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Cip cip cip
l'aria era così perfetta. Il sole era alto nel cielo come non era stato per settimane, quasi avevo dimenticato cosa significasse chiudere gli occhi e sentire il calore dei raggi caldi sulla pelle. Le nuvole erano d'un bianco candido e giocavano, si rincorrevano come bambini in un prato.
Sembravo imbambolato, così, con le mani lungo i fianchi a guardarmi attorno da dieci minuti. Dovevo sembrare un cucciolo spaesato, o uno che ha appena avuto un enorme vuoto di memoria e non ricorda nemmeno chi è.
Ma che ci pensavo affare.
Nessuno mi stava guardando, erano tutti andati via.
Ed io...io ero l'unico scemo rimasto alle tende. E perché? Non facevo altro che domandarmelo. Perché continuavo a fare quello che mi diceva, perché continuavo ad assecondare il suo volere? Ero abbastanza grande per prendere una strada diversa, per fare quello che a me andava di fare. E perché non me ne ero già andato, prima, con gli altri, non appena aveva voltato le spalle ed era scomparso tra i boschi? Maledizione. Potevo andarmene adesso. Eppure ero ancora lì.
Mi chinai per terra raccogliendo un sasso dai colori ramati e le sfumature bianche. Un sassolino piuttosto particolare, a dire il vero. Potevo aggiungerlo alla mia collezione, pensai.
Basta, erano tutte scuse!
Stavo prendendo tempo perché lui mi aveva detto di aspettare ed io come un cagnolino stavo eseguendo, anche se lui non era presente.
Forse era colpa di quella dannatissima catena che avrei preferito mi stringesse i polsi fino a lasciarmi il segno e che invece mi ritrovavo stretta al cuore. La colpa era del mio senso di colpa che si legava ai ricordi.
Presi la mira e lanciai il sasso con tutta la mia forza, lontano, ritrovandomi le mani che lo avevano riscaldato d'improvviso vuote.
I ricordi di quando sorrideva con mamma ed io li guardavo da dietro un cespuglio di more mentre giocavo a nascondino con Lyvet, Hugo e... si, mi sembra ci fosse anche Ernest con quel ciuffo di un giallo così acceso che era difficile non riconoscerlo anche a distanza.
Ero libero. Loro mi lasciavano libero.
Eppure, se mio padre mi avesse chiesto di aspettarlo fermo in posto perché lui doveva necessariamente rovinarsi la giornata, io probabilmente me ne sarei andato non appena fosse stato fuori dalla mia visuale. Sarei corso avanti e indietro, col cuore leggero, a ridere e giocare e poi avrei avuto l'astuzia di tornare davanti la tenda prima del ritorno di mio padre e farmi dire da lui anche che ero stato bravo. E adesso se mi guardavo, con molti più anni, mi ritrovavo semplicemente a vivere la sua vita ormai rinchiusa in paranoie e ansie che avevano ingabbiando anche me, ed ora, a causa sua, stavo dimenticando come si evade.
Basta. Dovevo fare qualcosa.
Feci due passi verso il bosco a nord-est e per un momento mi immaginai già al GrandeFaggio a seguire un'altra lezione in "armi e pericoli" fingendo che fosse tutto normale e sperando che nessuno mi si avvicinasse.
-Okiro- mi fermai di scatto ma non mi girai.
Sentivo l'affanno di mio padre dietro di me. Avevo eseguito gli ordini, di nuovo, e mi detestavo così tanto da non riuscire nemmeno a guardarlo in faccia per questo.
Aspettai il verdetto, magari aveva trovato qualche pericolo imminente che avrebbe potuto giustificare la sua corsa a Strambo e la mia presenza ancora lì. Aspettai ma non disse niente.
Ripresi a camminare, molto più velocemente.
-Stai attento, ti prego- lo sentii dire. Non l'avrebbe mai smesso con questa storia.
Al GrandeFaggio era tutto come sempre: persone ammassate da un lato, altri gruppi sparsi qua e là. Il maestro Kay stava ripulendo i residui del temporale.
Non parlavo con i miei compagni da settimane, costretto a rintanarmi nella tenda all'imperversare della tempesta. Quale sarebbe stata la prima cosa che gli avrei detto? "Ciao" immagino, o "buongiorno". Oppure niente. Infondo doveva tornare tutto alla normalità...
Mi sedetti ai piedi di un albero e osservai.
