6. Fune spezzata
La mattina dopo nella tenda c'ero ancora solo io, mio padre era rimasto fuori tutta la notte.
Quando uscii un profumino delizioso mi avvolse completamente e il tumulto della tribù già immersa in preparazioni culinarie mi ricordò subito che giorno fosse.
Ricorreva la festa dei ciclamini, segno che un altro anno fosse volato. Se non ci fossero le feste a scandire lo scorrere del tempo non ci si renderebbe nemmeno conto dell’inesorabile trascorrere dei giorni in un ineluttabile flusso costante.
Al Grandefaggio era tutto in subbuglio. Ernest era tornato a girare fra la gente mostrando a tutti, increduli, quanto fosse cambiato nel giro di un giorno. Adesso stava saltando sui tavoli lanciando fiori alle ragazze che lo seguivano con gli occhi. Hugo cantava, intonato come una cornacchia, una sua composizione che recitava più o meno così
"Fe-fe-festeggiamo,
Ci-ci-ciclamini,
E no-non ce ne freghiamo!..."
Ad un certo punto fece fare una giravolta ad Eleonora e la sollevò in braccio. Tutti ridevano e scherzavano l'un l'altro, tranne Stiven che vidi camminare furtivamente scrutando tutti alla ricerca di qualcosa. Lyvet arrivò dopo di me, sorprendendosi anche lei di quella festa improvvisata.
"Ma il maestro?" mi urlò per sovrastare le risa della gente
"Non ne ho idea" risposi con lo stesso tono.
"Tu stai bene?" mi disse, esitando prima di parlare.
"Si, ho solo bisogno di stare un po' da solo" dissi.
Sentivo un grosso peso sul cuore quindi mi allontanai senza sapere bene dove volessi arrivare, solo per sfuggire da tutto quel caos.
Camminai seguendo la scia del silenzio e poco lontano trovai mio padre. Se ne stava seduto dove nessuno potesse notarlo, nascosto sotto un antico salice le cui foglie pendevano strette strette come uno scudo al mondo esterno. Mi sedetti accanto a lui e notai un piccolo varco in quella parete di verdi gocce aperto quel tanto da poter vedere cosa ci fosse oltre.
In lontananza Alyssa e Yvan, i genitori di Lyvet, ballavano lentamente, tuttavia il movimento di oscillazione non impediva ad Yvan di pestare accidentalmente i piedi della moglie. Così ridevano insieme per la sua goffaggine, con al collo un'unica lunga ghirlanda di fiori intrecciati che li abbracciava entrambi.
"Un tempo anche io e tua mamma eravamo così felici" disse in un sussurro che quasi pensai fosse stato frutto di un'illusione. Bevve un sorso dalla fiaschetta che teneva in mano, già svuotata per metà.
Ma mamma non c'era più. Da dieci anni.
Volevo urlarglielo, pregargli di andare avanti, dirgli che mancava anche a me da morire.
Avrei voluto ci fosse stata ai miei compleanni, che mi avesse accompagnato per mano a vedere le stelle, che mi avesse insegnato quanto fosse bella la notte. Avrei voluto che ci fosse stata lei a colmare quel buco nell'anima che mi portavo dietro come un demone infernale.
"Non sei stanco di essere diffidente?" dissi infine, era da tanto che pensavo questa domanda.
Mi guardò con gli occhi gonfi di una vita livida che vogliono solo piovere lacrime.
"Sto morendo dentro per questo"
"Allora permettiti di credere"
"Non posso!" m'interruppe gelido.
Bevve ancora.
"Sai, lei sapeva che quella sera sarebbe morta. Si, lo sapeva"
-Ti prego non guardarmi con questi occhi, guarda altrove, ti prego, sono insostenibili- avrei voluto dirgli.
