Cap XIV
Ansia, paura, insicurezza. Ma anche speranza, sollievo, fiducia.
Tutto contribuiva all'aria che si respirava in città in quei giorni.
La decisione era passata senza troppi problemi al consiglio unitario. A Jinhe non piaceva molto, ma comprendeva perché tutti fossero così fiduciosi della vittoria di Bai.
Baciato dall'Equilibrio, capace di sconfiggere e uccidere un maestro dell'Alta Scuola Destra, un maestro rinomato a capo di ben duecento allievi.
In effetti, era la scelta più logica.
Fu e Gu erano troppo avanti con gli anni, Jinhe era convinto avrebbero potuto mettere in seria difficoltà quel generale, ma non poteva essere così sicuro che avrebbero vinto.
L'unica cosa che gli rodeva, era che la fama di Bai derivasse dall'uccisione di suo padre.
Erano passati tre giorni dalla decisione.
La notte stessa della riunione, Jinhe aveva dormita poco. Poco e male.
Un sogno vivido, lucido, in cui Bai veniva travolto e ucciso da un qilin enorme, che lo riduceva in pezzi.
Sua madre che festeggiava.
Feihua, Xang, Aoren e tutti gli altri che venivano tormentati dai soldati vincitori.
Non c'era stato modo di riprendere sonno. Aveva rivisto la scena molte volte, sempre con lo stesso risultato.
Una volta, il vecchio Li si era precipitato nella sua camera. C'era voluto molto per convincerlo ad andarsene, ma Jinhe aveva glissato sul sogno specifico.
Ricordava solo che c'era Feihua, e che aveva dovuto far ricordo a un'intera bottiglia di vino, per trovare il coraggio di tornare a letto.
Ma nulla, né vino né lavoro, gli avevano scacciato gli incubi.
Per la disperazione, Jinhe aveva coltivato. Non lo faceva da anni, ma neppure il dolore lancinante in tutto il corpo sortì effetto.
Ovviamente, vari maestri di scuole minori, con i loro allievi, e molti mercanti erano venuti a chiedergli conto del suo voto. Jinhe aveva dato ordine di chiudere i cancelli.
«Padron Fo» aveva detto Li, torcendosi le mani. «ci sono i maestri del Tuono, della Nebbia e della Serpe Azzurra...»
Jinhe, che era nel bel mezzo di un'emicrania, aveva fatto forza sulle labbra per dischiuderle e parlare.
«Non ricevo nessuno, Li, e, prima che vengano, vale anche per il maestro del Pruno, per tutti quelli della sua scuola, e soprattutto per la signorina Chung»
Gli faceva sempre uno strano effetto usare il cognome di Feihua.
Stava finendo di parlare, quando Aoren entrò nella stanza.
«Jinhe! Jinhe!» il qilin quasi ruzzolò sul pavimento. «Il mio maestro... il mio maestro vuole parlarti!»
«Non intendo parlare con nessuno» disse Jinhe, massaggiandosi le tempie e resistendo all'impulso di urlare. «Soprattutto, non come intendono loro»
«Jinhe» Aoren aveva le guance rosse, e da come si grattava le corna non era solo per l'affanno. «Insomma... potrebbero sfondare le porte! Ecco... magari... magari, davvero, dovresti parlarci; parlarci davvero, intendo, come... come dei qilin...»
«Civili?» Jinhe si concesse di sorridere.
«Lascia perdere, Aoren, per una volta essere civili è inutile»
Sbuffando, si sciolse le spalle, per poi infilare una mano nella tunica.
Il sottile nastro di stoffa era largo appena un dito, sporco di sudore, macchiato in più punti, e non solo dal suo corpo.
Jinhe era così abituato a sentirlo contro il suo collo che, quando lo prese, si sentì nudo.
Due caratteri erano cuciti con semplice linee rosse sulla stoffa nera.
«Li, appendi questo alla porta. Se qualcuno lo chiede, digli che parlerò solo con chi lo avrà in mano»
Aoren lo fissò, gli occhi che guizzavano sul suo volto, due biglie impazzite che rimbalzavano da un lato all'altro, senza un tracciato logico.
Il vecchio servitore prese il nastro con riverenza, tra pollice e indice, come se stesse tenendo un tizzone ardente.
O un serpente velenoso.
Jinhe si massaggiò il collo, valutando se indossare qualcosa di simile.