Di solito, alle persone, si cerca di affibbiare un'etichetta, di indirizzarle in un carattere così da prevedere il loro modo di agire. Ognuno ha una prospettiva diversa, ognuno si ritrova a rifilare etichette ed ognuno se le ritrova spiaccicate addosso.
Ebbene, come si leggono le etichette del cibo o dei funghi velenosi, vi presento quelle di alcuni miei compagni. Ernest, detto "il canarino" per il groviglio biondo che portava in testa, si era guadagnato la reputazione del più influente ed egoista che, almeno io, conoscessi. Conoscere non è poi davvero il verbo corretto considerando che mi era capitato di incrociarlo due o tre volte solo per essere la spugna ai suoi sputi morali e, diciamocelo, non sono il tipo di conversazioni in cui puoi chiedere "qual è la tua passione?" o "che vuoi farne della tua vita?" Era più uno sconosciuto che non potevi non conoscere, chi in un modo chi in un altro; il tipo di ragazzo che quando si fermava in un posto era imitato da tutto il suo seguito, che se proponeva di fare una cosa, ormai per prassi, non c'era nessuno che diceva di non essere d'accordo. La sua etichetta, quindi, oscurava quella di chi lo circondava, come Stiven ad esempio, di cui l'unica cosa che potevo dire è che, con il suo fare misterioso e del tutto indifferente all'esuberanza di Ernest, era improvvisamente diventato il suo migliore amico.
Poi c'erano gli altri quattro, sei, sette che erano seduti attorno a loro quel giorno al GrandeFaggio si accontentavano, non so per quale motivo, di sminuire se stessi in tentativi di conversazione che venivano palesemente ignorati.
"Okiroo, ciaoo" vidi avvicinarsi la figura di Lyvet.
A proposito di lei, i caratteri cubitali della sua etichetta erano distinguibili a miglia di distanza. Era una ragazza solare ed espansiva, che si preoccupava di risolvere i problemi di tutti anche se poi nessuno sapeva molto di lei. Era considerata anche un po' strana, però, per quando si estraniava parlando di vibrazioni e avvertimenti, ma a parte questo, era simpatica più o meno a tutti.
"Ciao" dissi
"Che ci fai qui da solo? Vieni, non ti vediamo da un po'"
Apprezzai il tentativo di coinvolgermi anche se, senza accorgersene, come un elefante in una cristalleria, Lyvet aveva dato il via ad una serie di risposte che anche se non mi aveva direttamente chiesto di dare, mi facevano sentire in obbligo a dirle. Dovevo giustificare la mia assenza in quei giorni, non potevo certo dire che mio padre mi aveva obbligato a rimanere alla tenda perché riteneva "troppo pericoloso andare a lezione sotto la pioggia".
Mi sentivo sempre "diverso" dagli altri, imprigionato nelle spiegazioni. Pensavo ai miei compagni, loro consideravano naturale perfino incontrarsi per chiacchierare a qualsiasi orario anche della notte, e poi pensavo a me che se avessi tardato di poco a rientrare oltre l'orario prestabilito da mio padre avrei vissuto dei giorni d'inferno. Così mi ritrovai a fare quello che facevo sempre per sembrare normale: mentire.
"Si, ecco... io sono stato male. In queste settimane non me la sono sentita proprio di uscire."
"Va tutto bene?"
"Si, certo, ora è passato. Che mi sono perso?"
"Niente di che; la settimana scorsa una gazza ladra ha preso nel becco lo stilo di Hugo. Dovevi vedere cosa ha fatto il maestro Kay...siamo rimasti tutti stupiti."
"Perché che ha fatto?"
"Si è avvicinato alla gazza e, semplicemente fissandola dritto negli occhi, le ha fatto restituire lo stilo"
"wow, questo avrei voluto vederlo"
"Non preoccuparti, Hugo ti farà un resoconto dettagliato. E' rimasto ancora scioccato da questo episodio."
Mi ritrovai coinvolto in una conversazione fin troppo amichevole che portò a domandarmi se non fosse il solito sforzo di Lyvet di dare a tutti un'apparenza d'integrazione. Per fortuna nessun dialogo è infinito, c'è sempre qualcosa che lo blocca. Nella maggior parte dei discorsi a cui mi ritrovavo a prender parte era il maestro Kay a farli finire.
