3.

Profonda e tiepida come un'alba d'estate quella voce, solo leggermente affannata, le gelò il sangue.

Nayla non avrebbe mai creduto che in un primo pomeriggio di fine primavera avrebbe potuto sentire freddo. Ogni pelo sul suo corpo si mise sull'attenti. I nervi si tesero e i muscoli si contrassero.

Si voltò lentamente pronta a...pronta a cosa? Era troppo vicino, al massimo due passi, non avrebbe mai potuto scappare. Lui l'avrebbe inseguita e la caviglia malmessa l'avrebbe di certo tradita. Avrebbe voluto fare qualcosa, ma l'unica cosa che riuscì a fare fu domandare: «C-c-c-come...?». Balbettò stupita con quella che non sembrò nemmeno la sua voce. Uscì dalla profondità della gola, graffiandola, per quanto evitava di usarla.

Lo teneva sott'occhio attraverso il velo appena riposizionato sulla fronte.

«Come cosa? Come ti ho preceduto?» la rimbeccò lui «era evidente che la fuga avesse annebbiato il tuo senso dell'orientamento, non è stato difficile dedurre in che direzione saresti andato». Nayla si stupì della sua perspicacia, ma non lo diede a vedere. Non poteva credere che avesse capito cosa lei volesse sapere.

Nayla, tuttavia, notò immediatamente che si era rivolto a lei al maschile. Si sentì parecchio offesa da quelle parole. Era vero che non indossava abiti femminili, i pantaloni morbidi e la camicia larga adagiata sui fianchi, non metteva in risalto le forme spigolose del suo corpo magro, ma la urtava il fatto che aveva dato per scontato che fosse un uomo.

Come se le donne non potessero avere una prestanza fisica che permettesse di saltare da un terrazzo all'altro. Sarebbe stato più educato se le avesse almeno domandato chi fosse.

Inoltre, le aveva anche dato della stupido per non aver fatto attenzione alla strada che stava percorrendo. Forse su questo ultimo punto aveva ragione, ma era stato particolarmente maleducato nel farglielo notare. Nayla pensò che nessuno avrebbe dovuto arrogarsi il diritto di sparare sentenze senza tener conto dei sentimenti altrui. Uomo o donna che fosse avrebbe potuto soffrirne.

Comunque, non era né il momento né il luogo di impermalirsi. Il vicolo tra le due abitazioni era stretto, con agli angoli cumuli di spazzatura e, ne era sicura, anche escrementi non animali.

Si strinse nelle spalle con fare cedevole, se avesse finto accondiscendenza forse si sarebbe potuta dileguare più facilmente. La fasciatura che le stringeva il seno iniziava a cedere a contatto con la sua pelle sudata. La sentiva scendere millimetro dopo millimetro. Quella lenta discesa iniziava anche a procurarle un certo fastidio.

«Ora che abbiamo risolto il come» proseguì lui con voce guardinga, come se stesse parlando ad un cucciolo spaventato «passiamo alla fase in cui mi seguirai verso il palazzo senza opporre resistenza». Ripose il saif nel fodero. Grosso sbaglio. I pettorali appena visibili dall'uniforme si contrassero sullo sterno a quel semplice gesto.

Come no? Nayla avrebbe voluto raggomitolarsi a terra e ridere finché l'addome avesse ceduto. Si portò una mano alle labbra per evitarlo. Le dita ricoperte di polvere le solleticarono il naso causandole quasi uno starnuto.

Se quel belloccio, evidentemente molto ingenuo, credeva che sarebbe stato così semplice convincerla, si sbagliava di grosso. Lui fece un paio di passi avanti allungando un braccio per afferrarle una spalla. Quella mano, notò, era liscia e senza calli, le unghie perfettamente integre e curate per una guardia sultanesca, soprattutto se si trattava di quella di un cadetto. Un velo di sudore gli luccicava sulla pelle abbronzata mettendo in risalto la muscolatura ben allenata. Quell'uomo era una contraddizione che aveva i piedi.

