4.
Ritrovatasi nelle fogne, proseguì verso nord, lontana il più possibile dal palazzo imperiale. Sopra la sua testa sentiva ancora il ruggito iracondo della Guardia Sultanesca. Saltellò più veloce che poté riprendendo a respirare solo quando l'unico suono a farle compagnia fu quello della sua zoppia.
Si sedette a lato della galleria poggiando la schiena al muro. Si sentì come a casa. Esalò un lungo respiro e poi iniziò a ridere. Una risata isterica, carica di apprensione. Se qualcuno l'avesse vista in quel momento l'avrebbe creduta pazza. Quella risata conteneva tutto: gioia, panico, sollievo, perfino rabbia. Il modo perfetto per estirpare qualsiasi sentimento ancora le facesse tamburellare il cuore.
«Vinto, vinto, HO VINTO IO» improvvisò un balletto della vittoria con le braccia. La fortuna sfacciata che aveva avuto la mise ancor più di buon umore.
Con le lacrime che ancora le solcavano le guance arrossate si controllò la caviglia: la situazione era peggiore di quanto avesse immaginato. Gonfia e bluastra, le pulsava fino al cervello, martellante. Ma non sembrava rotta. Doveva soltanto tenerla a riposo e, magari sollevata per permettere il deflusso del sangue allentando la pressione.
Aveva notato quella grata, quando il belloccio dai capelli bruno-ramati l'aveva placcata a terra. Mentre le tratteneva la testa al suolo, i suoi pensieri avevano vagato alle sbarre di una cella finché l'allucinazione dovuta al panico non aveva trasmutato in un'inferriata reale e tangibile.
Ci si era lasciata scivolare attraverso certa di essere l'unica a poterla attraversare. Era sbagliato, lo sapeva bene, ma in quel momento non riuscii proprio a non essere grata di poter sentire ogni sua costola del busto. La mano posata sul costato e il brontolio cupo del suo stomaco le ricordò il cibo che la stava aspettando nella borsa.
Dopo tutto quel trambusto, quasi aveva dimenticato che aveva fame e che era riuscita a procurarsi il nutrimento che bramava.
L'odore putrido di quel labirinto di cunicoli le dava la nausea, ma non poteva aspettare oltre per nutrirsi. Doveva recuperare un po' di energie.
Estrasse sei spiedini, e si concesse di odorarli, per far montare l'acquolina. Odoravano ancora di aglio anche se la salsa ormai era scomparsa. Li divorò in pochi minuti. Era famelica da non riuscire nemmeno a gustarne il sapore.
Appena cotti sarebbero stati molto meglio. La carne fredda si era indurita quasi a provocarle un leggero dolore alla dentatura mentre masticava. Ma anche quel cibo aveva vissuto un'avventura, che li aveva privati dei succhi, esattamente come quella giornata l'aveva privata delle ultime energie.
Il cotone della sacca puzzava d'aglio. Si appuntò mentalmente di darle una pulita appena ne avesse avuto la possibilità. Trovare dell'acqua nel deserto non era semplice, ma non impossibile. A Midabd si trovavano diversi fonti di acqua potabile in giro per la città. Erano contingentate per evitare lo spreco, ma ai più erano accessibili, bastava pagare una piccola tassa in monete d'argento. Per quelli che non potevano permetterselo rimaneva l'estrazione dell'acqua di cactus schiacciando la polpa spugnosa.
Estrasse una piccola otre e bevve due grossi sorsi e riprese il suo cammino. La sua giornata non era ancora finita, un'ultima cosa andava fatta.
Prese i bastoncini che prima tenevano insieme la carne, li accomodò intorno alla caviglia gonfia. Strappandosi parte del tessuto della manica intrisa di sangue avvolse il tutto steccandola. Appoggiata alla parete come una stampella riprese il suo cammino.
Sottoterra era molto più difficile orientarsi, ma Nayla ci aveva passato talmente tanto tempo da conoscere quasi meglio quel luogo della città sopra la sua testa. Nel corso di dieci anni aveva perlustrato tutta quella zona sotterranea facendola casa sua. Ogni tunnel era segnato in modo tale che lei non si sarebbe mai potuta perdere. I simboli che aveva lasciato erano piccoli e nascosti, invisibili se non si sapeva dove cercare.
Quel luogo pareva essere una città costruita sotto la città, benché non rispettasse precisamente ogni vicolo di Midabd era più simile di quanto ci si aspettasse. Nayla era convinta che tutti sapessero della sua esistenza, ma pochi morivano dalla voglia di esplorarlo. Le leggende e i miti del continente rendevano gli abitanti particolarmente superstiziosi.
