9.
La notte le sembrò interminabile. Rinvenuta, il panico e confusione le avevano fatto compagnia per gran parte della conversazione con Amira. Fissava la parete grigiastra di fronte a lei, mentre ascoltava il respiro regolare della compagna permettendoli di cullare i suoi pensieri lenti.
Rimbalzavano senza sosta: da congetture sul perché la donna si trovasse in quella cella, a piani infattibili per far evadere entrambe. Se avesse tentato una fuga in solitaria, forse l'avrebbe scampata. Ma ipotizzava che la donna con lei non fosse allenata. Sarebbe stata un peso morto da trascinarsi appresso. Non poteva, tuttavia, lasciarla sola.
Si sentiva tra l'incudine e il martello.
Seppur tentasse di concentrarsi su un modo per andarsene la sua mente tornava al mistero più grande, trovare una spiegazione alle sparizioni delle donne e perché sul suo manifesto da ricercata venisse accusata di rapimento.
Amira poggiò la testa sulla spalla. Le ciglia lunghe nere le adornavano le palpebre chiuse. Semi sdraiate nella sporcizia umidiccia, Nayla si domandò come sarebbe stato avere un'amica con cui spartirsi il peso della vita nei bassifondi. Le era inconcepibile che bastasse trovarsi in una situazione simile per percepire un legame. Un sottile filo che le legava nell'isolamento di quella prigione ripugnante.
Aveva evitato di stringere relazioni profonde per tutta la vita e ora quella bastarda gliene proponeva una su un piatto d'argento. Una che, era certa, non sarebbe mai potuta fiorire al di fuori di quelle sbarre.
Cacciò via il groppo che le ostruiva la gola concentrandosi su qualcosa che le sarebbe stato più facile gestire. Gli ingranaggi orientati alle sue lucubrazioni si ridestarono arrugginiti. Seppur non avesse ogni indizio necessario mise insieme una teoria che non le piacque per niente.
Sapeva ciò che le aveva detto Amira: altre donne erano già state lì. Sapeva, inoltre, che lei stessa veniva accusata delle loro sparizioni o, meglio, rapimenti. Il perché era tutto da verificare, ma certamente lo scopo doveva essere un qualche incarico per cui non era possibile sacrificare degli uomini.
Avere appreso di come nessuna donna fosse tornata e presupponendo che non le avessero liberate, non era incauto ipotizzare che la scelta di servirsi di donne fosse per non decimare la fetta maschile del popolo.
Le sudavano le mani e la vista le si fece sempre più appannata. I vestiti sgualciti la infastidivano. I lacci che aveva messo alle caviglie per renderli più stretti si erano allentati sulla gamba sinistra e spariti sulla destra. Quest'ultima presentava un lungo strappo, partiva dall'orlo fino a raggiungerle la coscia, che notò essere coperta di graffi.
Tralasciando il sonnellino fatto a causa della perdita dei sensi, non dormiva da tantissime ore e non mangiava da ancora prima. Debole e assetata buttò all'indietro la testa.
Sola e in lotta contro tutti quei pensieri si convinse di essere il capro espiatorio ideale per qualcosa di molto più grosso di lei. Quale migliore occasione di addossare la colpa di un crimine osceno a qualcuno che aveva dato spettacolo in città solo quattro giorni prima. Poteva immaginare tutti i pettegolezzi che già circolavano sul suo conto: lei che rubava solo per necessità, ora era divenuta anche un mostro nascosto nell'ombra che rapiva giovani donne indifese. Per farci cosa era un mistero, ma la fantasia dei pettegoli era un'arma micidiale.
Si passò una mano sul collo trasalendo quando sfiorò il punto in cui Belloccio l'aveva colpita. Il collo doveva essere di un colorito violaceo sentito il continuo pulsare del muscolo. Rimpianse il suo unguento, sarebbe stato ottimo contro un livido come quello.
Esalò un lungo sospiro. Non sapeva esattamente come sentirsi: impaurita? Lusingata? Furente? Amareggiata? Impotente?
