La mia vita senza nome


La mia vita senza nome

Mi chiamano Samira, ho più o meno tredici anni e non sono una ragazza come tante.

Io e la mia gente siamo ciò che resta dei Nizariti, i fumatori di hashish seguaci di Hasan-i Sabbah, noto anche come il Vecchio della Montagna. La Montagna è ancora oggi la nostra casa, ci accoglie e ci educa facendo di noi quello che siamo. È il centro delle nostre esistenze. Siamo emanazioni della sua volontà, esecutori implacabili dei suoi mandati.

I nostri amici, gli alleati che sono da sempre al nostro fianco, preferiscono identificarci con il luogo da cui proveniamo, e ci chiamano "agenti della Montagna", quasi avessero pudore di dichiarare ad alta voce il nostro vero nome. Perché noi siamo la Setta del Veglio, e "assassino" è una parola che non piace a nessuno.

Io non sono pura, è un attributo che spetta solo ai nativi, e non sono neppure un'ospite, perché dovrei conoscere il nome di mia madre e invece non lo so. Sono una senza nome, un'orfana figlia di nessuno.

Ho passato i primi anni della mia vita in una casa per bambini di Shiraz, un inferno in terra come non ne ho più visti. Non so chi mi abbia abbandonata lì, ma è qualcuno che non potrò mai perdonare. La mia vita di prima vorrei dimenticarla, perché è stata un'esistenza miserevole, scandita da privazioni e menzogne.

Sono stata picchiata perché avevo fame e non sapevo nasconderlo, ma ho smesso di piangere nell'istante in cui ho capito che non importava a nessuno.

Non conosco di preciso la mia età, ma so che sono rimasta nella casa dei bambini per quattro anni, undici mesi e sette giorni, vale a dire fino al momento in cui ho deciso che sarei morta piuttosto che restare un minuto di più.

La notte che sono scappata poteva davvero essere l'ultima della mia vita.

Altri avevano tentato la fuga, ma senza fortuna. Li riprendevano tutti e li riportavano all'inferno, in un modo o nell'altro. Quattro bambini fuggirono con me. Non ne ricordo i volti né il suono della voce, ma sento ancora il rumore dei passi che inciampano sul selciato e riempiono il silenzio della notte.

Il rumore dei loro passi, non dei miei. Perché, a differenza degli altri fuggiaschi, sapevo correre sfiorando appena il terreno, sapevo scivolare nelle ombre e sparire nel loro abbraccio, sapevo diventare invisibile come uno spettro.

La nostra fuga durò un'infinità, mi sembra di aver corso per settimane, giorni, di averlo fatto per anni, secoli, millenni. E ancora mi sveglio, in piena notte, convinta di essere lì, con il respiro spezzato dalla paura, a cercare chissà dove la forza per non fermarmi. Nel mio cuore la fuga non finirà mai.

I miei compagni furono presi molto presto. I nostri guardiani scoprirono che eravamo scappati e si misero sulle nostre tracce; dovevano lavare subito l'affronto di una ribellione che sarebbe stata come fuoco tra l'erba secca.

Il primo a cadere fu il più grande di noi. Aveva una malformazione all'anca e sapevamo che non ce l'avrebbe fatta. Anche lui ne era consapevole, ma la ragione dei disperati è come quella dei folli: ha regole proprie e si alimenta di idiozia, o di speranza, che per alcuni versi sono la stessa cosa. Sentii le grida del secondo e del terzo fuggiasco che si confondevano con il latrare dei cani. L'urlo dell'ultimo mi gelò il sangue nelle vene. Dovevano averlo azzannato. Sapevo che dopo sarebbe toccato a me, a meno che non fossi riuscita a sparire. Mi arrampicai su per una grondaia e continuai la mia fuga attraverso i tetti. Ricordo che considerai di nascondermi al bazar, ma che alla fine decisi di correre verso i giardini di Narenjeistan.