"Quel giorno avrei dovuto dirle che l'avrei portata a vedere le cascate Cristalline. Ci era sempre voluta andare ma io avevo sempre rimandato. Se ce l'avessi portata prima, se c'è ne fossimo andati quel giorno stesso lei adesso non sarebbe morta." aveva il viso distrutto.
-Non puoi darti le colpe, non potevi saperlo- ero sul punto di dirgli, ma le parole mi morirono in gola.
"Quella mattina" bevve ancora un sorso, poi un altro "quella dannata mattina che sembrava così bella, lei mi ha sorriso. Sorrideva sempre. E sai che mi ha detto? Mi ha sorriso e mi ha detto 'godiamoci questa giornata'"
Ora non mi guardava più, guardava il vuoto, cercava qualcosa che non avrebbe mai trovato.
"Lei lo sapeva" sussurrò di nuovo.
Per quanto volesse nasconderle, vidi delle scie chiare bagnargli il volto.
"Che è successo?" mi azzardai a dire. Non glielo avevo mai chiesto. O meglio non mi aveva mai dato una risposta quando da piccolo chiamavo mamma aspettando che venisse. Lui mi diceva di non dirlo più, mi pregava di stare zitto e mi abbracciava. Con il tempo avevo smesso di chiedere.
"È stata uccisa" disse tutto d'un fiato.
Adesso avrei voluto fargli un centinaio di domande.
"Ho trovato io il corpo, steso per terra, lasciato a dissanguare come se non contasse nulla" si coprì la faccia con le mani, completamente distrutto nella sua parte più debole. Come se una lama gli avesse triturato il cuore e lasciato lì la polvere, come se stesse morendo di nuovo. Di nuovo, dopo quella notte.
"Ed è stato qualcuno della tribù, ne sono certo. Qualcuno di cui si fidava al punto da allontanarsi da tutti senza esitare. Lei sarà andata, con quel suo animo bello e gentile, e le hanno piantato un paletto nel petto".
Sbiancai, lasciando andare i singhiozzi, lasciando che tutti quegli anni senza sapere niente mi si fiondassero addosso di colpo, schiacciandomi al peso di un'orrenda verità. Si era fidata, l'avevano uccisa. La vita si era spezzata troppo in fretta e non c'era modo di tornare indietro. Un'altra possibilità, un'altra vita...lei se la meritava.
Mio padre si alzò ed io feci lo stesso. Alyssa ed Yvan non si vedevano più.
"Avrei voluto difenderti da tutto questo, figlio mio" mi mise una mano dietro la nuca e mi abbracciò "volevo che tu non dovessi sapere che la vita quando dà è solo per il gusto di togliere. Ma questa è la verità." si allontanò di qualche passo.
"Dove stai andando?" dissi ma lui continuò come se non avessi dovuto chiedere.
"Avrei voluto insegnarti qualcosa di meglio ma il più grande consiglio che posso darti è: fidati solo di te stesso." si fece sempre più distante "Ti prego, tienilo a mente". Sparì oltre le foglie cadenti del salice.
Un pensiero mi ronzò in testa e il mio corpo si mosse in automatico.
Lo seguii, tra la folla e nel chiacchiericcio della gente, passando tra le tende e oltre, nell'erba alta e selvaggia. Arrivò ai piedi del vulcano Strambo e un momento dopo sparì davanti ai miei occhi.
Corsi nel punto in cui lo avevo perso di vista, sempre più vicino a toccare Strambo finchè la mia pelle non abbracciò la roccia e sentii qualcosa aprirsi sotto i miei piedi. C'era una fessura grande abbastanza da far passare un uomo solo se consapevole di dove mettere i piedi: troppo attaccata al vulcano che la curiosità di chiunque si esaurirebbe prima.
Caddi con un tonfo alla fine del tunnel e cercai di riprendere rapidamente l'equilibrio. L'interno del vulcano era buio e freddo se non per una fioca luce che si faceva sempre più vivida man mano che avanzassi. Erano torce di fuoco che illuminavano il letto del vulcano. Dall'alto pendevano due lunghi sonagli alla cui estremità erano legate sfere di cristallo piene di fumo rosso.
