3. Passeggiata verso la luna
Lyvet tornò subito indietro. Cosa avremmo potuto fare noi, senza chiamare aiuto? Niente. Io lo sapevo ma quando la vidi correre, dopo un attimo di esitazione, la seguii di fretta.
Ci inoltrammo nella ripida discesa di alberi.
A gridare era stato un ragazzo, uno di quelli che aveva iniziato a seguire Ernest ovunque, che ora si stava nascondendo dietro un enorme masso.
Per terra c'erano candele per metà consumate e rametti disposti in cerchio. Cosa diavolo stavano facendo? Un rituale? Mi percorse un brivido d'inquietudine.
Ernest stava già lanciando delle bacinelle d'acqua sulle fiamme e in un batter d'occhio io e Lyvet facevamo lo stesso. Ce ne erano abbastanza da spegnere un incendio di mezza foresta.
Quindi dovevano saperlo. Sapevano di correre il rischio di incendiarci tutti.
Quando le fiamme furono sommerse d'acqua e non rimaneva che la puzza di erba bruciata, né io né Lyvet dicemmo una parola. Guardavamo Ernest con lo sguardo più spaventato e gelido che si potesse fare.
Fu Ernest ad interrompere il silenzio. Dalla sua espressione, per un breve momento, capii che si era reso conto di aver rischiato un po' troppo.
"Bene, direi che è il momento di andarcene tutti a dormire, non trovate? George puoi uscire da dietro quel masso. Sei il più inutile assistente che potessi avere."
"Tu sei un folle" dissi
Sentimmo un rumore pesante e veloce correre dietro di noi fino a scomparire. Gorge doveva essere scappato via dalla paura, anche se il pericolo ormai era finito.
"Non siamo melodrammatici, non è successo nulla"
"Cos'è quello?" Lyvet indicò il cerchio di candele spente "Ernest, cosa stavi cercando di fare?"
"Niente, ho letto una cosa e stavo provando se funzionasse"
"Ironico che tu parta dicendo 'niente' quando potevi darci fuoco" dissi
"Sentite, non accetto la paternale da voi, adesso torniamo alle tende e che nessuno racconti niente."
"Sempre che non se ne siano già accorti" incalzai
"E anche se lo facessimo, se non dicessimo nulla, come sappiamo che non lo rifarai?" disse Lyvet.
"Bhe..." Ernest girò lo sguardo
"E come sai che quel ragazzo, George, non lo abbia già detto?"
"Oh lui non parlerà , è troppo fifone, poi dovrebbe rispondere a troppe domande e nessuno gli crederebbe"
Si avviò a ripercorrere quella salita.
"E non parlerete nemmeno voi" si girò e si allontanò.
Io gli corsi incontro "ma dove credi di andare, così..." mormorai, mi diedi lo slancio per attraversare quella ripida salita e fermarlo ma, arrivato quasi alla fine, con un ultimo sforzo che avrebbe dovuto farmi ritornare al sentiero, il mio alluce sbattè contro qualcosa e, paonazzo, persi l'equilibrio.
Mi ritrovai ruzzolato di nuovo indietro, un sasso seguì la mia caduta.
Mi toccai il piede, faceva un male cane.
Vidi la faccia di Ernest spuntare dall'alto e guardarmi con un ghigno ridente "Ah ah! Ma guarda, ora sei tu che dovresti pregare me di non raccontare"
Afferrai il sasso per lanciaglielo contro ma lui se ne era già andato, portandosi dietro la sua odiosa risatina. Non era per nulla divertente!
Mi stringevo il piede in una mano, cullandomi a terra per non piangere come un bambino. Nell'altra mano continuavo a stringere il sasso. Quando Lyvet mi venne incontro non nascose un accenno di sorriso. A quanto pare la mia goffaggine aveva destato un attimo di comicità nella tragedia. Zoppicando su un piede, Lyvet mi aiutò a camminare fin davanti alla mia tenda dove, ovviamente allarmato, mi stava aspettando mio padre. Sapevo già che mi sarebbe toccato uno di quei rimproveri infiniti e una punizione esemplare non solo per essere rientrato in ritardo ma per di più anche ferito!
Avrei preferito dormire altrove...
Prima che Lyvet se ne andasse, ci scambiammo un linguaggio mutò che stava ad intendere che nessuno dei due, almeno per quella sera, avrebbe parlato dell'incidente di Ernest, che di incidentale aveva davvero poco.
Il giorno dopo arrivai al Grandefaggio in gran fretta e andai dritto all'ultimo banco sporgendomi per parlare con Lyvet alla mia destra.
"Oddio non sai che è successo" dissi con enfasi.
"Shh, che è successo?" Mi fece cenno di abbassare la voce poiché avevo già catturato l'attenzione del maestro. "Con tuo padre?" disse preoccupata.