Cambiando direzione potevo confondere i miei inseguitori, anche se i loro segugi erano più difficili da ingannare, perché non potevo liberarmi del mio odore. E così cominciai a togliermi i vestiti e a lanciarli dai tetti, a mano a mano che mi avvicinavo alla meta. Se avessi potuto strapparmi la pelle, l'avrei fatto. Quando arrivai al Bagh-e Eram, avevo bisogno di vestiti nuovi. Mi arrampicai sulla terrazza del primo piano, poi scesi al piano terra. Riuscii a trovare una camicia e la infilai. Era di una lunghezza pericolosa, perché sfiorava terra e mi copriva i piedi, rischiando di farmi inciampare a ogni passo. Uscii dal retro.

Quando quella mattina il sole mi salutò, sorgendo sul mausoleo di Shagh-e Cheragh, non riuscii neppure a sorridere. Ero fuggita da un inferno che conoscevo, ma non sapevo quale inferno avrei scoperto.

Nei giorni seguenti ne ebbi un assaggio.

Vivevo di furti. Rubavo sempre in posti diversi, per evitare problemi, e dormivo dove capitava. Ero cauta e, all'occorrenza, veloce; sapevo rimandare i miei bisogni e ridimensionare le esigenze.

Evitavo, per quel che potevo, di attirare l'attenzione, perché sapevo che mi stavano cercando e che non mi volevano lasciare andare; se uno ce la faceva, la speranza degli altri sarebbe rimasta accesa.

In ogni caso non mi trovarono mai. Forse perché ero davvero brava, o forse perché i Cercatori della Montagna Verde mi stanarono per primi, mostrandosi più abili di me, che scappavo, e dei guardiani, che mi davano la caccia. Allora non lo sapevo, ma gli orfanatrofi sono sempre stati tra i luoghi preferiti dai Cercatori. Posti senza speranza dove la gente come me ha poche scelte: o aspetta di spegnersi, o si crea un'occasione per evitarlo.

La mia fuga e il fatto che riuscissi a non farmi trovare avevano suscitato il loro interesse. E quando decisero di mettersi sulle mie tracce, diedi loro del filo da torcere. Non sono mai stata una persona facile da raggirare, e per settimane evitai i loro tranelli. Alla fine mi presero per fame.

Ero al bazar e avevo lo stomaco così vuoto che avrebbe mangiato se stesso. Quando vidi un banco di frutta incustodito non mi fermai a pensare a quanto quella circostanza fosse strana, o forse lo feci, ma la fame vinse su ogni altra considerazione. Mi avvicinai e afferrai una mela. Un attimo dopo qualcuno stringeva il mio polso. Non alzai neppure lo sguardo. Gli sferrai un calcio alla gamba così forte da farmi male e, come un cane furioso, azzannai la mano che teneva la mia. Tanto bastò per essere di nuovo libera. C'era una gran folla, e il terrore di essere presa mi metteva le ali ai piedi. Correvo tra i banchi, cambiavo direzione, trascinavo nella mia corsa ogni cosa potesse ostacolare i miei inseguitori, ma erano ovunque e sbucavano da ogni angolo, come artigli in un roveto. Alla fine fui colpita alla nuca da un colpo di chakram che mi stordì. Mi presero e mi trascinarono in un retrobottega. La prima volta che vidi Bashir El Farenz aveva più o meno l'età che ho adesso. Era alto, lo è sempre stato, ed era serio: un'espressione che conferiva un'autorevolezza adulta al suo sguardo severo. Si rivolse a me come se fossi un ragazzo. La cosa, non so perché, mi indispettì. Morsicai anche lui. Lo azzannai al polso così forte che ebbi la sensazione di poter trapassare la pelle, di affondare i denti nella carne. Si liberò con l'aiuto degli altri e mi ritrovai scaraventata per terra. Quando sollevai la testa ci scambiammo lo sguardo più lungo che avessi mai condiviso con un essere umano più grande di me. Il mio cuore si era fermato in attesa della punizione, ma lui mi tese la mano. La stessa che avevo morso.

«Alzati in piedi» mi disse.

Osservai quell'offerta, aspettava la mia mano. Così come il mio cuore aspettava di essere ingannato dalle sue parole. Nessuno mi aveva mai aiutata, non mi sfiorava il sospetto che le cose potessero cambiare. E così rifiutai il suo invito. Mi rialzai da sola. Quella fu la prima volta che vidi lo stupore balenare oltre i suoi occhi neri. Ciò che accadde dopo è la mia storia. 

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