8.

Nayla passò da stati di incoscienza a stati di veglia come il tremolio di una fiamma colpita dal vento. Venne raccolta da terra da braccia muscolose. Puzza di incenso e oli le invase le narici. Lo stomaco si contorse, avrebbe voluto rimettere.

La testa pulsava e il collo era in fiamme. Anche solo l'atto di mettere insieme un pensiero di senso compiuto le causava dolore. Poteva quasi sentire il sangue che si addensava nel punto in cui era stata colpita formando un livido. Ai polsi percepì chiudersi qualcosa di ruvido: corde. Forse gliele avevano messe anche alle caviglie.

«Ci penso io...». Ricadde nel buio.

Potevano essere trascorsi secondi o ore, aveva le palpebre sigillate fra loro, si affidò agli altri sensi disorientata. Giaceva supina in groppa ad un cavallo. Lo capii dall'odore pungente che la bestia emanava. La criniera le schiaffeggiava la pelle. Rimpianse l'odore dell'incenso. Sulla groppa dell'animale, gli arti oscillavano senza forza mossi dal trottare degli zoccoli. La nausea non fece che aumentare. Si riassopì.

Ingabbiata nella sua mente, l'unica cosa che riusciva a sentire era un dolore cocente alla testa che non faceva che aumentare. Come se si fosse esposta al sole del deserto per giorni interi. Chiacchiericcio, lamentele e bisbigli si susseguivano indistinti anche quando si fermarono.

«Ti ha proprio fatto il culo» disse qualcuno ridendo non troppo velatamente.

«Ma vaffanculo, quella puttana me la pagherà» rispose qualcun altro.

«Contegno, Signori! Dirigetevi dai guaritori!». Due ordini. Una terza voce autoritaria come un temporale in arrivo. Gli altri si zittirono. Le sembrava di galleggiare all'interno di una bolla d'acqua bollente. Leggera e pesante al tempo stesso.

Il profumo d'incenso la circondò nuovamente. Trattenne il fiato per evitare che la nausea crescesse ancora, ma non le dava più allo stomaco. Tutt'altro, le sembrò confortante. La teneva stretta, un braccio dietro la schiena e uno nell'incavo delle ginocchia. Provò ad aprire gli occhi, ma le palpebre non rispondevano ai comandi. Si dimenò quel tanto per venire stretta ancora più saldamente. Nayla voleva vedere, voleva conoscere la situazione. Il suo bisogno di controllo accelerò il disagio pungente che le attanagliava le viscere.

«Shhh...». Un abbraccio solido come acciaio la strinse più deciso. L'ultima volta che qualcuno l'aveva sollevata in quel modo era stata Sela quando la cullava per farla addormentare. Chissà cosa avrebbe pensato sua madre adesso che aveva infranto la sua promessa. Sarebbe stata dispiaciuta? Arrabbiata o, peggio, delusa?

Un continuo sali e scendi le riaccese la nausea. Si trovavano in un luogo coperto, il rumore delle suole ticchettava sul pavimento. Sperò di sobbalzare il meno possibile o altrimenti avrebbe potuto dare di stomaco sul serio. Probabilmente chi la stava trasportando non ne sarebbe stato contento.

La testa le cadde all'indietro. Le venne risollevata e poggiata scrupolosamente su un torace. Il tocco gentile.

Un rumore metallico la riscosse un pochino dall'intorpidimento che le spegneva il cervello. Provò nuovamente ad aprire le palpebre che si schiusero solo di qualche millimetro.

Attorno a lei solo muri in pietra e deboli lampade rischiaravano l'ambiente. Il puzzo di sporcizia e muffa le riecheggiava fino alle meningi. Intravide un susseguirsi di sbarre verticali meticolosamente simmetriche tra loro. Celle.

Il panico la tramortì immediatamente. Avrebbe voluto scappare. Il respiro le accelerò, ma non riusciva a prendere aria. Si sentivano litanie di insulti e urla di preghiera, insieme al pompare del suo cuore diedero vita ad una macabra sinfonia di terrore.

Una cella si aprì. Il clangore sordo del metallo le fece tremare addirittura i denti, regalandole un brivido che le percorse la schiena. Era finita, aveva perso. Non una sfida contro sé stessa, non una sfida con Belloccio, bensì aveva perso la sua vita. O lo avrebbe fatto a breve, già solo la perdita della sua libertà, della sua guadagnata indipendenza, era sinonimo di perdere la sua intera esistenza.

Venne adagiata sul pavimento sudicio e umidiccio. Pregò non fosse il piscio di qualcuno, seppur l'alternativa l'avrebbe sconvolta ancor di più. Le corde a polsi e caviglie le sfregavano sulla pelle arrossandola.

Il profumo d'incenso e oli si allontanò. Il suono della serratura che si chiudeva la annientò definitivamente. Si concesse una sola lacrima.