«Erano macchie di... di...» balbettò Aoren, ma senza riuscire a finire la frase.
«Sì» Jinhe si diresse al tavolo, cercando senza successo qualche documento da compilare. «Quasi tutto mio»
Aoren divenne così pallido che, per un momento, Jinhe fu certo il fratello sarebbe svenuto.
Rimasero lì, immobili, uno a fissare l'altro, l'altro a ignorarlo.
In realtà, Jinhe non aveva idea di cosa dire o cosa fare. Nemmeno Aoren era così idiota da uscire, non con metà della città pronta a pestarlo per essere il fratello di un traditore.
«Pensi che Bai perderà?» disse il qilin, alla fine.
La voce gli uscì a tratti, come se la gola fosse ostruita.
Dovette prendere un lungo sospiro, più per ritardare la risposta che per pensarci su.
«Non lo so» ammise Jinhe. «Tu vuoi che perda?»
Aoren, finalmente più calmo, si sedette davanti alla scrivania.
«Beh... non lo so» ammise. «Voglio dire: se vince siamo salvi, ma... non mi dispiacerebbe vederlo sconfitto»
Jinhe guardò il fratello, dritto negli occhi. Era troppo stanco per metter su la solita mascherata, quindi l'altro si irrigidì. Un lampo di paura saettò nelle pupille di Aoren.
«Intendo... insomma...» il giovane qilin balbettò, senza troppa convinzione. Incapace sia di distogliere che di sostenere lo sguardo, continuava a muovere le pupille verdi, facendoli rimbalzare da un lato all'altro del volto.
«Aoren» Jinhe vide il pallore cadaverico del fratello. «Nel murim, sconfitto vuol dire morto».
Vide il fratello aggrapparsi alla sedia, le unghie che quasi scavavano il legno laccato.
Pareva un bambino che cercava di tenersi alle gonne della madre.
«Beh... se... se lo meriterebbe» balbettò alla fine.
Jinhe annuì.
La testa gli rimbombava, gli occhi gli bruciavano, e tutto il corpo sembrava essere stato colpito da mazze di ferro. Sforzarsi la mente a tirar fuori della filosofia spicciola era troppo.
E, in fondo, anche lui aveva sempre pensato che Bai meritasse quantomeno una bella ripassata.
Non la morte, quella non l'avrebbe augurata a nessuno, ma Jinhe non era così ipocrita da non aver sognato, più volte, di spezzare le corna di Bai a mani nude.
Era stato un sogno che lo aveva tenuto in piedi per anni, fino a quando il maestro non lo aveva svegliato a suon di realtà.
Il ricordo gli balenò davanti agli occhi. La mano destra iniziò a tremare, e lui prese a passarsela sulla tunica, come a pulirla da qualcosa.
«Jinhe...» iniziò Aoren, riportandolo in quella sala, al momento presente. «Tu... tu...»
«No, non intendo sostituire Bai» disse.
Aoren scosse la testa, le unghie avevano scavato solchi nei braccioli.
«Perché non l'hai mai sfidato?»
Jinhe sollevò la testa, il collo scricchiolò per l'inattività prolungata.
Le parole gli scorsero sulla lingua, rincorrendosi, afferrandosi, legandosi in grumi che tutto sembrano meno che frasi.
«Perché... ho paura» disse Jinhe, lentamente, buttando fuori una lettera alla volta. «Ho paura... del dopo»
«Se è per la mamma che hai paura, ci sono io» fece Aoren, dubbioso anche lui. «Insomma... non sono più un bambino, e il vecchio Li può mandare avanti gli affari, e c'è la sala da té, ho le mie quote... potrei prenderne altre, e sono sicuro Xang rimarrebbe».
«Grazie per darmi già morto» Jinhe sentì le guance scricchiolare, mentre abbozzava un sorriso.
Aoren tossicchiò imbarazzato.
«Sei tu che ti preoccupi per queste cose» provò a difendersi lui.
«Non certo perché, quando sono tornato, avevate venduto anche le tegole del tetto...» disse Jinhe, abbandonandosi contro lo schienale.
Il fratello tacque, guardando la parete.
Non era stato lui a gestire quelle vendite, e non lo voleva biasimare per quello, ma entrambi sapevano che, se Jinhe non fosse tornato, probabilmente Aoren e la madre avrebbero finito per vendere la casa un pezzo alla volta.
