10.

Lasciata sola, l'unica sua compagnia erano la penombra, la rabbia, il senso di colpa e litanie sconnesse degli altri prigionieri. Un quartetto d'archi d'eccellenza per la sua già quasi esaurita tolleranza.

Per pochi istanti aveva pensato potesse esserci una speranza di fuga. Almeno per Amira e il suo bambino.

Più che il senso di colpa, era la rabbia a fare da padrona. La faceva ribollire dall'intero avvicinandola lentamente ad un'implosione di nervi.

Faceva su e giù nella cella abbracciandosi i bicipiti indolenziti. Le unghie nella pelle lasciavano mezzelune bluastre.

Da quando aveva rubato quegli spiedini tutto era andato a rotoli.

Si maledisse.

Si sfilò ciò che rimaneva del guarnello rimanendo con la sola fasciatura sul seno e quello che restava dei pantaloni.

Sentiva caldo, le sembrava che l'aria umida delle prigioni le sfrigolasse sulla pelle nuda.

L'elenco di tutto quello che non era riuscita a mettere in pratica si allungava di secondo in secondo.

La faceva sentire... sconfitta. Sconfitta e sola.

Un'emozione nuova con cui fare i conti.

La solitudine, non portava il sollievo a cui era abituata, ma le stingeva i polmoni facendola quasi lacrimare.

Perdere non apparteneva al suo vocabolario.

C'erano state volte in cui aveva perso l'opportunità di un borseggio o un furto andato male, ma aveva sempre avuto occasione di riprovarci.

Provare il giorno dopo o quello successivo ancora. In quell'occasione non poteva più fare nulla. Le sembrava che il buio in quel momento fosse ancora più oscuro.

Gli occhi le bruciavano. Le ombre diventarono più fumose, tangibili, nel punto in cui l'uomo che aveva graffiato se ne stava in piedi. Vigliacco.

La vista le stava facendo dei brutti scherzi. Si sfregò gli occhi e la visuale tornò alla normalità.

Calciò il vaso da notte, ancora miracolosamente integro dopo la colluttazione di poco prima, aggiungendo altri liquami sul pavimento sporco.

Osservò ipnotizzata il suo vomito che si allargava. Un conato le salì alla gola.

Tese l'orecchio assicurandosi che nessuno la insultasse per il frastuono dei cocci.

Aveva perso la cognizione del tempo da molto. Poteva essere mattina come notte fonda.

Quando capì che non l'avrebbero aggredita a parole se ne dispiacque. Era proprio in vena di litigare con qualcuno. Prendere a calci il recipiente non era abbastanza per sfogare le sensazioni che le rodevano il fegato.

Se salvare Amira non era più un'opzione, non si sarebbe concessa di subire lo stesso destino.

Sarebbe sopravvissuta. Se non per lei stessa, per Sela e per Amira.

Per fermare quel crimine. Ora era diventato più personale che mai.

Mentre ispezionava dove sedersi, qualcuno fece scorrere all'interno un vassoio con del pane raffermo e una ciotola d'acqua. Le vivande scivolarono in una fessura sotto le sbarre, circa dieci centimetri dal pavimento.

Nayla guardò il ragazzo. Avrà avuto all'incirca vent'anni. Alto, troppo secco e sublimemente impaurito.

Si fissarono per un lungo istante. Non aveva l'aspetto di un soldato, più di un servitore, a cui era toccato il compito di sfamare i prigionieri.

Gli occhi di lei si incatenarono ai suoi mettendolo visibilmente a disagio. Il colore bizzarro dei suoi occhi intimoriva le persone? Benissimo, l'avrebbe usato a suo vantaggio.

Lui impallidì leggermente. I flebili lumi la rendevano sicuramente più inquietante.

Gli occhi verdi guizzavano di crudeltà. Assunse un'espressione maligna solo perché era in grado di assumerla.

Lo osservava dall'alto in basso come una regina su suo trono.