Al centro, sette persone sedevano attorno ad un tavolo di legno rettangolare. A capotavola di quella che sembrava un'assemblea segreta c'era l'anziano Maggiore, il vecchio saggio Asutam. Anche se la nostra tribù era abbastanza libera, riconoscevamo tutti il rispetto verso la figura più anziana che il tempo aveva condotto alla matura età di centoquarantasette anni.
Era lui che in caso di guerra, consultando anche i membri del Consiglio (che a quanto pare dovevano essere lì seduti all'interno di Strambo), poteva prendere le redini della tribù e porre la sua profonda esperienza al servizio di tutti. Non ricordavo c'è ne fosse mai stato bisogno, forse perché l'assemblea si teneva in segreto, eppure il vecchio saggio Asutam era lì, con la lunga barba bianca che gli sfiorava i piedi ed incurvato sul suo bastone dorato.
Alla sua destra sedeva Yvan, poi Alfred (suo cugino) e la mamma di Ernest. Di fronte ad Yvan, dall'altro lato del tavolo, sedeva mio padre, accanto c'era la signora Rosita ed infine riconobbi il padre di Eleonora: Ector.
Lui era cresciuto credente e diventato diffidente come mio padre. Solo che Eleonora, a differenza mia, ha avuto qualcuno che lottasse per la sua libertà. Sua mamma Cintia, infatti, dopo l'ennesima discussione con Ector, lo ha allontanato. Avevo sentito dire che si fosse trasferito in un'altra tenda e che Eleonor potesse andarlo a trovare quando volesse. Tuttavia, lei era rimasta libera.
L'anziano Asutam picchiò tre volte il bastone per terra. "Vi ho convocati qui quest’ oggi perché è accaduto qualcosa che non si verificava da molto tempo" disse con la sua voce rauca ma imponente.
"Siamo venuti già ieri notte, che cosa ci facciamo di nuovo qui?" Lo interruppe Alfred, poggiandosi una mano sulla sua grossa pancia che evidentemente bramava qualche stuzzichino che avevano già iniziato a cucinare per il banchetto.
"Lo lasci finire" disse la signora Rosita che, anch'essa un po'ingobbita, teneva molto al rispetto delle età.
"Abbiamo disposto i Cristalli Percettivi anni fa, affinché ci segnalassero l'avvicinarsi di un pericolo. Ieri, il solito colore grigio come la nebbia si era tinto di giallo, vi invito invece a guardali oggi"
Tutti i nasi si volsero in alto, ai sonagli e alle piccole sfere di denso rosso fiammante.
I tre diffidenti si guardarono allarmati.
"Si può prevedere quanto è imminente il pericolo?" disse mio padre.
"Ma quale pericolo! I Cristalli si riferiranno alla festa di stasera, magari la moglie di Ector lo farà rientrare alla tenda" doveva essere una battuta ma rise solo lui.
"Questo lo dici tu che hai interesse solo alle feste" gli rispose a tono Ector.
"Ma come ti permet-"
"SIGNORI" urlò Rosita "Manteniamo saldi i nervi. Maggiore Asutam" disse poi in tono più docile "c'è una risposta alla domanda di Elias?"
"Non è possibile prevedere con certezza il tempo riferito dai Cristalli Percettivi. Oggi, domani, forse anche tra un mese.
"In questo caso" prese parola la mamma di Ernest "credo che sia saggio non condividere la notizia con il resto della tribù per non destare malumori o preoccupazioni inutili"
"E lasciare il destino di tutti nelle mani del caso? Io non ci sto." disse mio padre con rabbia.