Nayla sapeva a quali rigidi allenamenti venivano sottoposte le reclute. Era a quel modo che aveva imparato la maggior parte di quello che sapeva fare, perfezionandolo poi per conto suo. L'unico motivo per cui si avvicinava al palazzo del sultano era il cortile sud. Li venivano svolti gli addestramenti al combattimento delle reclute. Sapeva però che nella zona nord, nei pressi della caserma, lì i soldati potevano allenarsi in autonomia.

La Guardia veniva allenata e Nayla si arrampicava spesso sulle mura interne messe a difesa del palazzo per osservare le tecniche di combattimento base. A 15 anni, dopo un ennesimo tentativo di pestaggio, conseguenza di un furto finito male, capì che possedere delle gambe veloci non le avrebbe assicurato la fuga, la difesa nel corpo a corpo aumentava le sue possibilità.

Iniziò allora a pattugliare la zona in cerca di una falla nella sicurezza. Quell'area rimaneva sprovvista di guardie per circa un'ora e mezza. Quel tempo lo utilizzava, nascosta nella guardiola meridionale vuota a mimare ciò che gli istruttori insegnavano ai cadetti.

Quando arrivavano le guardie a prendere posizione, lei se ne era già andata nel suo rifugio, nella rete fognaria, a provare e riprovare i movimenti che aveva da poco appreso, finché questi non diventavano quasi involontari come respirare da poterli adattare alle sue capacità. Sapeva difendersi come un uomo addestrato, ma era flessuosa ed elastica come un gatto. Non poteva certo fare affidamento sulla forza bruta, meglio puntare su velocità nei movimenti, agilità nelle mosse di contrattacco e flessibilità nelle schivate.

La Guardia Sultanesca era composta da soli uomini di età variabili, dai vent'anni a salire. I più anziani, generalmente, ricoprivano cariche di comando. Era più che naturale che sfruttassero quasi esclusivamente la forza bruta e non il cervello per combattere.

La mano del cadetto, dai lunghi capelli, era pericolosamente vicina a lei. Era il momento di fare una mossa. Con il palmo della mano destra Nayla colpì all'altezza dell'avambraccio con tutta la forza che possedeva in quel momento, mantenendo il peso su un'unica gamba. Aveva provato a tenere il baricentro neutro, ma la caviglia era più infortunata di quanto pensasse.

Il braccio dell'uomo schizzò di lato, lasciandolo scoperto. Nayla concatenò un mezzo giro su sé stessa che gli permise di caricare con l'altro braccio una gomitata diretta al naso del suo assalitore.

Uno scricchiolio sinistro la inondò di una gioia perversa. Centro perfetto.

Provò puro piacere sentendo il tessuto della manica inumidirsi di un liquido caldo rossastro. Mentre lui barcollava indietro portandosi il dorso della mano al naso per tamponare la fuoriuscita di sangue, Nayla completò la sua piroetta e iniziò a zoppicare alla massima velocità concessale dalla caviglia, nella stessa direzione da cui era venuta. Non lo degno nemmeno di uno sguardo.

Purtroppo per lei, lo stordimento della guardia durò ben poco. Riprese ad inseguirla ora in netto vantaggio. Le fu addosso in un batter di ciglia.

Rovinarono a terra. Lei percepì la sabbia sulla lingua mentre un grido di dolore le moriva in gola. La guancia schiacciata a terra. Lui le teneva un ginocchio sulla schiena per non farla muovere e una mano sulla testa rivolta verso la casa vicina.

La schiacciava con tutto il suo peso. La incatenava al terreno. La sua forza era nettamente maggiore della sua. Era sicuramente il peggior scenario che potesse presentarsi.

«Avrai la pena che ti meriti per aver osato violenza su un ufficiale in servizio». A quel punto Nayla sentì la vera paura crescerle dentro. Aveva perso. Un sentimento denso e oscuro che dalla bocca dello stomaco si espandeva fino alla testa annebbiandole la vista, le idee.

Era stata catturata. Non sarebbe sopravvissuta come aveva promesso. Non avrebbe potuto portare a quei bambini la cena e vedere sui loro visi un vero sorriso. Non avrebbe più potuto allenarsi e vagabondare per la città architettando ingegnosi piani per procurarsi del cibo.