Giocare un po' con la sua fragile compostezza la rinvigoriva. Vedeva in lui tutti gli uomini che l'avevano umiliata. Da suo padre a Belloccio.

«Bù».

Il ragazzo scappò fuori dalla prigione con le mani al cielo. Come se avesse visto una delle creature descritte nel suo libro.

Nayla avrebbe voluto trattenersi, ma non ci riuscì. Una risata in mezzo a tutto quel grigiore le ci voleva. Era fuori luogo, ma non si pentì di essersi presa una piccola rivincita morale.

Per il resto avrebbe portato pazienza. La vendetta era un piatto che andava servito freddo, avrebbe atteso pazientemente il momento propizio.

Trangugiò in tozzo di pane e avidamente bevve l'acqua che il fifone le aveva portato.

Sapere che era ancora in grado di ridere in situazioni catastrofiche era un segnale forte e chiaro che servisse molto di più per spezzarla. I crampi allo stomaco cessarono e si senti subito più lucida.

«Bene bene, un topolino in trappola».

Ancora con il boccone mezzo masticato, si voltò per trovare al di fuori della cella l'uomo dal braccio lussato.

«A dire ovvietà siete un maestro, Capitano» disse sputacchiando briciole umidicce tutte intorno.

«La gattina ha gli artigli affilati...».

Un velo di orrenda malizia gli adombrò lo sguardo.

Nayla lo vide e il suo cuore iniziò a battere all'impazzata. Quello sguardo...non voleva essere guardata come lei guardava un pezzo di carne.

Una maschera di sarcasmo le scivolo sul volto come uno scudo.

«Se sono un topolino come posso essere anche una gattina?» domandò sbeffeggiandolo.

Con la mano buona fece scattare la serratura della cella, si introdusse lentamente chiudendosela alle spalle.

La serratura scattò. Non aveva vie di fuga, in quella cella di due metri quadrati l'aria diventò asfissiante.

Silenzioso come uno spettro avanzava verso di lei. Trascinava i piedi sporcandosi incurante l'orlo delle brache.

«Non vi avvicinate!». Nayla detestò il modo in cui la sua voce suonò. Le sembrava che le pareti si fossero fatte più strette.

Lui si fece più vicino e l'afferrò per un gomito strattonandola.

Tentò di divincolarsi, ma la stretta dell'uomo le face male.

Sempre con tremenda lentezza sfilò l'altro braccio dal sostegno che aveva al collo.

«Fai la grande donna perché sai tirare qualche pugno?». Si passò la mano, ora libera, nei corti capelli sudati.

Quello schifoso era il doppio di lei. Nayla aveva già dato fondo a tutte le sue energie nel tentativo di salvare Amira. Era certa avesse scelto di ripresentarsi nella sua cella proprio in quel momento perché conscio non avrebbe avuto le forze per difendersi.

«Lasciatemi andare» gli intimò.

Il cuore le batteva nelle orecchie intaccandole l'equilibrio.

«Altrimenti?».

Lui iniziò a spingerla verso il muro dietro di lei. I loro passi una macabra sinfonia di ticchettii stonati.

Nayla avrebbe ingerito volontariamente dieci bacche di belladonna, piuttosto che trovarsi ancora in quel luogo con il capitano.

Approfittò del lungo strappo nei pantaloni per farle scorre due dita unte dal ginocchio fino al fianco. Si passò la lingua sulle labbra pregustando quello a cui l'avrebbe condannata.

Le parve di vedere un'ombra coronargli il capo. Più la lussuria nel suo sguardo cresceva, più quella strana nebbia si faceva più nitida.

Urlare non le sarebbe servito a nulla. In quel luogo tutti urlavano: per le torture, per la fame, tanto per farlo.

«Siete uno schifoso figlio di...». Le tappò la bocca con la mano. Il palmo enorme le copriva anche parte del naso. Inspirava a fatica.

Nayla sentì la parete grattarle la schiena.

Gli morse la mano, sentì il sapore metallico del sangue sulla lingua, ma quel mostro non mollò la presa.

