5. Compiuto e scampato

Che senso ha preoccuparsi di vivere se si può perdere tutto da un momento all’altro? Che senso ha andare a lezione se per la morte saremo tutti ignoranti?


Era questo che mi domandavo durante il tragitto verso il Grandefaggio, annebbiato dalla stanchezza dopo la notte trascorsa insonne.
“Okiro, dai, svegliati. Devi andare a seguire la lezione.” mi aveva detto mio padre mentre fingevo che il tempo si fosse fermato, tenendo gli occhi serrati sul letto.
“Vuoi che ti ci porti in braccio?” continuò Elias accennando un sorriso.

Mi misi a sedere e sbuffai a questa routine che non aveva senso. Non trovavo il senso a niente. “Mi stai già addosso ovunque vada, non credi sia sufficiente?” Presi le mie cose e me ne andai senza dire nient’altro.
Quel giorno feci una cosa che non avevo mai fatto: arrivai al Grandefaggio, deviai strada e non andai a lezione. Dovevo riprendermi, volevo dormire.

“Okiro” sibilò una voce dietro di me “ma sei impazzito?! Ti stai stendendo su un rovo di more!”

“Pensavo fosse un cuscino”
“Che ti è successo, perché fai così?”
“Perché sei qui Lyvet?”
“Ti ho visto al Grandefaggio e non ti sei venuto a sedere. Dovremmo essere a lezione.”
“Tu eri a lezione e il maestro ti ha permesso di andartene?” chiesi dubbioso.
“Senza troppa modestia, ho un faccino troppo tenero e le scuse non mi mancano mai. Non provare a farlo più!”
“Cosa?”
“Cambiare discorso per evitare di rispondermi. Che ti ha detto il maestro ieri?”

Mi girai dall’altro lato e un rametto s’impigliò dolorosamente oltre la maglia.
“Niente, doveva solo rimproverarmi.”
“Okay” cantilenò incredula “Eppure avrei detto che fosse stato quello a turbarti così”
Allungavo la mano dietro la schiena nel tentativo vano di togliere quel legno che aveva trovato aggancio nella mia pelle.
“Non sono turbato!” dissi fin troppo brutalmente a causa dello sforzo “Voglio solo dormire.”
“Come va la ferita sul piede? Il tuo miscuglio giallo curativo ha funzionato davvero?” allungò la mano e con un movimento semplice estrasse quella punta dolorosa dalla mia pelle “perché penso che te ne servirà un pochino anche dietro la schiena adesso”

Feci un respiro profondo.
“Lyvet” dissi con calma “non voglio che ti prendi dei rimproveri per la mia idiozia del giorno. Dovresti tornare al Grandefaggio.”

“Oh andiamo! Non è dal maestro Kay che devo stare attenta ai rimproveri in questo periodo” s’incupì leggermente.

Si spostò e sentii il rumore delle foglie mosse dal movimento. Tenevo gli occhi chiusi sotto il peso delle palpebre.
“Ascolta Okiro, sai che per me la vita non è quella che può essere spiegata a lezione, e non voglio fare filosofia ma non mi importa nulla dei rimproveri degli altri. E poi c’è una cosa importante di cui dobbiamo parlare. Sei rimasto l’unico a non saperla.”

Aprii leggermente gli occhi e la trovai stesa su un fianco accanto a me. Il suo sguardo era profondo come l’immensità del suo cuore. Parlava, e anche quando lo faceva con leggerezza, sembrava che al posto delle pupille avesse due vortici pronti a risucchiare tutti in un mondo senza fine. Un mondo bellissimo.

“Hai presente cosa ha fatto Ernest? Quel rituale con le candele?”
“Si”
“Aveva detto che non lo avrebbe ripetuto e invece ieri lo abbiamo visto tutti.”
“Ieri?”
“Si, quando te ne sei andato con il maestro. Te lo volevo dire ma poi c’era tuo padre che ti ha fatto andare via. Comunque fammi spiegare” disse senza che io avessi aperto bocca. “Io e Stiven stavamo passeggiando per il bosco e ci siamo allontanati, lo ammetto, un po’ troppo.”

“Tu e Stiven?” la interruppi, rubandole un sorriso imbarazzato.
“Era solo una passeggiata…”
“Al tramonto…” continuai
“Non ci siamo resi conto che si stesse facendo tardi”
“Aspettando le stelle…”
“Ma la vuoi finire!” mi arrivò una pigna addosso
“Sto solo dicendo che a me sa di passeggiata romantica”
“Non stiamo insieme. E’ un bravo ragazzo, tutto qui. Ora possiamo andare avanti?”

