2.

Quando sei niente, niente deve essere lasciato al caso. Nayla questo lo sapeva bene, osservare minuziosamente era il primo passo per scovare falle in un sistema e riuscire ad intrufolarsi rimanendo niente. Non doveva farsi beccare, non doveva farsi riconoscere, non doveva farsi prendere, non doveva essere avida. Lo stretto necessario per un pasto sarebbe bastato, ma quella carne odorava di paradiso a tal punto che temeva di non riuscire ad accontentarsi di un paio di spiedini, in più doveva tenere a mente la promessa silenziosa fatta poco prima.

Nayla aveva trovato la sua preda. Aveva deciso che quello sarebbe stato il suo pranzo. Un buon pasto ricco di proteine l'avrebbe sicuramente aiutata a ristabilire la lucidità necessaria per sopravvivere per i prossimi due o tre giorni, se fosse andato tutto bene.

Si dileguò nella viuzza stretta alla sua sinistra, acquattandosi per riprendere fiato e nascondersi dai raggi del sole per qualche momento. Se non avesse avuto la fronte imperlata di sudore per la calura, probabilmente lo sarebbe stata per via dell'adrenalina che iniziava a scorrerle nel corpo. Il cappuccio improvvisato l'aiutava a tenere le palpebre asciutte.

Quel nascondiglio si rivelò un punto perfetto per osservare la situazione circostante. Esaminò tutto: la folla, il sole, ormai, al suo zenit, le ombre che quest'ultimo creava tra le abitazioni, le tende colorate appena mosse da una leggera brezza, i colori sgargianti che le caratterizzava. Cobalto, rosso fuoco, arancio bordato d'oro, semplice bianco candido...

Persa nella sua minuziosa analisi, prese in considerazione di rubare delle monete d'oro e d'argento, con cui pagare la carne, da qualche sfortunato idiota, ma scartò subito quell'eventualità. Era troppo rischioso: non avrebbe potuto quantificare con esattezza quante monete tenesse nelle tasche o nel borsello, e se non fossero state abbastanza, avrebbe dovuto rubarne altre finché non avesse racimolato una somma sufficiente. La carne era costosa, un bene di lusso, che non sarebbe mai dovuto essere tale.

Decise, allora, le convenisse puntare tutto sul furto diretto della pietanza. Doveva trovare un modo, però, per far allontanare il mercante, o quanto meno distrarlo abbastanza per permetterle di riempirsi la sacca che si era legata in vita poco prima di tuffarsi nella piccola folla di quella mattina.

L'uomo era corpulento, ma non atletico. Troppo grosso per essere veloce. Aveva i capelli neri impolverati e due piccoli occhi troppo vicini tra loro per essere ricordabili. Da quella breve distanza non avrebbe saputo dire di che colore fossero, ma ipotizzava marroni molto scuri, quasi neri.

Tutti a Midabd avevano gli occhi scuri, la pelle olivastra e i capelli bruni. Nayla non faceva eccezione, se non per il colore delle sue iridi di una sfumatura ametista verde che caratterizzava tutte le donne della sua famiglia. O almeno l'avrebbe fatto se fossero state ancora tutte in vita. Uno scherzo genetico che per una che non doveva farsi riconoscere significava portarsi un bersaglio verde puntato sulla schiena ventiquattro ore al giorno senza eccezioni.

Ripensò al modo in cui il piccolo bambino, poco prima avesse distolto lo sguardo. Sicuramente non aveva mai visto occhi come i suoi. L'avevano probabilmente inquietato, pensò, e da bravo fratello maggiore aveva pensato di proteggere la sorella da quegli occhi inusuali. Alcune storie raccontavano di creature che solo guardandoti negli occhi potessero rubare l'anima privandoti della personalità.

Conclusa la vendita con la donna, l'energumeno tornò a concentrarsi sugli spiedini che ancora stavano cuocendo a fiamma viva sulla griglia vicina. Li spennellava con una salsa all'aglio biancastra, corposa e liscia, con una mano, mentre l'altra era appoggiata in modo indolente sulla scimitarra.