Non avrebbe più potuto fare nulla. Più si rendeva conto della situazione in cui si trovava, più la paura diventava panico. Il respiro difficoltoso per via del ginocchio sulla schiena la fece rantolare.

Iniziò a vedere intorno a sé le sbarre della cella lugubre e puzzolente. Il fiato le si fece ancora più corto. Ma, in quel momento, vide una speranza.

La guardia, vittoriosa, si sollevò portandola con sé in posizione eretta. Attento a non lasciarle i polsi, trattenuti dietro la schiena, le strattonò via dal capo il cappuccio improvvisato. La lunga treccia d'ebano le ricadde sulla schiena fino a solleticarle la zona lombare. Alcuni ciuffi sfuggiti dall'intreccio ora le ricadevano sul viso appiccicati agli zigomi e alla fronte.

«Una femmina?!» abbaiò lui voltandola aggressivamente per guardarla in faccia. La teneva per le spalle strattonandola incredulo. Era chiaro che lui non riuscisse a credere ai suoi occhi. Nayla continuava a guardare a terra. Non voleva incrociare lo sguardo di colui che aveva decretato il suo fallimento. Sentiva le lacrime spingerle per uscire. Ma non avrebbe pianto, non gli avrebbe dato quella soddisfazione. Nayla non piangeva mai. L'ultima volta se l'era concesso al capezzale della madre. Successivamente, aveva innalzato una maschera d'insolenza che la proteggeva dalle lacrime. Scosse leggermente il capo per rimandarle da dove erano venute.

Lui la sovrastava di almeno una testa. I capelli prima legati sulla nuca, ricadevano all'indietro indisciplinati. Erano così vicini che Nayla sentiva il suo respiro irregolare sulla fronte e mentre gli osservava le clavicole decise che, se fosse dovuta perire per mano sua, allora lo avrebbe fatto a modo suo.

«Sorpresa!» gli ghignò in faccia lei, regalandogli un sorriso sardonico, incastrando i loro sguardi in un gioco alla supremazia. Il naso era gonfio ed era incrostato di sangue rappreso. Anche le labbra carnose ne erano ricoperte. Sotto gli occhi iniziavano a comparire macchie violacee e giallognole: doveva provare un gran dolore. Un barlume di soddisfazione le risollevò di qualche centimetro il morale.

Lui aprì la bocca un paio di volte per dire qualcosa, ma non uscì nulla.

«Cosa c'è? Il Caracal vi ha mangiato la lingua?». Lui si riscosse, ma ancora non emise un fiato «sembravate molto loquace poco fa mentre minacciavate di orribili pene e torture».

«Sarei molto più loquace se la conversazione lo richiedesse» rispose lui. Uno strano luccichio gli illuminò le iridi nere. Le sembrò che un'idea gli avesse attraversato la mente. Le pagliuzze dorate che le attraversavano avevano uno strano potere; quasi ipnotico. Sembrava vorticassero in spirali profonde.

«Peccato...» sospirò fingendosi intristita «speravo di valerne lo sforzo». Non si aspettava una risposta simile.

«Dopo quello che avete fatto non potete biasimarmi. Ciò che avete compiuto è contro la legge del Sultano». La teneva ancora per le spalle. Una morsa che non accennava a rilassarsi.

Un sentimento differente dalla strafottenza prese il sopravvento: rabbia. Rabbia per come aveva vissuto fino a quel momento; rabbia per come tutto il popolo meno abbiente stava tutt'ora vivendo. Rabbia per le implicazioni che una frase di quel tipo, detta alla leggera, comportava.

Quella rabbia razionale le diede la spinta di cui aveva bisogno per non arrendersi.