Sorrisi ancora e lei riprese il racconto.
“Stavo dicendo… che fastidio essere interrotti. Ah si, ricordo! Ed è anche molto importante quindi stai bene a sentire. Stavamo passeggiando quando ho visto dei puntini rossi verso il confine del bosco. Ho sospettato subito cosa potesse essere, me lo sentivo.
Così sono subito tornata indietro, lasciando Stiven interdetto. Deve avermi creduta pazza ora che ci penso. Ho chiamato gli altri: Hugo, Ele, Melissa, Andrew. In poco tempo sono riuscita a trascinarli tutti lì, al confine. Non sarei mai voluta arrivare a questo ma Ernest era lì… stava dicendo delle cose in una lingua strana. Qualunque rituale fosse, ho il presentimento che lo abbia portato a termine prima che arrivassimo.”

“Ma qual è il suo problema?! A che serve il rituale?” il sonno con cui avevo inaugurato la giornata si stava nascondendo man mano che Lyvet continuava a parlare.
“Non lo so” disse guardando l’erba “ho detto a Stiven che volevo parlargli”
“COSA?”

Ci fu un momento di silenzio.
“Penso di poterlo far ragionare. Potrebbe dirci a che serve il rituale e perché l’ha dovuto fare.”
“L’ha dovuto fare? Tu credi troppo nelle persone: l’avrà voluto fare e basta perché non gliene frega niente di incendiarci tutti.”
“Io non penso sia così” mi rispose con una calma che fece sentire me fuori posto.
“Non tutte le persone sono rosa e fiori” provai a spiegarle
“Nessuno è solo more o spine. Al massimo un cespuglio completo “ e così dicendo allungò il braccio per cogliere una mora che assaporò con calma.

“Stiven ha organizzato un incontro con Ernest stasera alla sua tenda. Io gli parlerò.” continuò lei con il tono di chi non è disposto a cambiare idea.
“Addirittura? Non poi parlargli adesso e basta?”

“Chiaramente oggi non è venuto a lezione, gli stanno parlando tutti dietro da ieri. Forse ho sbagliato a chiamare gli altri ma stavolta ero convinta che non saremmo riusciti a spegnere l’incendio da soli, come abbiamo fatto l’altra volta, sentivo che era qualcosa di più grande di me. Lui ora non è abituato alle persone che gli parlano dietro, ha vergogna.”
“Perché è sempre stato lui a parlare male degli altri”
“E io ho sempre cercato di far sentire ascoltati tutti.”
Sospirai.
“A che ora dobbiamo andare?”
“Vieni con me??” s’illuminò tutta, regalandomi un sorriso.
“Proverò a venire, ma se faccio troppo tardi non aspettarmi.”

○○○○♡○○○○

-Okiro sei un idiota- mi dissi. Che scusa avrei dovuto inventare con mio padre?

Il buio era calato e le ombre si agitavano attorno alle tende. L’aria era fredda sulla pelle e il bosco era avvolto nell’oscurità. Me ne stavo disteso alla tenda, mio padre era uscito dicendo che sarebbe rientrato tra poco.
Era la mia occasione, dovevo sgattaiolare via adesso.

Ma se fosse stato appena fuori dalla tenda o mi avesse visto uscire da poco lontano? Se quando fosse tornato, non trovandomi, avrebbe scatenato il putiferio fino a venirmi a prendere dalla tenda di Ernest?
Poi mi diedi una risposta: ogni conseguenza si sarebbe ripercossa sulla mia pelle. Si sarebbe arrabbiato…okay. Forse dovevo iniziare a pensarla come Lyvet sui rimproveri.

Uscii dalla tenda e mi guardai attorno. Non c’era traccia di mio padre.
Feci un respiro profondo e, con il cuore che mi martellava nel petto, iniziai ad avanzare nella notte. Tenda dopo tenda sobbalzavo al minimo rumore di voci che scoprivo provenire dalla vita ancora attiva a quell’ora per me così tarda. Continuavo a guardare indietro, in allerta, come se ogni passo fosse un atto di coraggio.

Credo che avessi paura, oltre che di essere beccato ad infrangere le regole, della notte stessa. Nel profondo, nascosta in un angolino del cuore, sapevo la vera ragione di tutta quell’ansia: avevo timore del buio.