Spalancò gli occhi. La cella era ancora più piccola di quanto le fosse sembrato quando l'avevano depositata. L'odore di marciume e piscio le riempì le viscere costringendola a vomitare. Il vaso da notte depositato nell'angolo era riempito anche di altro. Vomitò di nuovo.

Si guardò intorno nel tentativo di escogitare qualcosa per uscire da quello spazio immondo. Nemmeno la sua fogna era ridotta a quello stato.

Doveva essere notte perché non sentiva altro che respiri profondi intorno a lei. Si aggrappò alle sbarre, le nocche bianche, scuotendole. Come se solo con i residui della sua forza potesse sradicarle. Il rumore metallico le trafisse il cervello costringendola a stringersi il cranio con entrambe le mani.

«É inutile...». Tra le pareti della prigione il sussurro riecheggiò come un urlo. «Ci ho già provato». Il tono rassegnato le addensò un macigno nel petto. Si voltò. Non era sola in quella cella. Il macigno le schiacciò qualsiasi tipo di speranza.

«Ti consiglio di stare buona e rassegnarti a quello che succederà» continuò. «Non c'è via di fuga». Il consiglio echeggiò fra la roccia e il metallo della cella. La giovane donna era seduta a terra con le ginocchia al petto e le mani in grembo, lo spesso muro in pietra grezza a cui era accostata la rendeva ancora più pallida. Pesanti occhiaie viola le solcavano il viso, i capelli bruni erano un ammasso di nodi scompigliati sulla testa. Se l'avesse vista passeggiare al suk avrebbe pensato che fosse molto attraente, ma guardarla adesso le strinse il cuore.

Per certi versi alcuni tratti del viso, le labbra carnose e gli zigomi alti, le avrebbero potute far scambiare per cugine, se non addirittura sorelle.

Vedersi riflessa in quella donna era un pesante schiaffo di ciò che era. La materializzazione del degrado in cui il suo corpo verteva. Si sedette nell'angolo opposto. Non era più legata, ma la pelle, dove era stata prima la corda le bruciava.

«Tu chi sei?» chiese Nayla dopo qualche minuto di silenzio, troppo stanca per preoccuparsi di non sembrare spaventata.

«Mi chiamo Amira e tu sei?».

«Nayla».

«Bel nome» concluse l'altra. Le rispose con un cenno della testa.

Passarono altri istanti di silenzio. «Sei sicura non ci sia un modo di evadere?» domandò in un bisbiglio.

«Purtroppo si, a meno che tu non sappia fare miracoli». Si strinse nelle spalle. «Se anche riuscissi ad aprire le sbarre, le guardie ti fermerebbero appena varcato l'ingresso».

Silenzio. Amira la sondava dall'altro capo della cella. Probabilmente, come Nayla, stava valutando se potersi fidare della nuova coinquilina. Oppure aveva visto anche lei le somiglianze che le accumunavano.

Con la schiena eretta la vide rassegnata alla situazione, ma regale nel suo sconforto.

Le si avvicinò gattonando. Nayla trattenne il fiato.

«Ascolta...» le disse sedendosi di fianco. «Lo so che sei spaventata, ma devi respirare. Non so perché tu sia qui, non so nemmeno perché ci abbiano portato anche me, ma devi accettare che sia la fine». Fece una pausa. «Per noi hanno in mente qualcosa di diverso, per quanto ne so siamo le uniche donne presenti».

Nella testa di Nayla si affollarono un miliardo di scenari differenti. In uno veniva condannata a morte; in un altro il sultano voleva una nuova concubina; in una altro ancora era il figlio maggiore del sultano che voleva una concubina da rigirare fra le sue mani; in un altro le venivano mozzati i polsi; in un altro ancora veniva abbandonata in mezzo al deserto a morire di sete.

Un altro conato la scosse le viscere. Si protese di nuovo sul già pieno vaso. «Che schifo...» commentò Amira mentre si allungava per tenerle i capelli con le mani.

Nayla tossì. Con voce roca le chiese: «Perché me lo stai dicendo? Come lo sai?».

«La ragazza che è stata rinchiusa qui prima di te mi ha rivolto queste stesse parole che le sono state ripetute da quella che ci si è trovata ancora prima».

Nayla non sapeva come prendere quelle informazioni. Quattro donne, compresa lei erano state rinchiuse lì. La realtà la schiacciò come avrebbe fatto una mandria di cammelli al galoppo. E se non fossero state solo quattro, ma ce ne fossero altre che nessuno ricordava?

«C-cosa vuol dire che hanno in mente qualcosa di diverso?» balbettò incapace di ragionare da sola.

«Non lo so...» sospirò Amira «nessuna è tornata per raccontarlo».

Però qualcosa non tornava. Perché avrebbero dovuto esserci solo due donne in quella prigione? Forse esisteva un altro quadrante nella stessa struttura che era dedicato al genere femminile. Era però impossibile che il sultanato avesse così a cuore l'indennità delle donne da predisporre una prigione per loro soltanto.