Realizzò che, a parte qualche pettegolezzo, nessuno aveva dato la notizia delle sparizioni. Nessuno aveva messo in atto azioni volte al ritrovamento delle donne, altrimenti tutti ne avrebbero parlato con più insistenza rendendo la notizia una vera e propria caccia al colpevole.
Un enorme insabbiamento, di quello si trattava. Dopo l'ennesima vittima era stato impossibile non notare l'assenza di un numero crescente di donne. Una poteva essersi allontanata di sua spontanea volontà, due erano una coincidenza. Tre un indizio, e quattro, con lei, un crimine seriale.
L'unico colpevole possibile doveva essere, perciò, qualcuno che rivestiva un'alta carica a palazzo. Solo una persona di potere poteva essere così priva di rimorso da catturare donne, farle sparire e dare la colpa a qualcuno che non c'entrava nulla.
Che ci fosse proprio Belloccio dietro a tutto il complotto? La sua astuzia poteva dargli la reputazione giusta. Ma che motivazione avrebbe potuto avere?
Scartò subito l'idea. La sua posizione nella Guardia Sultanesca non era gerarchicamente in alto perché avesse le risorse per macchinare un piano di quel tipo a prescindere dal movente. Probabilmente era anche lui una pedina in un intrigo più grande.
Nayla avrebbe voluto appurare se ne fosse, però, a conoscenza o se era anche lui all'oscuro di tutto. In fondo era stato proprio lui ha trasportarla nelle prigioni. Se lo ripeté: una contraddizione con i piedi.
Ne era assolutamente certa. Aveva impressa a fuoco la sensazione delle sue mani prive di imperfezioni che la tenevano salda per le spalle in quel vicolo di Midabd. Le stesse mani che le avevano adagiato la testa contro il suo petto o le stesse che l'avevano depositata in quell'inferno.
Le sembrò di sentire il suo profumo di incenso e oli ancora intorno a sé.
Un momento prima permetteva a uno dei suoi compari di tirarle un pugno alla stomaco, l'attimo dopo dava ordine di non ucciderla; un istante prima la colpiva facendole perdere i sensi, un minuto dopo la raccoglieva con estrema cura da terra.
Una contraddizione con i piedi.
Scosse con forza il capo lasciando che i capelli le ricadessero flosci sulle guance. Amira si ridestò appena mugugnando a quell'improvviso movimento convulso. Nayla si irrigidì, non voleva in alcun modo disturbare il suo riposo. Doveva ricaricarsi di forze per il bambino che portava in grembo.
Deglutì forzatamente l'ennesimo groppo di saliva che le si era formato in bocca. Allontanò in un angolino della sua mente il ricordo di come l'avesse fatta sentire il calore del suo corpo scolpito. Non avrebbe mai dato voce a quelle sensazioni, nemmeno sotto tortura.
Doveva concentrarsi su quello che doveva fare, non ciò che ormai era già stato fatto. Concentrò l'attenzione sulla respirazione. Inspira, trattieni, espira. Di nuovo. Respirare con il diaframma e non solo con i polmoni le concesse di ritrovare il suo centro.
Imprigionata in quella gabbia claustrofobica di insicurezze, un'unica cosa era in grado di fare: riappropriarsi del controllo. Se non dalla situazione, almeno del controllo su sé stessa. Aveva bisogno di trovare il carburante adatto a proseguire.
Rabbia e altre emozioni la rimescolavano dall'interno sfinendola, ma la resero anche concentrata. Per il momento non avrebbe attuato nessun folle tentativo di evasione, ma appena il momento si fosse presentato...
Guardò, infine, Amira. Sonnecchiava di nuovo beata poggiata a lei. Avrebbe preso esempio.
Si sarebbe sistemata, avrebbe poggiato la testa su quella della donna e si sarebbe lasciata cullare per qualche minuto dall'oblio. Chiuse solo per un misero istante gli occhi arrossati.
Balzò in piedi allo stridio delle sbarre che si spalancavano frastornandola. Lo strappo nel tessuto dei pantaloni si allargò.
