7.

Non avrebbe mai lasciato Midabd senza il suo libro di fiabe. Avrebbe potuto abbandonare tutto, ma non quell'unico oggetto. L'urgenza nell'aria non glielo avrebbe permesso, ma l'attaccamento a quelle pagine era più forte del raziocinio.

Le fiabe delle Meraviglie era l'ultimo baluardo che la legava alla sua vita passata. Sarebbe stato come perdere sua madre per la seconda volta. Quando lo leggeva sentiva attorno a lei il riverbero della sua voce. Un'allucinazione confortante. L'eco di loro due insieme sedute a terra, nella catapecchia che chiamavano casa a sfogliare quelle pagine ingiallite.

Proseguì rasente al muro rimanendo il più possibile celata dall'ambiente circostante. Sfruttò ogni angolo oscuro, ogni barile, ogni pila di immondizia accatastata. Cercando un ingresso per i tunnel fognari, fece a pezzi minuscoli i manifesti sfogando sulla carta tutta la sua frustrazione. Ad ogni strappo immaginò di farglieli ingoiare uno ad uno. Così anche lui avrebbe provato la stretta alla gola che stava percependo lei. La claustrofobica mancanza aria, la bocca arida dopo giorni di sete.

Quello stupido, stupido idiota, aveva parlato come era ovvio accadesse. Però il modo in cui l'aveva guardata vergognandosi, il tono sommesso che aveva usato per dire "non ne avevo idea", gli occhi velati dal rimorso, l'avevano resa cieca nei confronti della situazione: lei era la criminale, lui la giustizia. Per quanto contorta la situazione fosse si sentiva tradita. La stupida era lei che aveva provato a dare una lettura diversa alle emozioni che aveva scorto sul suo viso.

Non aveva fatto avvicinare qualcuno per dieci anni e l'unica persona con cui aveva scambiato più di un saluto era la stessa che aveva causato la sua fine.

Con lo slancio della corsa si lasciò cadere a terra scivolando nella prima inferriata che le comparve davanti. La gonna del guarnello si sacrificò per salvaguardare i pantaloni alla turca che portava sotto.

Atterò sulle gambe come avrebbe fatto un gatto. Non perse altro tempo.

Mentre scattava sotto i piedi dei cittadini ignari della sua presenza, riuscì a sentire spezzoni di conversazioni. Un uomo diceva di aver visto la Guardia Sultanesca aggirarsi per la città fin dalle prime luci dell'alba.

Merda

Due donne si stavano raccontando di cosa avrebbero preparato per il pranzo. Un'altra donna piangeva e tra i singhiozzi disse qualcosa sulle sparizioni avvenute nell'ultimo periodo. Un gruppo di persone, dicevano qualcosa a proposito dei furti commessi da una donna. Altri parlottavano, sicuramente di qualcosa di importante, ma non poteva soffermarsi su illazioni vuote, quando c'era in gioco la sua libertà.

Libro. Cavallo. Deserto. Questo l'elenco mentale che recitava tra la tachicardia e il fiatone. Il suo vicolo cieco sembrava lontano anni luce. La gonna strappata le intralciava la corsa. Iniziò a strattonarla ad ogni falcata, strappandola definitivamente dalla parte superiore a sette svolte di distanza dalla sua destinazione. Si assicurò di riporre nel tascapane, anche il borsello che fino a quel momento aveva tenuto vicino al cuore.

Era più lontana di quanto la sua mente avesse calcolato. Grazie al cielo, negli anni precedenti aveva mappato e contrassegnato ogni tunnel, anche quelli che a primo avviso erano sembrati inutili.

Inizialmente, aveva segnato il significato dei simboli in un prontuario che con il trascorrere degli anni era diventato superfluo. Aveva imparato a memoria tutto.

Le ci volle circa mezz'ora di corsa per arrivare all'ultima svolta prima di vedere la luce. Il fiato corto le faceva gonfiare dolorosamente il petto.

Non era la luce in fondo al tunnel di cui metaforicamente si parlava. Si arrestò dietro l'ultimo angolo, il flebile chiarore proiettava ombre sul liscio lastricato delle fogne. Il cuore le trivellava la gabbia toracica come non le succedeva da tempo.

Uno, due...

Cinque. Cinque sagome nere si allungavano tremolanti verso i suoi piedi. Trattenne il fiato, non doveva assolutamente fare alcun tipo di rumore, almeno finché non avesse capito cosa fare.

Che fossero nemici era lapalissiano. Erano nemici che poteva mettere fuori gioco? Erano davvero in cinque? Erano armati? Cosa cazzo stavano facendo alle sue cose? Erano della Guardia o erano altri ladri? Come avevano trovato casa sua?

Tutte queste domande e altre meno chiare pulsavano nella mente di Nayla. Le serviva ossigeno o le sarebbero scoppiati i polmoni. Espirò lentamente e inspirò profondamente. Quel semplice gesto le schiarì un po' le idee. Si tolse il velo dalla testa, un peso in meno da portarsi appresso.

