4. FUGA

Non avevo alcuna intenzione di tornare indietro. Volevo davvero andarmene da quel posto di merda. Piegandomi in direzione del vento, avanzai a passi lenti e pesanti.

Continuai a camminare verso ciò che ai miei occhi appariva essere il sentiero che portava alla stazione degli aerei privati. Avevo preso la carta di credito di mia madre proprio per affittarne uno e farmi portare all'aeroporto centrale. Da lì sarei partita per tornarmene, finalmente, a casa. E stavolta mio padre mi avrebbe ascoltato. Non avrebbe, certo, potuto dirmi «ciao, ciao» riattaccandomi in faccia.

I cumuli di neve diventavano a ogni mio passo sempre più alti ed era sempre più difficile oltrepassarli.

Avevo di sicuro fatto una sciocchezza a scappare via, così, di notte e sotto una bufera. I candidi fiocchi mi schiaffeggiava il viso. Stentavo a mantenere l'equilibrio e la posizione eretta.

Mi sentii persa ed ebbi paura. Non potevo tornare indietro. Ero bloccata.

Sentivo già le lacrime della disperazione premere tra le ciglia, quando mi parve di sentire una voce mescolata al soffio rumoroso del vento. Battei le palpebre e scorsi una luce tremolante dietro gli alberi. «Ehi, laggiù!»

Feci qualche passo avanti verso quella voce e caddi in ginocchio. Cercai a carponi di uscire dal mucchio di neve che mi avvolgeva. «Ehi! Dove sei?! Aiuto!» gridai. La mia voce fu inghiottita dal sibilo del vento.

Mi sentivo una scema. Lo ero di certo.

Un mulinello di neve mi turbinò intorno. Restai ferma in ascolto, poi urlai di nuovo. Niente. Solo l'incessante fischio del vento.

Mentre il gelo mi serrava la gola in una morsa e mi bruciava i polmoni, vidi una luce che si faceva man mano sempre più nitida. Finché non mi comparve davanti una specie di disco bianco vagare sulla superficie innevata.

«Ma che cazzo ci fai in mezzo alla bufera?» fui investita da una brusca voce maschile, giovane e molto alterata. Il suono più bello che avessi mai udito.

«Ehm... aiutami, ti prego» farfugliai.

«Puoi camminare?»

Mi appoggiai sulle sue braccia protese. Incappucciato, con una giacca a vento pesante e un paio di stivali alti fino al ginocchio. Non riuscivo a vedergli il volto.

«Riesci a camminare?», mi ripeté.

«Sì».

Non appena allontanò le braccia e mollò la presa, le mie gambe cedettero.

«No, non ci riesci», commentò secco. Era una voce molto giovane.

Lo sentii soffocare una parolaccia e percepii il tocco delle sue mani sui fianchi.

«Che cazzo stai facendo, brutto stronzo!» protestai subito cercando di allontanarlo.

«Stai ferma!» mi ordinò imprecando di nuovo. Mi sollevò di peso e scivolai da una parte all'altra delle sue spalle.

Da scema passai a sentirmi uno stupido sacco di patate.

Rimasi in silenzio anche se quella imbarazzante posizione mi faceva venire il sangue alla testa.

«Grazie», mormorai.

Il giovane straniero bofonchiò qualcosa di incomprensibile e si avviò con passo lento verso il sentiero da dove ero arrivata.

«No, aspetta! Io devo andare dall'altra parte! Devo andare alla stazione degli aerei privati».

«Non decolla nessuno con questa tempesta».

«Dove mi stai portando?»

«Sei la famosa... Emy, giusto?» chiese pronunciando il mio nome con tono di scherno.

«Sì, come lo sai?» risposi sulla difensiva.

«Tua madre è preoccupata. Ti riporto da lei» esclamò brusco e ignorando la mia domanda.

«Aspetta, fermati! La mia valigia!!» urlai indicando la borsa, che si trovava poco distante da noi, già sommersa da cumuli di neve.

Con la mano libera la prese. Poi lo sentii bofonchiare: «Ma quanto è pesante, che ci tieni dentro? Cadaveri fatti a pezzi!»

«Può essere un'idea, magari il tuo», mormorai stizzita.

«Zitta! Se no ti lascio dispersa qua. Non voglio sentire un'altra parola!» ordinò rabbioso.

Rimasi in silenzio. Mutismo di protesta e rigida come un ramo di un albero. Non mi fu neppure difficile esserlo, visto che ero congelata.

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