"Elias" Yvan e mio padre si guardarono un istante "tu sei coinvolto emotivamente in questa decisione perché sappiamo tutti quanto dolore ti abbia portato la morte di Keira. "
"Non nominare mia moglie! Non dimentico che è stato qualcuno di voi ad ucciderla"
Calò il silenzio. Yvan lo guardava come se potesse capirlo ma allo stesso tempo fosse ferito perché nell'accusa era incluso anche lui. Dopo la morte di Keira mio padre si era isolato da tutti, separandosi anche dal suo migliore amico Yvan, alzando un muro di diffidenza.
"Pensaci un momento. Tutti i diffidenti finirebbero per abbandonare la tribù e perdersi da soli nella foresta. Intere famiglie potrebbero dividersi. Tuo figlio..." mi appiattiti contro la parete "credi che tuo figlio vorrà seguirti?"
"Io so cosa è meglio per mio figlio. Mi seguirà" disse deciso. Me lo avrebbe imposto.
"E tu Ector?" disse la mamma di Ernest "lascerai Cintia ed Eleonora per andartene da solo?"
Ector non rispose. Non avrebbe mai abbandonato sua figlia, anche solo per guardarla a distanza.
"Bene signori miei, non c'è più nulla da dire" si spicciò Alfred "la faccenda resta fra noi. E adesso, se permettete, abbiamo una festa da preparare"
"La faccenda non resta fra noi. Non potete essere voi a scegliere per tutti" disse mio padre.
La pancia di Alfred si fece ancora più grossa dalle risate "Andiamo Elias, l'ultima volta che quelle sfere si sono colorate era perché un orso si aggirava troppo vicino a noi. Quell'avvertimento ci è fruttato un arrosto delizioso."
La signora Rosita parve riflettere su questo.
"Giusto" confermò la mamma di Ernest "potrebbe trattarsi di un avvertimento positivo. Oggi è festa, quanto meno diciamolo domani"
Yvan annuì in segno di approvazione.
Il vecchio Asutam, che fino ad allora era rimasto in silenzio, prese la parola:
"Si deciderà attraverso una votazione. Quanti a favore del condividere la notizia oggi con il resto della tribù?" Solo una mano si alzò in aria.
La signora Rosita, dapprima indecisa, ora si era convinta che avevano tutti gli strumenti per abbattere un possibile orso. Ector guardò altrove, pensando alla figlia.
"Bene bene" disse Alfred "Quanti potranno mai credere al più paranoico tra i diffidenti che annuncia come sempre il pericolo?" Sorrise maligno.
Mio padre si alzò di scatto e io presi a correre più veloce che potessi fino a quando non fui catapultato nuovamente nella frenesia della festa.
Mi accasciai ai piedi di un albero e guardai le persone ridere e canticchiare con le mani sporche d'impasto a passarsi spezie da una tenda all'altra.
Fu come essere uno spettatore in una vita che non mi apparteneva. I suoni mi arrivavano attutiti, coperti dal frastuono dei miei pensieri. Capivo il motivo di molte scelte di mio padre, la vita che lo aveva portato a non fidarsi di nessuno, il volermi proteggere a tutti i costi. Comprendevo ma non condividevo. Ci sarebbero stati altri mille modi per andare avanti, ma questo era il suo.
La testa mi scoppiava e avevo l’affanno. Avrei potuto avvisare qualcuno, ora che lo sapevo dovevo fare qualcosa.
O forse no. Infondo non dovevo essere lì, in fondo nelle mie mani era sempre evaporata ogni responsabilità. Io non ero nessuno per poter decidere al posto del Consiglio.
Li vidi tornare dopo di me uno alla volta. Il primo fu mio padre che appena mi vide si avvicinò a passo spedito
“Stasera resti alla tenda” disse “se vuoi qualcosa dal banchetto te l’andrò a prendere io”
“Come ogni anno, papà, non ne ho bisogno”
Fece finta di non sentire la nota amara nella mia voce.
“Perché non sei al Grandefaggio?”
“Il maestro era in ritardo” poi non mi ero interessato di sapere se fosse venuto o meno poiché ero troppo occupato a seguirti “ora ci torno” mi affrettai ad aggiungere prima di far parlare tutti i miei pensieri.