Facendo due rapidi calcoli, con quello che aveva sborsato la donna, allontanatasi con un quantitativo sorprendente di carne, l'uomo avrebbe potuto comprarsi un tavolo da lavoro nuovo, se quello accidentalmente fosse diventato cenere.

La strategia lentamente, ma con chiarezza disarmante, iniziava a farsi largo nella sua mente pragmatica. Il problema era capire come far arrivare le braci dalla loro culla di cenere, sotto la griglia, al banco da esposizione. La grossa vasca madre del fuoco era sorretta da tre aste in legno legate insieme con un sottile filo torto e ritorto al loro incrocio.

«È perfetto...» sussurrò roca tra sé e sé mentre si rendeva conto di come uno di quei bastoni fosse più logoro degli altri, se avesse ceduto sarebbe stato impossibile dare la colpa a chiunque se non alla cattiva manutenzione.

Osservò a terra, cercando quello di cui aveva bisogno. Un sasso non troppo grosso, ma abbastanza pesante da far male. Ne soppesò alcuni sui palmi delle mani troppo secche finché non trovò quello adatto. Un piccolo ovale liscio, eroso dalla sabbia in cui era stato fino a quel momento.

Se lo rigirò tra le dita annuendo. Per un momento ipotizzò di colpire lo stesso mercante domandandosi quale piega avrebbero preso gli eventi. Era un'idea stupida che scacciò prontamente dalla sua mente con un gesto della mano.

«Piccolino» si rivolse, quindi, alla roccia «sono nelle tue invisibili mani». Lo pregò, come se il successo di quel piano dipendesse esclusivamente da quell'agglomerato di minerali.

Controllò un'ultima volta l'omaccione con la scimitarra ancora intento a spennellare quella prelibatezza. Si portò l'indice e il pollice uniti in un cerchio sotto la lingua, mentre esprimeva una supplica muta a una qualsiasi divinità che avesse voluto ascoltarla. Non era credente, ma in quelle situazioni si ritrovava spesso a chiedere l'aiuto di forze più grandi di lei.

Il tempismo doveva essere perfetto.

Il fischio riverberò prima nella sua bocca e poi nella zona circostante. Forte e chiaro come un richiamo.

Quello che successe, immediatamente dopo, sembrò svolgersi a rallentatore ai suoi occhi: quella parte di suk si voltò verso il suono alla ricerca di chi lo avesse emesso. L'aria fece sbattere il rumore del fischio sulle pareti esterne delle case li vicine rendendo impossibile localizzarla con precisione. La folla iniziò a muovere la testa come le mosche si muovono attorno al cibo. Anche il venditore di carne si destò dalla concentrazione posta alla griglia per guardarsi intorno, distanziandosi di un passo.

Con un rapido movimento del polso Nayla scagliò la piccola pietra verso la gamba del treppiedi mal ferma, che cedette. Fu un lancio di circa otto passi, abbastanza sorprendente. Sia la griglia che le braci rovinarono sul banco vicino, dando vita ad un principio d'incendio. La sua mira era migliorata negli anni, si era allenata affinché riuscisse a colpire anche bersagli piccoli e sottili come quello. Probabilmente se avesse posseduto arco e frecce sarebbe divenuta in breve tempo un cecchino temibile.

Fu quello il pensiero fulmineo che le attraversò il cervello, mentre osservava la gente reagire a ciò che loro non sapevano avesse fatto. Iniziarono ad innalzarsi urla di paura, di sgomento e di curiosità.

Come c'era da aspettarsi tutti si precipitarono a vedere cosa stesse succedendo, attirati anche dal grido furibondo del proprietario della merce, che aveva iniziato a sventolare le fiamme con il proprio grembiule, ottenendo esattamente l'effetto contrario a quello che desiderava. Le piccole fiammelle in men che non si dica diventarono sempre più vive, gravide di ossigeno che gli veniva dato in pasto dal sudicio pezzo di tessuto.