Eretta davanti ad Amira, come uno scudo, vide un gruppo di figure indistinte introdursi nella minuscola cella come uragani fuori controllo. Troppo stretta per tutte quelle persone.
Tutto intorno a loro divenne disordine. I prigionieri vicini si dilettarono in fanfare di grida indistinte. Alcune lampade si spensero per i repentini movimenti d'aria dei soldati. Immersi ancora di più nell'oscurità Nayla non avrebbe saputo conteggiare contro quanti uomini si stesse mettendo.
Amira, ormai sveglia, urlò con tutto il fiato che aveva in gola per la perdita d'appoggio stordendo tutti i presenti. Il grido stridulo partì dal fondo della sua gola come il verso di un rapace. Si accasciò a terra.
«Stai dietro di me» le ordinò Nayla senza nemmeno guardarla. Allargando le braccia, nel tentativo di nasconderla.
In posizione di difesa tastava il terreno con le suole lisce dei mocassini, dalla punta tonda, ormai defunti. Li aveva rubati poche settimana prima, aveva sperato le durassero di più.
Frapporsi fra la donna e le guardie era di certo una delle idee peggiori che avesse mai preso in vita sua. Non poteva permettere che le facessero del male.
Amira si posizionò eretta alle sue spalle. Le piantò le unghie nei fianchi quando anche lei razionalizzò contro chi si stava opponendo.
Successe di nuovo. Il tempo, ai suoi occhi, iniziò a scorrere più lentamente. Un omone, dalle spalle larghe quanto un baule, tentò di sollevarle entrambe. Non c'erano dubbi avesse la prestanza per poterlo fare. Nayla scartò di lato, trascinando con sé Amira, schivando l'aggressione.
Un uomo con il braccio legato al collo urlava in cagnesco senza prendere parte alla scazzottata. Aveva delle profonde occhiaie. I capelli in disordine gli davano un aria consunta.
«Dovete impedirle di muoversi, idioti».
Che ci provassero. Nayla, sapeva bene di non avere speranze in attacco. Doveva fare in modo di scavalcarli fino all'uscita della cella, trascinare Amira con sé e poi sperare di essere in grado di correre veloce.
Gli uomini seguirono le direttive come brave pecore ammansite. Le furono addosso sbavanti di rabbia. Ghigni perversi si aprirono sui loro visi.
Nayla rotolò verso destra schivando un paio di loro che si erano lanciati sulla pavimentazione tentando di afferrarla per le caviglie.
Si tirò in piedi. C'era troppo poco spazio per mettere in atto qualunque tipo di diversivo. Inoltre, ora si trovava dalla parte opposta ad Amira. La donna indietreggiava lentamente toccando il muro con la schiena, in trappola.
Una sfarfallio colpì lo stomaco di Nayla. Era panico, ma non per lei.
Colse al volo l'opportunità concessale da un altro soldato, più basso del primo. Si tenne salda alla sua spalla, mentre muoveva le gambe in grandi falcate sulla parete verticale alle sua destra. Il pantaloni strappati si aprirono imitando il battito d'ali di una farfalla. Oltrepassò un paio di teste, colpendone una con un ginocchio, atterrando di fronte alla ragazza.
Appena i piedi toccarono terra una testa di ricci le si piazzò alle spalle afferrandola per i gomiti e tirando in modo che questi quasi si toccavano all'altezza delle scapole.
«Mi ricordo di te...» gli disse sardonica «sei quello che giocava con la mia biancheria».
Nayla avrebbe giurato di vederlo sbiancare con la coda dell'occhio. Tentò una testata all'indietro, ma era preparato. Di Belloccio non c'era traccia, ma l'aveva istruito bene oppure aveva imparato qualcosa dopo l'ultima volta.
Urla, schiamazzi, insulti. Nayla tentava di divincolarsi, strattonando le spalle, ma la forza le veniva meno ogni volta che Ricciolino la spingeva nella direzione opposta a quella in cui voleva andare. La schiacciò al muro. Con tutto il suo peso, la pietra frastagliata le graffiava la guancia facendole digrignare i denti. Un altro "trofeo" da aggiungere alla sua collezione. Grugnì.