Era assuefatto dal piacere perverso che provava nel sottomettere Nayla.

«Non vedo l'ora di tapparti quella boccuccia carnosa come meriti» disse infilandole il ginocchio fra le gambe per fagliele divaricare.

Nayla soffocò un singhiozzo. Avrebbe preferito farsi picchiare a sangue diecimila volte piuttosto di essere toccata da quelle mani perverse.

Cercò di opporsi, divincolarsi e dimenarsi. Ma nessun movimento che facesse sortiva alcun effetto.

Le interiora le si rivoltarono e l'ossigeno stava terminando. La vista le si stava oscurando. La paura di perdere i sensi da un momento all'altro velocizzava il processo.

Non poteva permettere che lui la toccasse oltre. Non poteva costringerla a un atto così intimo che veniva consumato tra due amanti, fosse per una notte o per la vita.

Sentì una parte di lei appassire come un bocciolo di rosa nel deserto.

Si era già concessa ad altri uomini, ma nessuno l'aveva mai obbligata. Erano stati incontri brevi, solo per piacere, ma sempre con il benestare di entrambi.

«Che cazzo succede?».

Le sbarre si aprirono di scatto, facendo sussultare entrambi.

«Lei è m...» si zittì.

La mole del capitano le ostruiva la visuale, ma non aveva bisogno di vederlo per sapere di chi si trattasse. Avrebbe riconosciuto quel tono fra mille.

Nayla temette che il capitano l'avrebbe scacciato ordinandogli di tornare al suo posto. Gerarchicamente poteva farlo e Belloccio avrebbe dovuto ubbidire se non voleva essere accusato d'insubordinazione.

Immaginava li stesse fissando, ma non fece nulla.

Non sentì passi in avvicinamento. Questo la rincuorò, non aveva intenzione di unirsi a quello scempio.

Fu il capitano a muoversi per primo, lasciando la presa su Nayla e voltandosi verso Belloccio.

Cadde sulle ginocchia troppo deboli per sorreggerla. Con una mano al petto riempiva freneticamente i polmoni di aria stantia che in quel momento le sembrò la più pura che avesse mai respirato.

La visuale sgombra le permise di vedere l'espressione feroce sul suo viso.

Le pagliuzze dorate negli occhi neri fiammeggiavano. Gli zigomi pronunciati sembravano ancora più taglienti in quel ghigno. Sembrava lanciare dardi infuocati nella sua direzione.

Piegò la testa di lato come un predatore che studia la sua preda. I capelli lunghi legati sulla nuca avevano perso qualche ciocca che gli solleticava la mandibola.

Il capitano portò il pugno destro al cuore e piegò la testa in avanti. «Capitano Kay».

Nayla, confusa e disorientata, osservava la scena senza comprendere.

Quella rivelazione dava un senso a tutto.

Faticava di nuovo a respirare. Aveva tirato una testata e una gomitata a un capitano della Guardia Sultanesca. Lo stomaco si contrasse.

Belloccio non la degnò di uno sguardo. L'ira glaciale era rivolta tutta a quello schifoso.

Umiliata perché aveva frainteso i ruoli e nessuno l'aveva corretta, l'umiliazione la divorava dall'interno.

«Tu?». La voce le graffiò la gola. «Capitano? Come? Perché?».

Non le aveva rivolto uno sguardo, figuriamoci una risposta. Ogni suo gesto era nei confronti di quel mostro.

«Soldato Hakan...». Si avvicinò lento e minaccioso rimarcando il suo grado. «Vuoi spiegare?».

Nayla, ancora sul pavimento, non si perdeva nemmeno una microespressione di quell'inconsueto dibattito.

«Davo una lezione alla prigioniera, Capitano». Hakan tronfio in petto si giustificò.

Il vero capitano gli rifilò un manrovescio che echeggiò ovunque intorno e dentro di lei. Sentì addirittura tremarle la dentatura. Se non gli avesse dislocato la mandibola, ci era sicuramente andato vicino.

