'unico occhio luccicava. «Tyris non è sceso in campo, ancora» aggiunse.

Alshain si strinse nelle spalle. «Pare di no.»

«Te ne accorgeresti, se l'avesse fatto. Non penso manchi molto, ormai; dubito che accetterà di essere minacciato così da vicino senza fare nulla.»

«Lo conosci molto bene» commentò Alshain. Riprese a osservare il campo solo per vedere una delle unità di fanteria della divisione nord saltare in aria per una trappola.

«Se così si può dire» rispose Tarazed, tagliente. Alshain aggrottò la fronte.

«Cos'è, un altro dei tuoi dannati segreti?»

«Piuttosto una parte di passato che preferirei dimenticare» replicò con un sospiro. «Era un apprendista Cavaliere come me. Uno dei migliori, ma non gli è mai bastato. Nessuno si è mai reso conto di che cosa nascondesse finché non fu troppo tardi. La notte prima dell'investitura sparì nel nulla.»

Nel frattempo, il settore ovest aveva perso terreno. Il generale mugugnò tra sé.

«Non è tutto qui, però» rispose all'amico.

Poté percepire l'occhiataccia affilata di Tarazed anche senza voltarsi a guardarlo.

«Vuoi proprio farmi rivangare scheletri chiusi a doppia mandata?» borbottò. Alshain non rispose. Il settore ovest aveva ripreso a caricare. Era una dannata belva, quell'Elfa.

«E va bene» aggiunse l'altro. «Era come un fratello, per me. Siamo cresciuti insieme nell'Ordine e quella fatidica notte venne a cercarmi, mi chiese di fuggire con lui. Era davvero convinto che ciò che faceva fosse giusto, che potesse aiutare l'Ordine, ma sapeva che gli alti gradi non avrebbero capito. Nemmeno io capii; anzi, tentai di fermarlo. Non ho mai capito perché non mi uccise. In compenso, anni dopo si è preso il mio occhio» concluse, aspro.

«Non me l'hai mai detto.»

«Non è mai stato necessario.»

«Nemmeno ora lo sarebbe, a dire la verità» commentò il generale, passando il cannocchiale all'amico. Ora vide chiaramente l'occhiata obliqua, mentre Tarazed gli strappava dalle mani lo strumento d'ottone.

«Sii grato della cosa e chiudiamola qui, va bene?» replicò.

Alshain fece per ribattere, quando un'ombra apparve oltre il crinale della collina, venendo dal lago. Era una delle sentinelle, la riconobbe dalla divisa nera e grigia, e aveva il fiato corto per la corsa e i ricci castani incollati alla fronte dal sudore.

Il generale si fece cupo, ma aspettò che il giovane riprendesse fiato prima di chiedergli chi fosse e che ci facesse lì.

«Sono Dane di Tadun, signore» rispose il soldato, tra un ansito e l'altro. Tese il braccio, indicando verso sud. «Navi in arrivo. Le hanno avvistate le sentinelle sul fiume. Risalgono il Lago Inferiore, e portano l'insegna dell'Esercito Libero.»

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