Capitolo sette (6 di 7)

Infine Harun la sospinse sino all'entrata di un giardino interno circondato da un alto muro bianco, su cui serpeggiavano il gelsomino selvatico e la vite, mentre piccoli pappagalli bianchi garrivano e si poggiavano sul bordo della piccola fontana centrale.

Dinanzi al trionfo di quell'esempio di architettura araba, si scoprì travolta da mille emozioni contrastanti: era in preda a uno stordimento senza precedenti, come se si trovasse su una barca alla deriva, nel cuore di una tempesta, con la totale mancanza della luce rassicurante di un faro a guidarla.

Poi lui la lasciò e si volse in direzione della porta.

«Harun» lo chiamò allora, fuori di sé per la rabbia. «Aspetta un attimo!».

Fece per raggiungerlo, ma un trio di guardie comparve dalle ombre del giardino e, colta di sorpresa per quell'inaspettato arrivo, Zara sollevò le mani davanti a sé di scatto nel mero tentativo di proteggersi: gli uomini in uniforme si frapposero tra lei e Harun, impedendole di proseguire e persino di arretrare.

Nell'istante in cui il re fece per andarsene, lei affrontò la paura raccogliendo tutto il suo coraggio.

«Quali intenzioni hai?» gridò. «Dove mi hai portato?».

Il sovrano non rispose subito, limitandosi a osservarla in silenzio.

«Insomma, hai intenzione di restare lì senza dire nulla?» lo riprese con durezza allora. «Parla! Di' qualcosa!».

Quando credette che lui se ne fosse andato davvero, un sorrisetto saccente comparve su quella bocca.

«Ti trovi nel vecchio harem dismesso del palazzo» rivelò. «Qui nessuno ti disturberà».

A quella replica, Zara sbarrò gli occhi sgomenta mentre lui se ne andava. 

Doveva essere uno scherzo, pensò impietrita. O il rinnovarsi di un incubo a occhi aperti. 

* * 

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