Ogni occhiata che gli aveva rivolto fino a quel momento era di puro e spaventoso disgusto. L'uomo sul pavimento si fece piccolo e inerme.

«Sei marciume. Una pestilenza che non avrà più modo di contagiare nessuno». Si chinò appoggiando gli avambracci sulle ginocchia piegate. Gli prese la chiave che apriva le celle dalla prigione.

«Sei in arresto perché mi fai schifo». Gli sputò in volto.

Non era un reato fare schifo, ma per la prima volta Nayla si trovò d'accordo con lui: Hakan era davvero feccia e meritava di marcire in quelle segrete più di lei.

Il vociare degli altri prigionieri, che fino a quel momento non aveva avuto risonanza, attirò l'attenzione dei sottoposti.

Il primo ad arrivare fu Ricciolino. Con i ricci scompigliati, si fissava il saif al fianco. Guardò il suo capitano confuso.

«Lasciateci soli» ordinò.

Le altre guardie se ne andarono come erano arrivate: in un battito di ciglia. Tranne Ricciolino.

«Anche tu, Karim». Trattenne a stento la rabbia.

Nayla registrò l'informazione: Ricciolino era Karim. Nayla si sentì felice di potergli dare un nome.

«Oh ma dai...» sbuffò come un bambino capriccioso «sono sceso dal letto apposta».

Il capitano Kay si passo una mano sul viso, visibilmente infastidito. «Karim, per favore, non serve terrorizzarla ulteriormente. Sta già tremando abbastanza». Spiegò riferendosi a lei. «Avresti dovuto avvisarla che sarei arrivato».

«Ma l'ho fatto!» si giustificò lui.

«Non sto tremando». S'intromise nel battibecco Nayla. Si alzò goffa da terra poggiando le mani sulle cosce. Kay si fece avanti per sorreggerla, quando rischiò di scivolare sui liquami che lei stessa aveva sparso sul pavimento.

Percepì un leggero odore d'incenso.

«Non toccarmi» ringhiò.

Non voleva in alcun modo che un altro uomo le mettesse le mani addosso. Si sentiva sudicia.

Con ancora il fiato corto, guardò entrambi.

Il suo cuore batteva ancora all'impazzata, intrappolato in un tornado di emozioni difficilmente elencabili.

Lui si ritirò. «Come ti senti?».

«A breve starò meglio» sentenziò con uno sguardo maligno negli occhi.

Si spazzolò le vesti e fece un passo verso Hakan ancora a terra. Gli assestò un calcio alla bocca dello stomaco che lo fece contorcere su sé stesso.

Strozzato dal suo stesso vomito, qualunque suono emise risultò essere solo un grugnito.

«Ora sto meglio». Le guance presero fuoco a quell'atto di violenza. Ne voleva di più.

Continuò a prenderlo a calci, l'ultimo ben assestato nei genitali, finché Ricciolino Karim fischiò tra i denti.

«Continuo a pensare che non dovremmo farla arrabbiare» disse visibilmente scosso.

Nayla lo trafisse con il solo sguardo in una tacita promessa di fargli lo stesso se avesse continuato a dare fiato alla bocca.

I capelli le ricadevano piatti davanti agli occhi donandogli un'aria da spirito vendicativo.

«Karim per favore, VA!» quasi lo supplicò pur di levarselo dai piedi.

Alzò le mani in segno di resa «Va bene, va bene. Vado... ma dovresti bere una camomilla, sei un tantino agitato».

Da quel momento in poi Nayla ebbe tutta l'attenzione del capitano per sé.

«Lo chiuderò in questa stessa cella e getterò via la chiave» spiegò, forse per tranquillizzarla o per darle un sostegno.

Si risentì, non aveva bisogno di questa velata premura. Non rispose. Lo osservava e basta.

«Seguimi...».

Si diresse verso l'uscita della cella. Non sapeva cosa fare. Confusa, diede un'ultima occhiata ad Hakan non sarebbe voluta rimanere un secondo di più in presenza di quell'abominio.