Da quella posizione non poteva vedere Amira, ma la sentiva chiamare il suo nome. La sentiva chiedere aiuto. Ogni respiro spezzato era una stilettata al petto.
Intravide qualcuno uscire dalla cella con la donna su una spalla. Un sacco di patate avrebbe ricevuto un trattamento migliore, si disse. La sottana si muoveva a ogni movimento delle gambe a penzoloni.
«È incinta, bastardi» ruggì Nayla. Non sortì alcun effetto. Nessuno l'avrebbe ascoltata mentre opponeva resistenza a quell'ennesimo sequestro.
Adombrata dalla fiacchezza, tentò di usare la testa, ma i pensieri iniziarono a essere lenti e il fiato veloce. Non voleva che portassero via Amira. Non voleva portassero via lei e il suo bambino.
«No, vi prego» quest'ultima gridò in lontananza. L'eco del suo terrore era peggio della fame percepiva costantemente.
Nayla riuscì a intravederla, mentre i sensi l'abbandonavano. Stava per svenire.
L'accettazione pacifica che le aveva scorto appena conosciute una maschera che non riusciva più ad indossare. Le braccia teste verso di lei chiedevano soccorso. Un aiuto che Nayla, si rese conto, non era in grado di darle. Il senso di colpa le si sedimentò nella bocca dello stomaco facendole tremare le ginocchia.
Disarmata e senza quasi più forze aggiunse anche quello al breve elenco mentale dei rimpianti che si portava appresso come un tascapane fin dalla morte della madre. Limpido come un'alba si ricordò perché non stringeva legami.
«Il capitano verrà a farti visita» disse Ricciolino all'orecchio mentre ancora la schiacciava al muro. Il bisbiglio caldo le fece accapponare la pelle della nuca. Una minaccia velata a quello che sarebbe successo di lì a poco.
«ANDIAMO!» urlò il capitano che ancora se ne stava in disparte. Troppo preoccupato di farsi altre ferite.
Codardo
Nayla venne spinta lontana dall'ingresso. I polmoni si contrassero all'improvviso arrivo di aria. Rimise a fuoco la situazione. Svuotata, si ritrovò a guardare in cagnesco tutti quegli uomini protetti dal loro status di Guardie Sultanesche.
Il clangore delle sbarre in chiusura, la ridestò quel tanto, per farla avvicinare.
«È incinta» guardò negli occhi Ricciolino, ormai, fuori anche lui dalla sua cella. Troppo in collera per non sembrare minacciosa. Il capitano dalla spalla lussata si avvicinò rimanendo comunque a distanza di sicurezza.
«Dovresti pensare per te stessa, puttana» diede particolare enfasi a quel poco lusinghiero appellativo.
«Vieni più vicino, bastardo, così vediamo a chi penserò mentre ti rompo anche l'altro braccio». Gli sogghignò maligna sotto il naso. A separarli solo pochi centimetri. Avrebbe voluto saltargli al collo come una bestia con la rabbia. Riuscì a raggiungere il volto del capitano con le unghie. Quattro graffi profondi, ora gli solcavano la guancia sinistra. Le guardie rimaste ad attenderlo sghignazzarono di lui umiliando ancor di più di quanto avesse fatto Nayla.
«ZITTI!» gridò fuori di sé «me la pagherai» concluse, abbassandosi alla sua altezza, in un sussurro profondamente umiliato. Solo lei avrebbe potuto sentirlo.
Non c'era nulla di più pericoloso di un uomo in balia di quei sentimenti. Ferito nell'orgoglio era di certo capace di qualunque cosa. Quella lezione avrebbe dovuto impararla anni prima dopo che aveva umiliato un uomo benestante al mercato.
Sentì l'ultimo grido di aiuto di Amira riverberare per tutta la lunghezza del corridoio. Le frastornò le orecchie, i timpani tremarono provocandole una fitta alla testa.
Non la vide mai più.
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