Anche Nayla, ancora con il cappuccio improvvisato calato sugli occhi, si avvicinò a quel disastro di cui era molto fiera. Urlò un «Oh, miei dei!» e un «Ma che succede?» tanto per confondersi meglio nella folla di curiosi. Finse, poi, di sporgersi verso il limitare dell'incendio per aiutare l'uomo a estinguere quel fuoco rosso e arancione che ormai ardeva incontrollato, ravvivandolo a sua volta, soffiandoci discretamente sopra per evitare che si spegnesse troppo presto. La sabbia sul suolo avrebbe potuto estinguerlo facilmente. Quell'emergenza avrebbe dovuto rimanere tale ancora per qualche minuto.

Dopo essersi messa a carponi ed aver gattonato tra le gambe della folla radunata raggiunse quelli che sembravano essere una dozzina di spiedini caduti, miracolosamente scampati alla sabbia ancora appoggiati alla griglia.

Procedeva tutto come Nayla aveva calcolato. Tutti erano distratti dal fuoco per accorgersi di lei. Tutti osservavano le fiamme crescere. Tutti tentavano di dare una mano. Tutti tranne lui. Lui che aveva peggiorato la situazione sventolando le braci. Lui che infischiandosene dell'incendio estrasse la scimitarra puntandola verso di lei, urlando «AL LADRO!».

Nella testa di Nayla scoppiò il caos. Merda, merda, merda.

Non aveva progettato un piano di fuga, avrebbe dovuto improvvisare. Ancora carponi, agguantò in un solo gesto i pezzetti di carne che finirono nella sua sacca di cotone. Si alzò di scatto squadrando rapida i dintorni in cerca di un modo per scappare.

Come se non fosse abbastanza, un piccolo gruppo di guardie, si materializzò. Da dove fossero sbucati cinque soldati, imponenti e armati, non avrebbe saputo dirlo. Per quanto la riguardava potevano anche essere emersi dalla sabbia o dagli scarichi fognari che costeggiavano le strade di tutta la città.

Se avesse saputo della loro presenza non avrebbe mai scelto quello come suo bersaglio. O almeno non avrebbe fischiato per distrarre la folla. Un milione di domande iniziarono a vorticarle nel cervello. Domande su cui si sarebbe interrogata dopo aver fatto perdere le sue tracce.

In quel momento una nuova sfida prese forma nel suo campo visivo. Non più lei contro sé stessa, bensì lei contro cinque Guardie del corpo militare del sultanato. Quella consapevolezza la colmò di un sentimento strano che mischiato a un pizzico di panico le fece vibrare il corpo.

Li osservò per un altro secondo. Erano temibili nella loro uniforme con fusciacca blu cobalto bordata d'oro - i colori del sultano - e i loro saif sguainati nella sua direzione. L'abbigliamento non garantiva una grande protezione, la maggior parte della pelle era esposta come ogni possibile apertura verso gli organi vitali; tuttavia, la mancanza di un'armatura vera e propria li rendeva più liberi nei movimenti. Estrassero le loro spade dalle else pregiate e si diressero verso di lei spintonando la folla ancora accalcata.

«Levatevi di torno» intimò il più grosso di loro, in testa al variegato gruppetto, mentre spingeva di lato un'anziana che barcollò indietro rischiando di finire gambe all'aria. Era robusto, sicuramente allenato, ma soprattutto rabbioso.

Che modi!

Quell'atteggiamento le fece riacquistare la concentrazione. Se c'era una cosa che Nayla non poteva tollerare era l'arroganza scaturita dal potere. Quel senso di superiorità che le persone, come quel tipo, scambiavano per un permesso a comportarsi da stronzi. Esattamente come aveva fatto il padre benestante quando aveva abbandonato sua madre, Sela, quando gli aveva comunicato fosse incinta di lei.