Aveva letto di creatura figlie di demoni, figlie di angeli e anche di entità figlie del fuoco capaci di orribili atrocità, manipolatori di mente e desideri. Non che lei credesse a quelle fantasie, era convinta che fossero storie che venivano raccontate ai bambini per tenerli ubbidienti e remissivi. Anche Sela, quando era bambina, le raccontava di come persone malvagie erano in grado di rituali magici a scopi nefandi. Non si era mai lasciata intimorire: all'età di cinque anni aveva assicurato alla madre che sarebbe stata lei a proteggerle da quelle creature abominevoli.
La luce del giorno iniziava a farsi perpendicolare alle grate disseminate per la città. Il tramonto era vicino, si ritrovò a pensare, mentre svoltava prima a sinistra e poi a destra. Proseguì fino in fondo ed eccolo lo spiraglio che cercava. Da quel piccolo arco nella muratura, a livello della pavimentazione, poté vedere lo stesso bambino che aveva incrociato a mezzogiorno ancora frugare in mezzo al pattume. Si strappò anche l'altra manica e sporgendo le braccia tra le sbarre lo adagiò sul pavimento e ci posizionò sopra i restanti spiedini. Tre per lui e tre per la graziosa sorellina che fece capolino da dietro un barile dismesso.
Batté i palmi sul metallo attirando la loro attenzione. I due bambini si fecero avanti guardinghi. Si fece piccola nel punto cieco in cui la luce non avrebbe potuto illuminarla.
Ma Nayla li vide. Li sentì avvicinarsi, prendere la carne e tra risolini di apprezzamento condividere quel poco di cibo che lei gli aveva portato.
«Grassie...» gracchiò la bambina con la bocca piena, rivolta a... nessuno. Non sapeva dire la z e Nayla si intenerì.
Si sporse un pochino di più per osservarli meglio: due sorrisi colmi di gratitudine si allargarono sulle loro bocche piene di cibo. Osservare la loro delizia, chissà dopo quanti giorni di digiuno, le scaldò il petto. In quel preciso istante sentì fiorire un sorriso genuino anche sul suo viso.
Stabilirsi nel sottosuolo aveva dei vantaggi che, a un occhio attento, controbilanciavano gli svantaggi: potevi muoverti avanti e indietro per la città senza essere vista, di contro la puzza soffocante di immondizia marcia impregnava ogni cosa, capelli e abiti compresi; passeggiare nel sottosuolo era un ottimo allenamento per tutti i sensi – olfatto, vista e udito venivano sforzati per evitare anche solo di inciampare -, di contro le interazioni con i propri simili erano ridotte all'osso.
Per quanto fossero fogne, era utilizzate più come una discarica. Per questo tendeva a utilizzare solo i cunicoli in cui sapeva l'immondizia gettata fosse scarsa. A volte, però, era costretta a prendere percorsi ricchi di pattume nauseabondo.
Soprattutto d'estate quando tutto marciva più velocemente, spesso era stata costretta a rimanere in città.
Era stato in quelle occasioni che Nayla si era concessa brevi interazioni con altre persone, ma dopo essere stata per tanto tempo da sola difficilmente riusciva a bearsi della compagnia di qualcuno o qualcosa che non fosse un buon libro.
Altro pro, bighellonare nella zona sottostante al suk poteva fornire informazioni di ogni genere: sapeva, ad esempio, che la moglie del fornaio, la signora Ghaada aveva avuto una storiella extraconiugale col dottore. Oppure, come il mercante di tessuti avesse ottenuto le sue tele pregiate. Quel dettaglio avrebbe voluto dimenticarlo. Non che le importasse molto, la maggior parte delle volte ciò che ascoltava non era rilevante.
«...sparita...altra» una voce bisbigliò.
«E' la ... mese». Doveva avvicinarsi, quella conversazione si sarebbe rivelata più importante di quanto avrebbe mai potuto immaginare. Si appiattì al muro ed iniziò a immagazzinare tutte le parole che stavano bisbigliando i due uomini sopra la sua testa.
«La terza, dite?» ma la terza cosa? La sete di sapere la conquistò.
«sì sì, l'ho sentito stamani al suk...» gli confermò l'altro.
Non riusciva a vederli in volto, ma per come il suono raggiungeva Nayla, poté dedurre che il primo ad aver parlato era più alto del secondo e probabilmente anche più magro. La voce del primo uomo infatti risultava meno affannata, ma più flebile. «...poco dopo quel catastrofico furto» terminò il secondo uomo.