“Okiro, mi raccomando, quando finisci ti aspetto alla tenda.”
“Va bene, ci sarò” dissi sapendo di mentire.
Il maestro non arrivò.
In quell’anniversario della morte di mia mamma la sentivo più vicino che mai. Ebbi l’impressione di vederla sorridere, lì, tra gli alberi, quando la notte iniziò ad ingannare la vista.
Yvan stringeva la moglie, Alfred, Ector e tutti quelli del Consiglio si mimetizzavano nella folla a festeggiare come se tutto forse tranquillo. La signora Rosita mi venne a portare una fetta della sua crostata al mirtillo e, quando la rifiutai, vidi Alfred mangiarla per me.
Me ne stavo sdraiato per terra a guardare il cielo. In quel momento non metteva paura, era così bello, con qualche puntino di luce lontano che fissavo lampeggiare.
"Ehi che fai qui tutto solo?" la voce di Lyvet mi risvegliò dai miei pensieri. "Persino il maestro Kay si è preso un giorno di festa, divertiti anche tu"
"Hai ragione" dissi abbozzando un sorriso, ma notai che il suo sguardo era più cupo del mio.
"Prima però dobbiamo parlare" disse.
La guardai preoccupato.
"Non qui" sussurrò non appena Ernest ci passò accanto, saltellando stranamente a braccetto con Hugo. Come poteva cambiare così tanto da un giorno all'altro?
Mi alzai ed io e Lyvet ci allontanammo dalla gente. Appena fummo abbastanza lontani dalle orecchie altrui, disse fremente: "Ho un brutto presentimento"
"In che senso?"
"Io...non lo so ma ho paura. È già da un po' che ho come una sensazione di ansia, ma oggi proprio non so controllarla" non riusciva a stare ferma e nei suoi occhi traspariva tutta la sua agitazione. "E lo sai cosa ha detto mio padre? Che è colpa tua che mi stai facendo diventare diffidente!" continuò
"Io?" chiesi stupito.
"Pensa che essendo tua amica mi stia facendo influenzare dalla paranoia dei diffidenti. Ma si sbaglia di grosso! I miei non sanno che tu non vuoi nemmeno essere diffidente. Mi hanno persino consigliato di starti lontano."
Dovette notare la mia espressione farsi ancora più triste poiché aggiunse "Scusa, non dovrei nemmeno dirlo a te. Non voglio che pensi che questo per me cambi qualcosa"
"Non dirlo nemmeno, i veri amici possono dirsi tutto, ricordi? Me lo hai detto tu" risposi. Lyvet mi abbracciò d'istinto e avrei voluto che il tempo rallentasse un po', catturato in quell’istante.
"Vieni con me" dissi, e presi a camminare, con la mano stretta nella sua, verso il buio del bosco. Le camminavo davanti a passi decisi, quando, dopo pochi metri, sentimmo la voce di mio padre chiamarmi preoccupato. Lyvet si fermò di colpo
"Tu non dovresti rientrare?" disse
"Tu non dovresti starmi alla larga?" sorrisi.
Poi mi girai e ripresi a camminare.
"Dico sul serio Okiro, se non rientri subito si arrabbierà."
"Ci mettiamo un secondo, promesso. "
"Un secondo? "
"D’accordo, un pochino di più"
E riprendemmo a camminare tra le ombre dei rami e il tappeto di foglie scricchiolante sotto i nostri piedi.
In quei 10 anni non avevo passato un giorno senza che la mia mente sfiorasse l’idea di come sarebbe stato vivere dove non c’erano regole, vivere di libertà, senza l’opprimente peso di rinchiudere il giorno in degli orari e la notte in qualcosa da vedere solo ad occhi chiusi, nel sonno, come un incubo infernale. Ormai non riuscivo a sopportare più di rinchiudere ancora una volta me stesso nel mio corpo, di lasciare che le parole e le gesta mi nascessero e morissero dentro. Dal giorno in cui avevo capito che la vita fosse qualcosa di più grande della quotidianità, che fosse un mondo più potente a dominarla, non mi importava più niente.