Lo scavalcò e seguì il capitano. Qualunque posto sarebbe stato meglio di quello.

Lui prese a camminare a pochi passi davanti a lei.

Quando arrivarono al fondo del corridoio Nayla si chiese perché stessero prendendo la direzione opposta a quella lugubre delle prigioni.

Kay si fermò senza preavviso voltandosi.

Davanti alla porta che separava le prigioni dal palazzo, Nayla sbatte il naso sul suo petto inalando il suo odore d'incenso e oli. Eccola, schiacciante, la prova che era stato proprio lui a trasportarla in quel posto.

«Ti ha ferita?».

Nayla si limitò a incastrare i loro sguardi. Definisci ferita, avrebbe voluto rispondere, ma non gli avrebbe concesso un'arma psicologica da usare contro di lei.

«Bambolina, ho bisogno che tu mi risponda».

«Non chiamatemi Bambolina». Fu l'unica risposta inacidita che gli rivolse.

«Non so qual è il tuo nome». Silenzio.

Si fissavano come la prima volta: il primo che avesse abbassato lo sguardo avrebbe perso.

Tuttavia, qualcosa risuonava più armonico in quel gioco sciocco. Gli occhi di lui sembravano voler dire quanto fosse dispiaciuto per ciò che sarebbe potuto succedere.

Nayla dal canto suo esprimeva quanto non avesse bisogno del suo aiuto.

Testarda e orgogliosa? Oppure, stupida e sconsiderata?

«Lo lascerete davvero marcire là dentro?».

Non sapeva perché glielo stesse chiedendo. Ma tornare ad un registro formale le servì a mettere un doppio muro tra di loro. Quegli occhi avrebbero potuto disintegrare qualsiasi armatura avesse indossato.

«Senza dubbio, un uomo di quel genere non può stare sotto il mio comando».

«Ce ne sono altri...».

Lui serrò la mascella. Non se lo aspettava? Non lo sapeva?

Non si riferiva solo a bestie che pretendevano il possesso del corpo altrui, ma anche mostri che rapiscono donne incinte.

La collera si accostava al disgusto in una miscela infiammabile. Sarebbe potuta esplodere da un momento all'altro. Meglio la rabbia alla profondità inesplorate dei suoi sentimenti.

«Forse potresti aprirmi tu gli occhi...».

Nayla sgranò gli occhi. Sperò che aggiungesse altro a quella affermazione. Ciò che lei aveva inteso non era adatto ai bambini.

«Ti infiltrerai a palazzo». Spiegò, infine, soddisfatto del vago pensiero malizioso le aveva attraversato lo sguardo. Distraendola per un istante da quanto avrebbe potuto accadere se non fosse arrivato in tempo.

«Perché?».

«Perché in questo modo non dovrò rimetterti in cella». Allettante, ma non abbastanza.

Nayla scosse la testa quasi divertita «No, perché dovrei fidarmi di voi? Per il vostro bel faccino?».

«Quindi pensate abbia un bel faccino? Se vi facilita la scelta provvederò a mostrarvelo ogni volta che desiderate».

Gli occhi neri brillavano di malizia. Le sorrise alzando solo l'angolo sinistro delle labbra, irritandola più del dovuto.

Fu, tuttavia, grata che avesse rispettato la distanza nel tono che aveva messo poco prima.

Si stava divertendo. La provocava per puro diletto.

Che lo facesse con l'unico scopo di distrarla?

Nayla si avvicinò ancora un po'. I loro respiri si intrecciavano. Il profumo d'olio per il corpo la invase. Sembrava timo con una punta di menta.

Sentiva il sangue ribollire sotto il suo sguardo sornione. Compiaciuto del complimento involontario che Nayla gli aveva rivolto, il pensiero della testata in sospeso tra di loro, la attraeva parecchio, ma non era certa di farla franca.

Notò appena come le labbra di lui si incurvarono carnose e senza imperfezioni. La pelle rasata non mostrava nessun accenno di barba.