Alla vista di quell'atteggiamento scattò impercettibilmente in avanti, avrebbe voluto aiutare quell'anziana a recuperare l'equilibrio precario. Ma una delle altre guardie la fece fermare. Sembrava diverso dagli altri, più educato sotto quell'aspetto. Sicuramente più affascinante con i capelli lunghi legati in una crocchia disordinata sulla nuca. Agguantò la vecchia signora sotto l'ascella per tenerla eretta, avvicinandosi poi al suo orecchio, probabilmente per chiederle come stava. Il ragazzo dagli zigomi alti e la mascella squadrata affidò la donna ad un'altra guardia dalla folta testa piena di ricci larghi, rivolgendo poi l'attenzione di nuovo su di lei. Quello che pareva essere il comandante in carica del piccolo plotone rivolse ad entrambi un'occhiata di sufficienza. La gentilezza era davvero passata di moda.

Riportò, poi l'attenzione su Nayla, che non rendendosene nemmeno conto aveva iniziato a far scattare i muscoli delle gambe. Si sentì un animale braccato, non voleva ritrovarsi in gabbia. Aveva sentito parlare delle prigioni poste nei sotterranei del palazzo imperiale. Voci di corridoio riferivano che nessuno che ci fosse entrato fosse mai uscito.

Sentiva l'adrenalina scorrerle in ogni fibra del suo corpo come il sangue caldo che le riempiva le vene.

Per una frazione di secondo valutò se attendere la Guardia Sultanesca e ingaggiare un combattimento corpo a corpo, ma loro erano armati, lei no. Le lame lunghe dei saif risplendevano di luce riflessa, lucide e affilate da tagliare un singolo capello a metà. Minacciose nella loro sofisticata finitura. In futuro avrebbe dovuto procurarsi una qualsiasi lama. Ma non era quello il momento per tentare di disarmare un soldato e rubargli l'arma in dotazione.

Si voltò di scatto verso la bancarella vicina con enormi piatti ovali contenenti datteri e altra frutta del posto. Ci saltò sopra a piedi pari e iniziò a correre calciando ogni ostacolo che le si parava davanti alle caviglie.

Oltrepassò i datteri, balzando sul banco successivo ricco di spezie: curcuma, cumino, paprika, curry...e vari tipi di incenso in polvere. Quando calciò quest'ultimi, la loro caduta creò una nuvola di odori che per un momento la stordì, ma le diede modo di creare una sottile cortina di polveri profumate al sandalo che le fece guadagnare qualche passo di vantaggio.

Proseguì così per altri due o tre lunghi banchetti. Eliminò dal suo campo visivo qualunque cosa potesse distrarla. Concentrò ogni suo sforzo nella corsa carpendo solo ciò che le sarebbe potuto essere utile dall'ambiente circostante.

I suoi occhi vagavano attenti e rapidi. Guardò verso i suoi piedi evitando di inciampare nelle stoffe che stava calpestando, poi a destra e una fugace occhiata a sinistra. Alzò lo sguardo, verso l'abitazione più vicina e notò la muratura butterata. Un appiglio. Fece forza su muscoli delle gambe per saltare verso l'alto aggrappandosi alla sporgenza. La corsa le diede lo slancio necessario per arrivare così in alto. Con entrambe le mani a reggerla all'interno della fessura, portò gli arti inferiori al petto dandosi una forte spinta con le punte dei piedi appoggiate alla parete. L'addome le doleva, non sapeva nemmeno lei se per la fame o per la contrazione dei muscoli.

Un filo spesso che collegava due case reggeva dei vestiti stesi all'aria secca del deserto. Si slanciò verso destra aggrappandosi con tutta la forza che aveva nelle mani.

Sotto di lei, le guardie e anche il mercante la inseguivano correndo inarrestabili. Quest'ultimo, tuttavia, iniziava a mostrare i primi segni di stanchezza, il fiatone gli faceva alzare e abbassare il petto in modo frenetico. Se avesse tenuto quel passo forse avrebbe potuto levarsi dalle calcagna almeno uno dei suoi inseguitori. Come assetati in un'oasi, non le davano un minimo di respiro. Non sapeva quanto però avrebbe potuto resistere lei stessa, le uniche energie che aveva derivavano dalla poca acqua di cactus che era riuscita ad estrarre la mattina stessa.