Avevo saltato la lezione al Grandefaggio, me ne ero andato di nascosto nella notte per raggiungere Lyvet, avevo pedinato mio padre e adesso non mi importava nemmeno di lasciarmi alle spalle la sua voce che continuava a chiamarmi. Non ero una marionetta, e prima che la vita dominasse me, dovevo riuscire a viverla.
Poco dopo mi parve di vedere qualcosa accendersi nell'oscurità, ma prima che potessi guardare meglio era tornato tutto di nuovo buio. Eravamo quasi arrivati: i tronchi dei rami si intrecciarono al nostro passaggio e un cuculo picchiettava da qualche parte tra le chiome verdi.
"Okiro guarda" mi disse Lyvet a bocca aperta
Poco più avanti centinaia di piccoli puntini di luce si rincorrevano lasciando dietro di sé una fugace scia luminosa che finiva col perdersi di nuovo nel buio e riapparire ancora più bella.
"Lucciole" sussurrai.
Lyvet cercò di prenderne una, ma ogni volta che apriva la mano credendo di esserci riuscita, non vedeva che buio. Così si limitò a correre spiegando le braccia e facendole brillare al suo passaggio come stelle attorno alla luna.
Quando arrivammo, quest’ ultima era accesa in cielo rischiarando l’erbetta, e il suo chiarore si rifletteva in un piccolo specchio d’acqua. Limpido, pulito. Sembrava cristallizzato nel silenzio della notte, interrotto solo dal suono delle cicale. Mi sedetti per terra, poggiando la schiena ad un’enorme roccia la cui ombra si era gettata alle spalle. Lyvet fece lo stesso.
"È passato molto più di un secondo" disse lei nel silenzio, fissando l’acqua.
"Già, dovremmo rientrare" mi girai a guardarla negli occhi, illuminati da quella sfera quasi completa nel cielo. "Oppure possiamo restare e guardare insieme quanto è bella questa luna. Solo noi" anche i miei occhi erano lucidi, ma non per colpa della luna.
Ci guardammo senza dire nulla, poi lei deviò lo sguardo e mi chiese come facessi a sapere di questo posto.
"Ci sono stato soltanto un'altra volta, questo posto mi ricorda che sto vivendo. Ti sembra buffo, vero?"
"No. E’ così bello qui, non ci sono mai stata."
"Ci tenevo… che tu lo vedessi"
Rimanemmo a contemplare il paesaggio per un tempo indefinito, sotto il continuo brillare del cielo. Poi ci bagnammo i piedi in quell’acqua gelida e li ritraemmo subito come se ci fossimo ustionati. Quando la notte fu più profonda, sdraiati di nuovo sul masso, lei si addormentò ed io mi persi nel suo viso sereno che non avrei mai voluto vedere turbato. Quando una farfalla, di un blu bellissimo, quasi come se avesse fatto un tuffo nella luna e ne fosse uscita spruzzata della sua luce, le si poggiò sulla guancia, Lyvet si svegliò d’istante. Si guardò attorno e si stiracchiò.
"Dobbiamo rientrare" disse tutto a un tratto.
Iniziammo a percorrere la strada verso le tende finchè Lyvet non mi fermò un momento.
"Che cosa gli dirai adesso? Ti starà ancora cercando"
"Gli dirò che se potessi tornare indietro nel tempo non cambierei nulla"
Quella sera, mosso dalla volontà di rompere le anguste linee che delimitavano il mio essere, avevo scoperto qualcosa di meraviglioso nella mia paura: avevo scoperto quanto potesse essere bella la notte. Non solo fatta di buio e tenebre che nascondono e risucchiano la luce, ma le stelle, la luna, le lucciole, l'ebrezza di camminare nel rischio di perdersi.