Con la schiena appoggiata alla parete si sfilò la tracolla del tascapane e lo adagiò a terra. Si sporse oltre la spalla per osservare la situazione. Non le sfuggì l'uomo che stava rovistando tra la sua biancheria. Alto, ma non troppo muscoloso. Era il Ricciolino della volta precedente. Una verità opprimente come l'afa di agosto la invase.

Detestò profondamente l'altro che gettava a terra i suoi amati libri. Più basso del primo, tarchiato con spalle larghe. Ma soprattutto non poté evitare di digrignare i denti quando Belloccio, sullo sfondo, iniziò a sfogliare il suo libro di favole vicino al suo giaciglio.

Era lo stesso plotone che l'aveva inseguita al suk.

Se lo rigirò fra le mani studiandolo. La copertina marrone in cuoio lucido rifletteva le fiammelle delle lampade ad olio che avevano acceso. La stessa luce gli metteva in risalto gli zigomi affilati. Tra le sopracciglia gli comparse una ruga. Si strofinò il mento con fare pensoso, l'avambraccio massiccio che si contraeva. Quelle stramaledette sfumature ramate nei capelli neri sembravano ancora più luminose al buio. E il naso! Ora che l'aveva osservato più attentamente si rese conto di non averglielo rotto. Sembrava ancora un pomodoro maturo, ma i lividi sotto gli occhi erano già spariti. Impossibile guarire così in fretta da una frattura. Avrebbe dovuto tirargliela più forte quella testata.

La sua presenza poteva spiegare come avessero trovato quel luogo. L'aveva sottovalutato. Osservando la scena Nayla non riuscì a non notarne l'ironia: il motivo per cui era tornata era tenuto in ostaggio dalla ragione per cui sarebbe stata incastrata.

«NON TOCCATE LA MIA ROBA» urlò puntando l'indice verso di lui.

Le gambe si erano mosse da sole, la voce pure. Oltre che tradita adesso si sentiva anche violata. Vedere qualcun'altro sfogliare quelle pagine la faceva sentire nuda. Quel tomo era qualcosa che rasentava l'intimità per lei. I capelli neri come la pece le ricadevano sul davanti solleticandole le costole.

Tutti puntarono i loro occhi nella sua direzione attratti dal suo tono pregno di rabbia. Nayla iniziò a percepire il tempo scorrere diversamente. Le succedeva spesso quando si ritrovava in balia di emozioni contrastanti. La sua mente spegneva tutte quelle emozioni che l'avrebbero resa debole, si focalizzava solo sull'obiettivo. Qualcosa di glaciale le infiammò le viscere. Sentiva solo il suo cuore pulsare nella giugulare. Esattamente dove avrebbe voluto piantargli le unghie.

A grandi passi raggiunse Ricciolino che si frapponeva fra lei e il destinatario della sua furia.

Aveva dalla sua l'effetto sorpresa e le fattezze minute. Nello spazio ristretto del condotto era la più avvantaggiata nei movimenti. Infatti, riuscì ad assestare un gancio destro alla mascella dell'uomo che barcollò disorientato facendo cadere a terra i suoi vestiti colpendo, poi, la parete alle sue spalle. Prese lo slancio e accelerò il passo.

La rabbia era un ottimo carburante. Non aveva programmato una rissa, ma non si sarebbe tirata indietro se questo avesse significato, anche solo tirargli un'altra testata.

Due guardie presero una posizione d'attacco, una terza estrasse il saif. Ricciolino si massaggiava intontito la mascella. Belloccio non si mosse dal suo posto. Ma per un momento inchiodò i loro sguardi. Un accenno di sorriso che scomparve subito. Sembrava godersi lo spettacolo. Sul momento Nayla si sentì un fenomeno da baraccone presente solo per il suo piacere.

La guardia armata l'assalì da sinistra. Schivò un corto affondo di spada. Le pareti strette non erano adatte per un combattimento armato. Forse se avesse brandito un pugnale quell'attacco avrebbe sortito un qualche effetto. Ma per lei fu solo il trampolino che le permise di scalargli la schiena. Le gambe di Nayla gli avvolsero il groppone come tenaglie, mentre portava il braccio destro attorno al suo collo. «Questo è per i miei libri, stronzo!» fece pressione sul pomo d'Adamo bloccandogli il respiro, tra bicipite e avambraccio, finché non svenne. L'energumeno perse forza prima nelle ginocchia che si piegarono e quando toccarono il suolo emisero un fragoroso crack. Puro godimento uditivo. Come quelle anche il resto di lui finì sul pavimento. Nayla un attimo prima dell'impatto lasciò la presa, scendendo vicino alla lama che aveva lasciato cadere. Si chinò, la raccolse e, senza staccare gli occhi da quelli neri di Belloccio, gliela puntò dritta alla faccia.