"Ragazzi, ascoltate bene..." e aggiungeva uno di quei pericoli a cui bisognava fare attenzione vivendo nel cuore di una foresta. Ogni giorno un pericolo nuovo. Non so come facesse a trovarne così tanti. Per questo, era facile pensare che il maestro Kay fosse un "diffidente" ma lui non l'avrebbe mai ammesso.
Il maestro era un ometto bassino, dallo sguardo serio e gli occhiali poggiati sulla punta del naso adunco. Aveva l'aspetto di una di quelle centenarie tartarughe delle Galapagos, lente e un po' rattrappite, di cui nessuno conosceva la vera età. Aveva un passo leggero che gli consentiva di sorprenderti quando meno te l'aspettavi. Era, infatti, l'emblema dell'apparenza che inganna perché vantava forza e riflessi al pari di un giovane ben allenato. Giravano storie sul suo conto che avesse ucciso a mani nude un pitone e combattuto contro una pantera mentre era bendato, ma la veridicità di queste storie rimane discutibile. Sta di fatto che il maestro Kay era un grande guerriero nelle sembianze di un vecchiettino solitario e pacato.
Il pomeriggio del giorno di cui vi narravo, me ne stavo seduto sul perimetro del bosco che delimitava il cerchio di terra dove si trovavano le tende. Osservavo e pensavo. Non ricordo più precisamente a cosa, ma so che non c'era un momento in cui smettessi di pensare. Era un mio tratto distintivo che mi portavo dietro fin da quando ho memoria. Ero così perso nel mio stare solo che non mi accorsi di non esserlo in effetti.
A pochi metri da me c'era Lyvet. Non doveva avermi visto poiché alcuni alberi ci separavano. Era seduta per terra e si portava le mani alla testa.
"No, di nuovo no" la sentii mormorare.
Così mi alzai e le andai incontro. Appena mi vide scostò le mani e si alzò di scatto.
"Stai bene?" le dissi
"Ciao Okiro. Tutto bene, grazie" e mi sorrise.
Riconobbi in lei me stesso quando mentivo. Lei, la ragazza più solare della tribù, poteva avere qualcosa in comune con me.
"Sei sicura?"
"Si" continuava a mentire.
"Non c'è bisogno di mentire" dissi. Lei mi guardò confusa, con gli occhi grandi, di solito ridenti, ora leggermente cupi. "Scusa, non voglio darti della bugiarda" aggiunsi, ma non volli andarmene.
Lyvet si risedette per terra.
"Tu sei superstizioso? Voglio dire... credi negli avvertimenti del destino?"
Ci pensai su "In realtà non lo so a cosa credo"
"Ah giusto, scusa. Tu sei un diffidente quindi è ovvio che non credi a nulla."
"Perché pensi che io sia un diffidente?" Diffidente significava essere come mio padre ed io detestavo il suo modo di pensare.
"Bhe..." Stava per dare una risposta, una di quelle che se avesse avuto a che fare con la mia famiglia mi avrebbe segnato fin nel profondo. Era forse questo che si diceva di me? Io, un diffidente proprio come mio padre? Era ovvio, per discendenza, era ovvio. Significava ancora una volta che nessuno avrebbe mai potuto capirmi. D'altronde, io non l'avevo mai nemmeno preso in considerazione.
Lyvet, però, mi sorprese. Era sempre disposta a cambiare punto di vista, a mutare in positivo l'opinione standard che le etichette imponevano. Per lei non c'erano etichette ma personalità che avevano il diritto di essere variabili.
Così la sua esitazione fu minima, e aggiunse "Mi sbaglio?"
Ecco, ora stava a me scegliere in che modo sostituire la parole "diffidente" dalla sua opinione di me.
"Non lo so. Non penso di essere come mio padre. Tu?"
"Io...per me è strano. Si, penso credente"
Avrei voluto continuasse, ma il dialogo finì. Ci salutammo e ognuno andò per la strada opposta.
•••••••Angolo autore•••••••
Caro lettore, per scrivere una storia c'è bisogno di una grande responsabilità: quella di dare a te i mezzi per calarti in un altro mondo e prestarti i panni per vestirti dell'animo di un personaggio.
Quindi chiudi gli occhi, respira, riaprili e immagina.
Sei tu, in quei vestiti senza taglia, a respirare il profumo dei boschi, lontano dalla bruta realtà...
Pubblicherò il prossimo capitolo martedì prossimo❤️
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