Era notte inoltrata, forse tra poche ore sarebbe sorto il sole ma quello che la nostra tribù vide prima non fu il rossore dei suoi raggi ma una fiamma alta in cielo.
"Okiro quello cos'è?" disse Lyvet
Un nuvolone di fumo grigio e rosso saliva dal vulcano Strambo, così denso e grande che era impossibile confondersi.
Iniziammo a correre verso le tende e man mano che ci avvicinavamo sentimmo crescere la confusione generale.
Alle tende era tutto un caos. Le persone correvano prendendo cose, preparandosi forse a fuggire nell'immediato, mentre alcune, ubriache, venivano scaraventate al suolo o crollavano loro stesse durante la corsa.
"OKIRO" gridò mio padre "DOV'ERI, SONO ORE CHE TI CERCO!" mi prese il braccio per correre ancora più velocemente verso la tenda.
"ASPETTA!" urlai, Lyvet mi teneva ancora la mano “i suoi genitori?” dissi a mio padre che si fermò un momento e li cercò con gli occhi.
"Lì! VAI!" disse a Lyvet "Noi adesso dobbiamo andarcene" Lyvet mi lasciò la mano e mentre corse dai suoi genitori si girò indietro solo una volta, ma mio padre aveva già ripreso la corsa trascinandomi dietro di sé. Il fumo era aumentato e prima che noi raggiungemmo la tenda, la terra ringhiò facendoci barcollare tutti.
Mio padre prese un sacco e me lo sistemò in spalla "Qui c'è quello che potrebbe servirti per il viaggio. Il maestro sta arrivando." solo allora compresi davvero cosa volesse fare.
"Il viaggio? Dove andiamo? E perché con il maestro?"
Mio padre non rispose "Eccolo!" disse solo quando una figura si avvicinò verso l'ingresso della tenda.
"E il resto della tribù? Andiamo tutti dalla stessa parte, vero?" continuai a chiedere.
"Mi raccomando Kay" gli disse, poi portò me verso di lui e mi guardò mentre ora era il maestro Kay a trascinarmi con lui. Capii che mio padre non sarebbe fuggito. Capii che non lo avrei più rivisto, nè lui, nè Lyvet, nè nessun altro.
"NO!" urlai mentre una roccia incandescente schizzava infuocata verso la foresta.
Il maestro correva dalla parte opposta e io feci appena in tempo a vedere le fiamme divampare a tutta velocità verso le tende.
Diedi un grido strozzato e liberandomi dalla presa del maestro, tornai indietro con quanta forza avessi in corpo.
Un altro lapillo si librò nel cielo ancora scuro e scese in picchiata sopra di noi.
"LYVET!" urlai, la sua tenda era già andata in fiamme. Piangeva. Mi strinse la mano, assicurandosi che io prendessi quello che si stava nascondendo in grembo. Sentii qualcuno afferrarmi da dietro, riconobbi il maestro, poi una roccia bianca circondata da fiamme cadeva ineluttabile sopra di noi. Fu l'ultima cosa che vidi prima dello schianto.
È strano quante cose possano cambiare a distanza di un giorno: allontanare il male, diventare amico del tuo nemico, cambiare etichetta. Ignoranti del domani, continuiamo a salire, giorno per giorno, tirando quella fune che ci tiene in bilico sul precipizio. Ancora un giorno, poi un altro, un altro ancora... continuando a chiederci quando la corda si spezzerà. Sappiamo solo quello che abbiamo oggi, ma domani, può cambiare tutto.
*****Angolo autrice*****
Ciao adorati lettori, vi è piaciuta questa svolta? Cosa sta succedendo? Cosa avverrà adesso? Spero di avervi incuriosito al punto da accompagnare Okiro nel suo viaggio verso...dove?
Lo scopriremo insieme nel prossimo capitolo.
Baci baci❤
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