«Ho detto di non toccare la mia roba» alzò un po' il mento. Si sentiva potente aveva appena steso due uomini.

«Quale? Quest'accozzaglia di oggetti rubati?» sogghignò guardandosi intorno, rigirando il libro fra le mani.

Non ebbe il tempo di rispondergli. Un terzo uomo emerso dall'oscurità alla sua destra tentò di afferrarla. Era il capitano del gruppetto, quello col vizio di abbaiare ordini e spintonare signore anziane. Nayla gli agguantò il braccio teso con la mano libera. Piegò la schiena all'indietro per passare sotto l'arto, afferrandolo per il polso e torcendogli la spalla all'indietro. Fu talmente rapida che quasi si perse il dolce suono dell'articolazione che si lussava. Spinse l'uomo contro la parete che guaì come un cucciolo spaventato. Picchiò il testone rimanendo spaesato.

Si rigirò asciugandosi con il dorso della mano il sudore. Lo scarso ricambio d'aria aumentava l'umidità. Nayla sentiva la pelle appiccicaticcia. Gocce di sudore le scendevano lungo la schiena facendola rabbrividire.

Si trovava a pochi passi da Belloccio. Lo sguardo attento di lui non la lasciava andare. Si avvicinò furente assaporando il momento in cui gli avrebbe rotto davvero il setto nasale. Il saif sempre stretto nel pugno, ma non voleva usare la lama, voleva il contatto fisico, pelle contro pelle. Un fremito la percosse quando anche lui fece un passo verso di lei. Si guardarono in cagnesco. L'eccitazione cresceva man mano che i centimetri fra loro diminuivano. L'adrenalina la ubriacava. Iniziava ad essere annebbiata. Ancora un secondo e gli avrebbe riversato addosso ogni cosa.

«Bambolina, stai facendo un po' troppi danni» scivolò di lato senza scomporsi. Non vide arrivare il montante che la colpì allo stomaco senza sconti. L'ultima guardia comparì dalle ombre.

L'aria abbandonò i suoi polmoni. Un gemito strozzato le graffiò la gola. Sentì i succhi gastrici farsi strada risalendo. Perse la presa sull'elsa portandosi le mani sul diaframma. Gli occhi alternavano il buio a baluginii.

D'improvviso le braccia le furono allargate e trattenute aperte. Alla sua destra il pugile che aveva tirato il montante, alla sua sinistra la guardia che aveva incassato il pugno alla mascella.

Il capitano con un braccio a penzoloni, raccolse l'arma che aveva fatto cadere e la sollevò sopra la testa di Nayla, visibilmente umiliato. Lei serrò gli occhi. I capelli le ricaddero sul viso nascondendo parzialmente la sua umiliazione.

Aveva già accettato la fine, ancor prima di sferrare il primo attacco. Forse lo aveva fatto addirittura quando si era trovata faccia a terra nella polvere. Una contro cinque non era equo. Non sarebbe sopravvissuta.

«Non uccidetela» intimò Belloccio. La voce bassa, ma perentoria le fece vibrare le ossa. Non aveva senso. Il cuore saltò un battito.

Lui si avvicinò per guardarla più da vicino. Abbastanza vicino da darle la possibilità di ripagarlo con la testata che tanto bramava. Lui la vide arrivare, schivandola prontamente. Quello di Nayla fu un tentativo di riappropriarsi di un briciolo di controllo. Uno strano luccichio gli attraversò gli occhi neri. Sembrava compiaciuto.

«Mi hai fottuto la prima volta, ma la seconda sei prevedibile» la derise.

Nayla tentò di scalciare. Belloccio, allora, sollevò un sopracciglio scettico. Le guardie la sollevarono ulteriormente, i piedi almeno a quindici centimetri dal pavimento. Senza nessun appoggio su cui fare affidamento era solo una mosca intrappolata nella tela di un ragno.

Gli ringhiò in faccia. Intrise il grido di tutte le sensazioni negative che le picconavano il petto. Ira, frustrazione, disagio, umiliazione, rassegnazione, non esisteva una sola parola in grado di descrivere ciò che sentiva nel petto.

Avrebbe voluto sommergerli di parole oscene dimostrando tutto il suo disprezzo per loro, per la situazione, per la sua vita, per lui. Ma non ne aveva.

Belloccio le prese il viso con la mano liscia mettendo in risalto le vene gonfie obbligandola a guardarlo negli occhi. Pollice e indice le stringevano abbastanza le guance da farle schiudere le labbra aride.

«Basta» intimò a pochi millimetri dalla sua bocca umettandosi le labbra.

«Baciami il culo».

«Che Signora...» la colpì appena sotto l'orecchio con il palmo rivolto verso l'alto, le dita strette. Gli occhi le andarono indietro. Le sclere prima lattiche si riempirono di venuzze cremisi. Sentì uno strappo e vide nero.

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