L'abbozzo di un'ipotesi incominciò ad addensarsi nella mente annebbiata Nayla. Un'ipotesi che non aveva copro, ma non riusciva a togliersi di dosso la sensazione che la loro presenza lì non fosse nient'altro che una montatura.

«Amira, tu da quanto sei qua?». Gli ingranaggi nel cervello di Nayla iniziarono lentamente a girare.

«Considerando oggi? Un paio di giorni direi. Qui è sempre buio è difficile tenere conto del tempo che passa e il cibo arriva sempre ad orari diversi, quando arriva».

Era certamente mercoledì. Quel giorno lo aveva appurato mischiandosi ai mercanti stranieri. Nayla ipotizzò di non aver dormito più di qualche ora. Se così non fosse stato tuttavia, allora ciò che stava pensando non aveva senso, ma...

«Sai dirmi per quanto sono stata incosciente?» le chiese con voce tremante. Le si seccò la lingua. Immaginò che ci si sentisse in quel modo quando si ingeriva della sabbia. Si passò i palmi umidi sul tessuto sudicio dei pantaloni.

«Non più di qualche ora, credo. Perché?» rispose confusa.

«Amira, mi dispiace davvero molto dovertelo dire, ma credo che tu sia qui da un minimo quattro giorni, non due. Credo tu sia "la terza" ...» terminò quella rivelazione come un pensiero detto ad alta voce.

«E che differenza fa?».

Probabilmente nessuna per lei, ma per Nayla mettere insieme i pezzi di quell'enigma era un modo per prendere le distanze da tutto quello che le era successo, oltre che utile per immaginare i diversi scenari in cui si sarebbe trovata. Parole origliate riaffiorarono dal suo inconscio.

«...sparita...altra» una voce bisbigliò.

«E' la ... mese». Doveva avvicinarsi. Si appiattì al muro ed iniziò a immagazzinare tutte le parole che stavano bisbigliando i due uomini sopra la sua testa.

«La terza, dite?» ma la terza cosa?

Tre giorni prima non aveva capito. Troppo presa dal suo orgoglio ferito non aveva dato peso al discorso fatto dai due uomini, e soprattutto, non aveva ascoltato come avrebbe dovuto. Ma adesso quel barlume d'idea si accendeva come un rogo di sterpi secche. Sperava di sbagliarsi con tutta sé stessa. Tuttavia, Nayla non credeva alle coincidenze e quelle erano un po' troppe per essere un semplice caso.

Ripensò al manifesto da ricercata che avevano affisso per lei. Oltre che per furto, la cercavano anche per rapimento. Era tutta una bugia.

«Nayla, sei svenuta di nuovo?». Amira la strattonò delicatamente per una spalla riscuotendola dallo stato di trance in cui era scivolata mentre il suo cervello metteva insieme le briciole di pane.

«ZITTE STRONZE! STIAMO CERCANDO DI DORMIRE». Una voce maschile echeggiò furente da una delle celle vicine. Nayla sussultò, il flusso di pensieri si interruppe lasciando la sua teoria senza sostanza, come quando hai una parola sulla punta della lingua, ma non riesci a ricordarla. Le mancavano troppe briciole per dedurre un finale.

Amira si zittì. Si guardarono attorno allungando l'orecchio, i respiri attorno a loro tornarono ad essere regolari e profondi. Nessuna guardia fece la sua apparizione.

Nel silenzio assoluto la mano minuta dalla dita affusolate di Amira prese quella di Nayla. Al polso portava una bracciale d'osso perlaceo. Era incrostato di fanghiglia, ma si riusciva a intravederne lucentezza al di sotto della sporcizia. Voluttuosi motivi semplici lo percorrevano per tutta la circonferenza, spirali dorate lo adornavano come tante piccole scritte sulla pagina di un libro.

Nayla ricambiò la stretta con convinzione. Non era avvezza a quel genere di contatto. Quel misero gesto, però, le diede un profondo conforto. Mentre si tenevano per mano, Amira portò l'altra in grembo facendo dei lenti cerchi sulla pancia appena un po' gonfia.

Nayla sbiancò. Non aveva dubbi, ma non voleva crederci. La vita, il destino o chi per loro non poteva essere più crudele.

«Sei incinta» bisbigliò inorridita.

«Quasi quattro mesi». Gi occhi le si riempirono di lacrime. «Sono sicura sarebbe cresciuto forte e coraggioso come il suo papà, ma...» Nayla poté immaginare il non detto: ma non avrebbe mai visto la luce del giorno, non avrebbe mai potuto giocare con la sabbia, con gli altri bambini. Non avrebbe mai potuto conoscere i genitori.

«Ora riposiamo» le propose Amira.

Nayla diede un ultima stretta alla mano di lei. Mai come in quel momento aveva desiderato poter far qualcosa per qualcuno.

Si accomodarono meglio, sempre con le spalle al muro, il più lontano possibile dalla sbarre. Nayla tentò di dormire, ma l'unica cosa che riuscì a fare fu fissare il vuoto, in attesa che qualcosa di terribile avvenisse.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top