Alla mia età doveva essere una paura superata ma nessuno mi aveva insegnato ad affrontarla. Avevo vissuto alla tenda non appena il giorno iniziava a sfumare e dovevo scappare davanti al minimo pericolo, mi diceva sempre mio padre.
Forse la sua influenza mi aveva contagiato più di quanto volessi ammettere, forse ero davvero destinato ad essere un ’diffidente’ anche io.
Scacciai via il pensiero e velocizzai il passo.

La tenda di Ernest giaceva più lontano di tutte le altre ed appariva come una sagoma nella penombra.
Chiamai più volte il suo nome e quello di Lyvet ma rispose solo il silenzio.
Non potevo entrare senza dire niente, era notte, e se i genitori fossero stati dentro a dormire?

Mi avvicinai alla tenda e tesi l’orecchio finché non colsi un rumore che seppi definire dopo qualche istante.  Era il sonoro russare di un uomo profondamente assopito.
“Ehm…Okiro” saltai dallo spavento. La tenda si era aperta e la mamma sembrò riconoscermi con gli occhi ancora impastati dal sonno.
“Salve, mi scusi, cercavo Ernest, è con una mia amica, Lyvet”
“Ah si” disse semiassopita. Indossava una veste bianca da notte e aveva i capelli spettinati buffamente “sono andati da quella parte” mi indicò un punto del bosco dove non riuscivo a scorgere un filo di luce.
“Grazie” dissi e per non essere di maggior disturbo feci qualche passo per allontanarmi e la mamma rientrò a dormire.

Ero solo, nella notte che mi metteva i brividi, ritrovandomi ad avanzare tra i rami sempre più fitti perché volevo esserci per un’amica così buona con tutti.
Si era fatto tardi, Lyvet aveva dovuto pensare che non sarei più venuto, le avevo detto di non aspettarmi a lungo. Invece volevo essere lì per lei e non avrei permesso alla paura di modificare la mia volontà. Ernest era la persona meno affidabile con cui potessi lasciarla sola, e nemmeno Stiven mi trasmetteva particolare fiducia. Avrei tanto voluto arrivare prima ed impedire che si allontanassero dove nessuno poteva vederli.

Intanto continuavo a camminare, torturandomi i pensieri per deconcentrarmi dai rumori inquietanti che sentivo emergere attorno a me e pedinarmi. Ormai avevo fatto molti passi e per qualche strana ragione mio padre non stava ancora urlando il mio nome.

Ad un certo punto mi parve di udire la voce di Lyvet e, animato dalla speranza, presi a correre velocemente.
Iniziai a distinguere due figure. Riconobbi Ernest ad un metro da lei, stavano parlando. Ero ormai arrivato, rallentai. Poi misi a fuoco Lyvet.
Era immobile, ferma come un pezzo di ghiaccio.

Avevo imparato a riconoscere il significato di quell’azione: stava avendo una visione.
Ernest si diede una mossa, prese agitatamente qualcosa dalla tasca e nel momento stesso in cui la luce lunare si riflettè sull’oggetto diedi un urlo: era una lama appuntita.
“LYVET, NO!”
In un attimo mi gettai avanti a lei, presi la prima cosa abbastanza grande che trovai e la lanciai in direzione di Ernest. Udimmo un rumore sordo seguito dall’odore ferroso del sangue.

Si sentiva solo il respiro ansimante di due persone.
Il mio e quello di Lyvet.
“Che cosa hai fatto?” disse lei
“Ti ho salvato la vita”
Lyvet si mise le mani tra i capelli, mai come in quel momento avrei voluto accasciarmi a terra e scomparire.

La testa di Ernest perdeva sangue e temevo che se avessimo girato il corpo inerme avremmo trovato un foro grande quanto il sasso che gli avevo lanciato, cioè quanto tutta la mia mano aperta.
“Oh Guardiano aiutaci tu! Ti prego fa che non sia morto” ogni suo tratto del viso era teso e rigido per lo shock.

“Lyvet” dissi dopo un po’ facendola allontanare e spostare gli occhi dal corpo steso sull’erba. “hai visto dove siamo?”
Per terra c’erano candele spente e rametti radunati a cerchio.
“E’ dove ieri ha portato a termine il rituale. Siamo al limitar-“
“No” la interruppi sgranando gli occhi nel panico.
Il limitare del bosco.

“Dovremmo rientrare. Li senti questi rumori? Non dovremmo essere qui!”
“Okiro, calmati, Okiro. Non lasciarti condizionare da quello che non sappiamo. Perché sia proibito superare il limitare del bosco ci è ignoto e sinceramente abbiamo una cosa molto più importante a cui pensare.”