Perché stava notando particolari attraenti nel viso del suo nuovo personale aguzzino?

«Deciderò se aiutarvi solo dopo aver discusso alcune condizioni» acconsentì deglutendo a fatica. Lui si fece ancora più vicino inclinando leggermente il corpo per mettersi alla sua stessa altezza.

I suoi, dannatissimi, capelli, sembravano seta lucente.

«Vi ascolto, Bambolina».

Avrebbe voluto staccagli la lingua e fargliela mangiare insieme a quel rivoltante soprannome.

«Uno: voglio l'immunità da tutti i reati passati e futuri».

Se dovevano stringere un patto, tanto valeva che Nayla ci guadagnasse qualcosa. Non avrebbe fatto la marionetta nelle mani di burattinaio Kay.

Lui aggrottò le sopracciglia e dopo essersi stretto il ponte del naso con indice e pollice acconsentì. Le fece cenno di proseguire.

«Due...» Nayla contava sulle dita di una mano teatrale «voglio potermi muovere come desidero». Lui fece di con la testa.

La ragionevolezza che dimostrava era un punto a favore che il capitano guadagnava a ogni condizione accettata.

«E tre...» fece una pausa d'effetto «non mi chiamerete Bambolina». Trionfante sorrise.

«Questo non lo posso promettere».

Nayla strinse le palpebre.

«Ora le mie condizioni» decretò lui, raddrizzandosi e interrompendo il contatto fra i loro sguardi.

«Non scapperete dal vostro compito fino a che non sarà concluso; mi renderete partecipe di ogni vostra mossa così che possa coprirvi le spalle, se sarà necessario...».

Lo sguardò gli si incupì. «Non prenderete nessuno a testate!». Mise particolare enfasi su quell'ultima condizione.

Nayla si domandò se fosse in grado di leggere nella mente. Quel pensiero la accompagnava da giorni come il ronzio di una zanzara in un angolo del cervello.

Soppesò la sua richiesta contrariata. Non poteva di certo rinunciare alla sua arma più efficacie.

«Questo non lo posso promettere» gli fece il verso.

L'espressione di lui passò dall'essere seria all'essere esasperata. Non gli avrebbe permesso di vincere in una trattativa tanto infantile.

«Tuttavia, come pensate nessuno mi riconosca, avete fatto affiggere manifesti con la mia faccia per tutta Midabd». Domandò, ora, impensierita.

L'avesse incastrata con quella richiesta solo una settimana prima, non avrebbe avuto motivo di preoccuparsi di essere riconosciuta. Ma ora...

Una risposta non risposta.

La guardò in tutta la sua altezza. Anche Nayla si sondò dai piedi fino al petto.

Il pantalone sinistro era strappato in più punti, macchiato e umidiccio. Il destro praticamente non esisteva più. Rimanevano uniti solo perché la cucitura del cavallo aveva retto. La pelle della gamba nuda lurida incrostata della stessa sostanza che le macchiava le brache.

Le braccia presentavano lividi e graffi. Il sangue rappreso in più punti. Non si era nemmeno resa conto di essersi ferita così tante volte. Chissà in che condizioni versava il suo viso.

La fasciatura sul petto, in origine color del lino grezzo, iniziava a cedere rischiando di farla rimanere nuda. Notò l'incavo tra i seni spingere pericolosamente per uscire. Si coprì con entrambe le braccia con un movimento rapido, arrossendo.

Lui bloccò un sorrisetto, ma aggiunse: «Niente che non abbia già visto, Bambolina. Non siete la prima».

Quella risata trattenuta, quel commento vanesio, la scosse dall'interno.

Rilassò le braccia lungo i fianchi. L'improvvisa mancanza di sostegno finì per far scivolare più giù la fasciatura.

«Niente di cui debba preoccuparmi, allora». Gli sorrise maliziosa.

«Quindi, cosa dovrei fare?» chiese per richiamare la sua attenzione sull'argomento principale.

«Per il momento vi troveremo una stanza».

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