«Dopo quello che IO ho compiuto!? Parlate di quando ho cercato di fuggire senza ferire nessuno o di quando ho reagito alle vostre minacce spaccandovi il naso, o magari di quando ho provato a non morire di fame?» lo biasimava, eccome se lo faceva. Come si permetteva di parlarle in quel modo altezzoso. «Voi piuttosto cosa avete fatto? Ci sono bambini che muoiono di fame in questi vicoli...la legge del Sultano» gli fece il verso deridendolo «se al Sultano fregasse qualcosa di noi, non se ne starebbe rinchiuso nel suo lussureggiante palazzo, con tutta la famiglia, tra oro, vino e vizi». Era un fiume in piena, non riusciva a fermare le parole «Per voi è tutto semplice, vero? Tornate nelle caserme e vi vengono serviti tre pasti abbondanti al giorno. Noi, qui in basso, lontani dal vostro sfarzo, possiamo solo sperare di trovare qualcosa una volta ogni due giorni».

Lui incurvò le labbra in un ghigno. L'aveva manipolata facendole confessare il motivo per cui sceglieva una vita da ladra e non una vita da rispettabile cittadina.

Nayla aveva il fiato corto, si rese conto solo in quel momento di aver detto tutte quelle parole senza prendere un filo d'aria. Aveva finalmente espresso ad alta voce parte di ciò che provava dopo anni di silenzio, solo perché lui l'aveva raggirata. Avrebbe voluto continuare, ma si tappò la bocca non era il momento di dire qualcosa per cui avrebbero potuto incriminarla di alto tradimento, oltre che di furto aggravato.

Le mani di lui allentarono di poco la presa, ma non la lasciarono. Per un momento Nayla pensò volesse permetterle di scappare. Sarebbe stato ridicolo.

Dopo un momento di riflessione asserì «Non avevo capito che una donna nella vostra precaria posizione avesse tempo di preoccuparsi del benessere dell'intero popolo».

Sarebbe stato meglio se non avesse risposto. Sarebbe stato di gran lunga meglio se avesse continuato a guardarla fissa. Quel sarcasmo era troppo. Tutto di lui era troppo. Quell'arrogante belloccio ricco solo delle sue convinzioni era la persona più ignorante che Nayla avesse incontrato. Come era possibile non si preoccupasse lui stesso delle condizioni del popolo.

«Voi non potrete mai capirlo» si spiegò Nayla «non mi aspetto niente di diverso da quelli come voi» avrebbe voluto puntargli il dito indice contro, disgustata.

Quello stralcio di discussione le riportò alla mente i due fratellini che aveva visto frugare nella spazzatura.

Tacquero continuando a fissarsi in cagnesco. Nayla vide qualcosa incrinarsi dietro quello sguardo di sfida che non accennava ad abbassarsi. Un uomo che aveva votato la sua esistenza a vegliare sui più deboli avrebbe dovuto darsi una svegliata molto prima. Ma era un uomo che aveva potere, cosa altro avrebbe dovuto aspettarsi?

Nayla buttò la testa all'indietro e si concesse un profondo respiro esausto che le sollevò le spalle fino alle orecchie, ricercando in quel fiato un barlume di raziocinio.

Tornò in posizione. Sapeva che ciò che stava per fare le avrebbe causato una fitta alla caviglia che avrebbe potuto rovinare tutto. Ma voleva tentare, non trovava il senso nell'arrendersi lì e ora.

«Ora, se volete scusarmi» concluse Nayla con un finto tono calmo, sporgendosi oltre le spalle della guardia «i vostri compari ci stanno raggiungendo».

Interdetto dalla cortesia, si voltò. La parte restante del gruppo li stava raggiungendo a passo svelto sempre a spade sguainate. Il capo gesticolava furibondo verso di lei, il ricciolino verso di lui.

«NON LASCIARLO SCAPPARE» gli intimò il primo «DOVRÀ PAGARE».

... con la vita!

Non vide il mercante. Probabilmente riprendeva fiato da qualche parte. A quel ricordo mise una mano sulla sacca di cotone grezzo che ancora portava a tracolla. Percepì attraverso il tessuto la carne ormai fredda e asciutta.

Il giovane riportò lo sguardo su di lei. Nayla fece l'unica cosa sensata: gli tirò una testata sul naso già rotto, provocandogli un'altra ondata di dolore. Sgusciò via dalla sua presa ormai cedevole. Lo spinse di lato e si lasciò cadere all'interno della stretta grata che metteva in comunicazione il sotterraneo sistema di fognature con la città soprastante.

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