«Cosa avresti fatto, se lo avessi sfidato io?» chiese ancora Aoren.
Jinhe si fece prima scrocchiare la schiena, mandando una serie di suoni simili a legna che si spezza.
«Gli avrei parlato» disse con uno sbuffo. «E l'avrei convinto a non accettare».
Aoren sbuffò, ma non ribatté. Jinhe si concesse di alzare un sopracciglio, sorpreso.
Il fratello incrociò le braccia e accavallò le gambe, cercando di darsi un tono.
Jinhe ridacchiò.
«E se avessi avuto anche io un nome del Murin?» fece ancora Aoren.
Stavolta, Jinhe sentì tutta l'allegria abbandonare il suo corpo.
Senza che lo volesse, la faccia gli divenne seria, e dal sussulto di Aoren capì che anche gli occhi si erano accesi di una luce cupa.
«L'avrei sfidato» disse. Stavolta, la voce gli uscì fredda, al punto che vide il fratello rabbrividire.
«Ma... se l'avessi sfidato prima io?» l'altro si grattò un corno. «Voglio dire, se io sfido un maestro del Murin, non è che tu possa bloccare il duello, no?»
«Sì, posso» Jinhe vide la sorpresa sul volto del fratello. «Aoren, esiste una cosa chiamata "Diritto del Monte", nel Murin esiste una precisa gerarchia di scuole e maestri, e c'è un motivo se la mia si chiama "alta scuola"; in buona sostanza... se io sfido qualcuno col mio nome del Murin, quel qualcuno non può tirarsi indietro, a meno che non voglia essere eraso dal Monte Cheng, anche se ha accettato un duello da un altro maestro del Murin».
Aoren lo fissò, come se lo vedesse per la prima volta. Aprì la bocca per fare un'altra domanda, ma Jinhe lo anticipò.
«C'è un solo qilin che mi precede nel Diritto del Monte; e non è il maestro Fu».
Aoren non indagò oltre.
Stanco di quell'inutile gioco di sguardi, Jinhe si alzò per prendere qualcosa da bere.
«Solito té di pesco?» chiese Aoren.
«Siamo adulti, possiamo bere sul serio» disse, mettendo una piccola bottiglia scura sul tavolo.
Ne versò due piccoli bicchieri, alti appena due dita. Buttò giù il suo in un solo sorso.
Il fratello lo prese, annusandolo con cura prima di berlo. Tossì così tanto, quasi cadendo dalla sedia, che Jinhe non trattenne una risata.
«Non fa ridere...» Aoren si dava dei colpi sul petto, la voce rauca mentre provava a fermare le lacrime.
«Punti di vista». Jinhe si versò un altro bicchiere.
«Senti... ma tu hai mai... insomma...» chiese Aoren. Tra tosse e imbarazzo non riuscì a terminare la frase.
Jinhe sospirò, posando il bicchiere, senza bere.
«Undici volte» rispose. «Non undici persone, Aoren, ma per undici volte mi sono trovato a dover usare la forza per uccidere».
L'altro annuì, le mani che tremavano sui braccioli, ma comunque una certa luce d'interesse negli occhi.
«Non è bello, non è epico, non è liberatorio» disse Jinhe, senza sapere nemmeno lui come definire il proprio tono. «Non ti fa dormire la notte, non riesci a dimenticarlo, e rimani col costante, eterno, persistente sentore che toccherà a te, che tu sarai il prossimo; inizi a sentire l'alito putrido dei morti sul collo, sulla pelle, ti scorre addosso come un olio che non puoi lavare via».
Aoren rimase in silenzio, i gomiti sulle ginocchia, la faccia tra le mani, le corna basse.
La bocca si atteggiava in forme che sarebbero potute forse essere parole, se il qilin avesse trovato suoni per esprimere i suoi pensieri.
«Ma... i soldati...» disse, dopo un poco.
Jinhe annuì, buttando giù un terzo bicchiere di liquore.
«Uccidere è orribile, Aoren, ma anche la cosa più turpe può essere fatta, se ha uno scopo; tutto dipende dal perché stai uccidendo».
Il fratello non disse nient'altro.
Con le ginocchia tremanti, Aoren si alzò e uscì dalla stanza, lasciando Jinhe a ignorare i suoi ricordi.
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