Parlavano di lei? Del suo lavoro? Nayla si sentì avvampare. Catastrofico un corno. Agitò un pugno verso i due uomini, li maledisse con tutta la forza che le restava.
«Ho sentito dire che si trattava di un ragazzo circa sui 25 anni» continuò l'altro «non credo possa essere altrimenti. La Guardia Sultanesca deve averlo arrestato poco dopo perché non se ne è saputo più nulla».
Serrò i pugni lungo i fianchi. Lei non era un uomo e soprattutto nessuno aveva arrestato nessuno. Il belloccio con gli occhi magnetici forse ci era andato vicino, ma aveva fallito. Aveva vinto lei. Era evidente: lei era lì nascosta, non più in pericolo. In quel momento si chiese, perché gli occhi neri con pagliuzze dorate di quel tipo fossero estremamente attraenti.
«Se non fosse per quelle povere creature, probabilmente tutta la città starebbe ancora parlando degli eventi di stamani...» proseguì l'altro abbassando il tono di voce «non voglio immaginare cosa stiano passando le famiglie». Proseguirono il discorso continuando a enunciare frasi di circostanza condite con il veleno.
«Sicuramente sono state poco attente da attirare interessi scomodi».
Portandosi l'indice e il pollice sul ponte del naso, esasperata, Nayla era sul punto di urlare. Non perché a divorarla fosse la curiosità, bensì il moto di stizza per il modo in cui avevano appellato il suo ingegnoso piano e perché colpevolizzare delle vittime non le sembrava corretto. Anche se era lei la prima a pensare male delle persone che derubava.
Avrebbe voluto emergere dalle ombre e strozzarli fino a far rimangiare loro quelle parole non veritiere. Non aveva carpito il senso vero della discussione dei due pettegoli.
Si mosse in avanti allontanandosi da quella conversazione: la stanchezza ebbe il sopravvento sulla frustrazione. Non poteva ascoltare oltre.
Maledizione!
Rimuginando su quanto sentito, l'orgoglio ferito, il passo stanco e traballante dovette camminare per più di trenta minuti per raggiungere il luogo in cui si era stabilita. In cui aveva creato qualcosa da chiamare casa. Casa. Dopo tutti quegli anni suonava ancora strano chiamarla così.
La caviglia le pulsava ancora, ma il dolore sembrava essersi attenuato. O forse era troppo stanca per percepirlo ancora. Lo stomaco pieno le stava causando un piacevolissimo senso di intorpidimento. Sentirsi sazia era forse una delle poche sensazioni piacevoli che le capitava di provare.
Aveva traslocato nei cunicoli poco dopo la primissima aggressione subita, di cui portava il promemoria sul sopracciglio. Era poco più di una bambina e l'unico luogo che iniziò a darle un senso di sicurezza era l'oscurità. Nel buio nessuno poteva vederti, nel buio era possibile sparire. Se lei non avesse potuto vedere i suoi aggressori, a loro volta quest'ultimi, non avrebbero potuto vedere lei.
Lasciare la catapecchia che aveva condiviso con la madre per tredici anni non era stata una scelta semplice. Sela aveva usufruito di un pagamento che il padre di Nayla le aveva lasciato quando era stato costretto ad abbandonarle. O così le diceva sua madre. Non le piaceva parlare di lui, non le aveva neanche rivelato il suo nome. Nayla non era convinta se per proteggere lui o lei stessa dalla verità.
A qualche mese dal compimento dei quattordici anni, alla ricerca di un luogo che soddisfacesse il suo bisogno di sicurezza, aveva sgraffignato dalla bottega di un cartografo, una mappa risalente a decenni prima di Midabd. Da quella ne aveva scoperto l'esistenza della città sotto la città.
Raggiunta la svolta segnata da un piccolo simbolo a forma di gatto si rese conto di quanto la giornata l'avesse provata. Quel tipo e la sua perspicacia riaccesero una fiammella di risentimento. Chissà come stava il naso di quell'ingenuo. L'aveva trattata da sprovveduta, lo meritava esattamente come si era meritato che gli assestasse una testata.
Sghignazzò per il rantolo che aveva emesso quando la sua fronte l'aveva colpito.
Raggiunse i piedi del suo giaciglio fatto di sterpi su cui era adagiato un lenzuolo e ci si lasciò cadere a peso morto, supina. Era finalmente al sicuro. Si sentiva finalmente serena. Non le ci volle molto perché il richiamo del riposo la chiamasse a sé.
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