"No, non c'entra lui. Con lui ci sono abituato, voglio dire..." Non mi piaceva parlare delle sue reazioni e, anche se Lyvet era mia amica, preferivo restassero solo a me. "Comunque non si tratta di questo. Il sasso! Tu lo avevi detto. Non ci posso credere, non ci posso proprio credere"
Lyvet sorrise come se avesse già capito tutto.
"Ieri sera mi sono accorto di non aver mai posato il sasso che volevo lanciare ad Ernest. Perciò alla tenda l'ho poggiato distrattamente da qualche parte per vedere se quell'unguento giallo curativo funzionasse e quando l'ho rivisto, cavolo quello non è un sasso qualunque! È una pietra lavica di Strambo! Un pezzo di lava solidificato. L'ho poggiato in bella vista tra i miei altri sassi e stamattina ho realizzato."
Presi fiato "Tu avevi detto 'aggiunta preziosa alla tua collezione prima della fine della giornata'. Come facevi a saperlo?"
Penso che preso dall'entusiasmo, dalla curiosità, dall'angoscia e l'inquietudine che mi portavo dietro dalla sera prima avessi dimenticato di abbassare la voce. L'attenzione di tutti era ormai passata dal maestro Kay a me.
"Okiro, se non ti dispiace" annunciò con la sua solita voce calma e solenne "sei pregato di passare da me al termine della lezione"
Che? Io?
Sprofondai sul posto. Non presagiva nulla di buono.
Mi girai verso Lyvet e vi trovai la mia stessa espressione confusa, con le sopracciglia alzate e gli occhi a fanale. Un mormorio leggero si alzò in sottofondo. "Certo, maestro" dissi con la convinzione pari a quella di una giraffa che viene chiamata alla ghigliottina.
Il maestro riprese il suo discorso come se non fosse mai stato interrotto ma non ascoltai una parola di quello che disse. Se mi avesse fatto domande sulla lezione del giorno, ci pensai dopo, avrei potuto sperare di cavarmela con ciò che sapevo: il cielo era azzurro e l'edera verde.
Ottimo, davvero ottimo...mi complimentai con me stesso.
Quando il maestro smise di parlare, mi avvicinai per la seconda volta a Lyvet con la speranza di dirle una serie di cose che diventavano sempre di più.
"Lyveeet" la chiamai con fare disperato "se non sono morto ieri, sono sicuro che morirò oggi. Puoi predire se ho ragione?"
"No, mi dispiace ma credo che il tuo tormento sia appena iniziato" mi allungò una pacca sulla spalla. La guardai impallidendo. Lei rise.
"Tranquillo, sono sicura che te la caverai"
"Dobbiamo parlare di ieri"
"Non dovresti andare dal maestro?"
"Dobbiamo parlare anche di questo, che cosa vuole da me?"
"Lyvet" vedemmo comparire Stiven con un'aria dolce e preoccupata. Si avvicinò e si fiondò ad abbracciare Lyvet. Rimasi impalato a qualche passo di distanza. Il corpo alto e muscoloso di Stiven la avvolse fino a farla quasi scomparire. "Ho saputo di ieri sera, dell'incendio. Mi dispiace che ci fossi anche tu, potevi farti davvero male"
Sciolse l'abbraccio e le strinse le mani.
"Ernest è un idiota ma gli ho fatto giurare che non l'avrebbe fatto più" continuò Stiven.
C'era fin troppo romanticismo in quella scena che se si fosse trattato di qualcun altro avrei anche potuto commuovermi.
"Ehm...io vado dal maestro" li interruppi sentendomi un tantino di troppo.
Lyvet si girò il tempo necessario a dirle con gli occhi "Dobbiamo parlare anche di questo", poi me ne andai.
Il maestro era ancora seduto dietro il tronco di quercia tagliato che fungeva da enorme tavolo e stava armeggiando con delle carte che mise via quando mi vide.
"Ti stavo aspettando" si alzò e fece per allontanarsi.
"Non vieni?" mi disse
"Oh si" mormorai e mi affrettai a raggiungerlo.
Una strana sensazione di ansia s'insediò nel petto fino a fermarsi in gola. Potevo sentire il mio cuore nello stomaco. Cavolo, dovevo solo parlare, non mi avrebbe di certo ucciso. C'era forse di peggio della morte?
Camminammo in silenzio per un po' e lo seguii senza fare domande in una parte della foresta che non conoscevo. A mano a mano che ci allontanavamo le chiome degli alberi sembravano intrecciarsi davanti a noi, le radici si rincorrevano in una fuga immortalata nell'istante della sua fine, in un abbraccio passionale ed elegante.
Sembrava di entrare in un altro mondo, un luogo incantato brulicante di magia. Guardavo ammirato quel cambiamento del paesaggio, completamente perso in quella pace misteriosa finchè la voce del maestro non minacciò il mio stato di trance.