Dal basso continuava a percepire intimidazioni, insulti e versi gutturali. Minacce abbaiate alla sua schiena. Anche qualche pietra le venne scagliata addosso, tutte con una pessima mira. Appesa al filo, una mano davanti all'altra: sinistra, destra, sinistra, destra, arrivò all'altro capo del filo issandosi sul tetto di fronte. Guardò un attimo verso il basso per assicurarsi della loro posizione. Fissarono la parete come se fosse la montagna più alta che avessero mai visto. Confusi i soldati aspettavano ordini dal capitano paonazzo che sembrava solo più furioso per essersela lasciata scappare o per non essere in grado di scalare una parete.

Escoriazioni e bruciature da attrito le segnavano entrambi i palmi. Ci soffiò sopra, imprecò per il bruciore, ma se non avesse ripreso a correre si sarebbe ritrovata direttamente senza mani.

Riprese la sua corsa sui terrazzi della città. La distesa di tetti piatti la invitavano a scegliere una qualsiasi direzione. Le case troppo vicine tra loro erano un vantaggio per lei.

Sulla strada al piano di sotto sentiva ancora il comandante dare ordini perentori ai suoi sottoposti. Era certa non avrebbero osato arrampicarsi, non era parte del loro addestramento.

Non sapeva nemmeno lei dove si stesse dirigendo, ogni posto sarebbe andato bene purché le permettesse di svanire nel nulla.

Notò con la coda dell'occhio una delle guardie, quella che aveva aiutato l'anziana signora, distaccarsi dal gruppo e inserirsi in una strada laterale. Riconobbe i capelli neri dalla sfumatura ramata molto particolare perché sembrava emergere più all'ombra che non quando il sole gli baciava la testa.

Nayla si ritrovò a sperare che il sole di mezzogiorno lo avesse rincretinito a tal punto che si fosse distaccato per riprendere fiato lontano dagli occhi dei suoi commilitoni. Il ricciolino di prima lo guardò allontanarsi sbiancando, indeciso se seguire lui o il suo capitano.

Ogni movimento di Nayla era diventato meccanico. Scatta, salta, altra terrazza, atterra in una capriola, corri, salta, terrazza. E così fino a che il palazzo imperiale, prima un'immagine sfocata, non diveniva sempre più grande e nitida. Bianco e oro, mastodontico, opulento, rinfrangeva la luce del sole tutto intono a lui come uno specchio liquido. Era stupendo, imponente e assolutamente sbagliato.

«Cazzo!» mugolò a sé stessa coprendosi gli occhi con una mano. Aveva preso la direzione peggiore di tutte, neanche avesse voluto aiutare i suoi carcerieri avvicinandosi all'unico luogo verso cui non sarebbe mai dovuta andare.

Arrestò la sua corsa bruscamente, procurandosi un dolore lancinante alla caviglia. «Stupida!» si maledisse per la disattenzione.

Aggrappata al basso parapetto inspirò ed espirò cercando di calmare il dolore. Strinse forte i pugni colorando di bianco le nocche.

Guardò sotto di sé: delle guardie non c'era più traccia. Esalò un respiro liberatorio. Aveva vinto non solo contro sé stessa, ma contro delle guardie armate e preparate. Il moto di orgoglio la colpì come un onda gigantesca che si infrange sulla sabbia. Era il momento di scendere, nascondersi nell'ombra e proseguire camminando invisibile come un fantasma.

Scavalcò la muratura aggrappandosi ad una trave che sporgeva dalla facciata della casa. Attenta a non procurarsi altro dolore alla caviglia lesa, si lasciò cadere atterrando sul piede buono. Lisciandosi le vesti sgualcite sorrise a quel traguardo. L'adrenalina iniziava a scemare. Sistemò il velo che le copriva la testa di nuovo sugli occhi.

«Non è stata una mossa intelligente» una voce sconosciuta ghignò alle sue spalle.

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