Mi guardavo attorno come se qualche creatura malvagia potesse sorprenderci improvvisamente alle spalle.
“Okiro c’è un c-cadavere da-“ si bloccò “Okiro!” il suo panico era più fitto del bosco.

Il corpo non c’era più. C’era il sangue. C’era il sasso. Ernest era sparito.
Ci guardammo senza dire una parola, l’unica cosa che riuscivo a percepire era il mio cuore pulsare fin dentro agli occhi.
“Ragazzi!”
Strillammo.
“che facciamo, una festa?”
Ernest era in piedi dietro di noi.
Indietreggiammo continuando ad urlare “Stai lontano! NON TI AVVICINARE. Aiuto!! STAI LONTANO!”

“Ragazzi, non sono uno zombie, sto bene. Mi gira solo molto la testa.”
“Ma il sangue! Eri steso. NON TI AVVICINARE.”
“Va bene, calmi. Mi siedo qua.”

Ci facemmo sempre più lontani prima di riavvicinarci lentamente, appurando che fosse davvero lui in carne ed ossa.
“S-stavi per ucciderla. Perché?” dissi recuperando fiato.
Sembrò rifletterci.
“Non lo so, davvero. E mi dispiace moltissimo. Sapevo solo che dovevo farlo” si alzò
“STAI LONTANO” urlai di nuovo
“Tranquilli. Ti giuro sul Guardiano che ora non voglio che darti un abbraccio. Mi sento più libero.”
“A-a che serve quello che hai fatto?” disse Lyvet, scossa nel realizzare che Ernest aveva effettivamente l’intenzione di ucciderla “il rituale”
“Il rituale? Si…si, ricordo che l’ho fatto. Nient’altro. Non lo so più. Comunque, amico, l’altra volta volevi lanciarmi un sasso ma questa volta hai decisamente centrato il bersaglio” disse ridendo

“Secondo te…per via della botta” sussurrai a Lyvet  “…potrebbe aver dimenticato qualcosa? O sta fingendo?”

“Ragazzi è male educazione parlare a bassa voce. Sono ferito, qualcuno mi aiuta a pulirmi prima che mi vedano i miei?”
“Sta zitto! E non ti avvicinare” dissi ancora io.
“Okay, okay non c’è bisogno che ti arrabbi” fece qualche passo barcollando e cadde seduto per terra.

“Dovremmo…?” mi sussurrò Lyvet
“Ti prego, no!”
“Si, dobbiamo”
Lo aiutammo a ripulirsi dal sangue e dalla terra e lo riaccompagnammo alla tenda.
Lui camminava davanti e io non gli staccai gli occhi di dosso nemmeno un secondo.

Quando arrivammo, lui accese una luce in uno spazietto angusto e disordinato (i genitori dormivano dall’altro lato di un siparietto di legno).

C’erano oggetti sparsi su un tavolino mezzo rotto, sassi, tavolette di legno, un drago ed un’aquila intagliati, miscugli d’erba, un foglio ingiallito arrotolato.
Tra i suoi miscugli prese quello con il liquido giallo. Era la boccetta curativa che il maestro aveva fatto fare a tutti noi.

“Sapete” disse “Sono bravo con queste pozioni. Penso che in futuro inventerò rimedi in barattolo per ogni cosa.”
Alla fine si curò da solo e si strinse la testa accuratamente in un panno. Aspettammo che si coricasse e, prima di andarcene, Lyvet mi sussurrò “La pergamena sul tavolo… prendila, ho la sensazione che ci servirà.”

Prima di lasciare Lyvet alla sua tenda, che si trovava prima della mia, aprimmo quel pezzo di carta che minacciava di sgretolarsi sotto le nostre dita a causa della sua antica età.
Provammo a leggere ma la confusione di simboli, disegni e linee ci rese complicato l’azione, immortalandola in un tentativo senza grandi risultati. L’unica cosa comprensibile era la raffigurazione dello stesso schema di rametti e candele che avevamo visto compiere ad Ernest, riportato su quel foglio sbiadito.
Lo conservai io in una tasca nascosta della mia maglia.

Rientrai alla tenda, con lo stomaco aggrovigliato in un’ansia che bolliva dentro di me nella speranza che evaporasse.
Solo quando mi resi conto che mio padre non fosse ancora rientrato, potei prendere un sospiro di sollievo.
Stava facendo giorno, ce l’avevo fatta.

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