"Di cosa discutevi con Lyvet?"
La mia mente ritornò al sasso, a quella strana coincidenza della sua previsione.
"Niente di importante, e mi scusi per oggi" dissi
Dopo una lunga esitazione il maestro continuò:
"Ho notato che tu e Lyvet passate molto tempo insieme. Ci tieni molto a lei, vero?"
"È mia amica, si" non capivo dove volesse arrivare... Stette di nuovo in silenzio, parve scegliere con cura ogni parola da dire e, quando ne fu soddisfatto, con la calma e la profondità del suo tono di voce, lasciò andare quelle parole così ben ponderate.
"Ascolta, immischiarsi nelle faccende del tempo è complicato, spesso anche pericoloso."
Iniziai a sospettare che si riferisse alla coincidenza del sasso. "Sembra semplice, in effetti, ma potrebbe diventare tutto straordinariamente complesso." disse
Davanti a noi c'era un laghetto cristallino e limpido.
"Vedi, al tempo è stato imposto un ritmo. Nessuna nota può anticipare come sarà la prossima battuta. Non ci sono ritornelli nel tempo. Mi segui, ragazzo?" continuò
"Certo"
Gli ultimi raggi di sole si specchiavano nell'argento calmo dell'acqua e la luna era pallida sopra di noi.
Eravamo in quel punto del tempo oscillante tra gli ultimi colori del giorno e l'inizio di una nuova notte, il preciso momento in cui il cielo fugge e, se perso di vista, fa il suo spettacolo d'illuminazione calando un telo all'orizzonte e facendo comparire le stelle.
Ascoltai in silenzio ogni parola di ciò che mi disse, lasciando che mi colpissero, che arrivassero tutte a scombussolarmi la mente e insediarsi nelle vene trascinandosi dietro un agglomerato di peso a bucarmi le ossa.
Quello che sentii, quello che provai quella sera lo nascosi nel subconscio della mia coscienza, in attesa di convincermi ad attribuirgli concretezza o lasciarlo sfumare nell'astrattismo delle idee.
Mi avviai a tornare indietro, completamente immerso in un circolo vizioso di pensieri, forse surreali, che non mi avrebbero mai condotto a nulla. O magari, che potevano cambiare tutto sul serio. Restava un interrogativo che mi ostinavo a girare e rigirare nella mente in cerca di una risposta ma, la verità, è che ero felice di non averla.
Così riflettendo attraversai il bosco, atraversai il Grandefaggio senza nemmeno accorgermene se non quando due voci chiamarono il mio nome. Mi girai e vidi un'ombra scura seguirmi con flemma.
"Okiro quante volte ti devo chiamare?!" era arrabbiato. Quando riconobbi la voce restai per la prima volta impassibile. Forse stavo ancora pensando troppo da non essere tornato con i piedi per terra. Era mio padre.
Quando mi chiamava mi trovavo sempre a provare ansia, preoccupazione, un nodo al petto che mi terrorizzava per la possibilità che stessi facendo qualcosa di sbagliato.
Altrimenti non aveva bisogno di chiamarmi, mi comportavo come il figlio che voleva: sempre nei suoi paraggi per facilitargli il compito di sorvegliare la mia incolumità, mi allontanavo solo per la lezione al Grandefaggio e guai se fossi tornato più tardi del previsto! Chissà cosa di catastrofico stessi combinando o mi stesse accadendo!
Io rinunciavo alla mia vita e nemmeno era sufficiente. Già ieri ero rientrato tardi e per di più con il piede che mi faceva male. Oggi, quindi, era venuto a prendermi direttamente al Grandefaggio per riaccompagnarmi alla tenda. Chissà che faccia doveva aver fatto quando non mi ha trovato!
"Che c'è?" Dissi con tranquillità.
La sua reazione è ben immaginabile.
Strinse la mascella e vidi le sue labbra rimpicciolirsi nella folta barba assumendo i tratti più severi che avesse.
Intanto si era avvicinata l'altra persona, molto più gioviale e di piacevole compagnia che, riconoscendo mio padre dopo aver gridato il mio nome, salutò con un "Salve" un po' imbarazzato.
Poi, senza realizzare quanto mio padre fosse in collera con me, continuò tranquillamente "Okiro dovevamo parlare prima, tutto bene?"
Si riferiva alla conversazione col maestro? Si riferiva a mio padre?
A cosa si riferisse non importava; era la terza volta nella giornata che proprio quando c'era tanto da dire non ci dicemmo nulla.
Quando ci raggiunse anche il maestro, che in poche parole spiegò a mio padre che ero stato trattenuto da lui, mio padre si rasserenò un pochino, imponendomi comunque di tornare alla tenda con lui senza fermarmi a parlare con Lyvet.
La salutai appena e, ancora pensando, restai sveglio metà della notte.
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