𓆩XVII𓆪
Si svegliarono insieme quella calda domenica, Walter senza avvertire Giglio, gli fece trovare ai piedi del letto un completo chiaro color latte, di materiale leggero, la sutura rendeva omaggio a un epoca scordata.
Qualche domenica la famiglia di Walter si riuniva per pranzare presso il giardino della zia, era un'occasione per potersi ritrovare, chiacchierare e raccontare le proprie vicende.
I due giovani si prepararono, si fecero freschi, Giglio si passò i capelli e indossò il completo prestato da Walter. Sebbene gli facesse le spalle più larghe, e le maniche gli coprivano il polso, il ragazzo si guardò allo specchio e si piacque.
Ma l'idea di ritrovarsi nuovamente in mezzo a tanti vampiri lo sconfortò assai, ma dopo aver tentato di chiamare sua madre, dubitava che Walter lo avrebbe lasciato a casa.
Se avesse dovuto farlo lo avrebbe legato e rinchiuso sotto chiave, allorché sarebbe stato molto più scomodo.
Non protestò, deglutì il pensiero per sé stesso e accompagnò Walter al pranzo della domenica.
Tuttavia, anche se non lo aveva lasciato intendere, pure Walter meditava più o meno il pensiero di Giglio.
Sapeva che stare in compagnia di così tanti vampiri, lo avrebbe messo a disagio. Ma non voleva nemmeno legarlo e chiuderlo in stanza, si sarebbe presentato al pranzo con un macigno tra i piedi, assalito dal rimorso e il dispiacere.
Ciò che Rouzee gli aveva fatto era sufficiente, non meritava maggiori tormenti.
Giunsero dinanzi a un'alta siepe di ligustro, la cui presenza faceva crescere la curiosità riguardo a cosa si trovasse dall'altra parte di essa.
Scesi dal veicolo, proseguirono il resto della via a piedi, fino a trovarsi al cospetto di un cancello a ventaglio assalito da un groviglio di piante i cui boccioli erano fioriti in graziose roselline.
Walter premette il campanello e le porte del cancello si aprirono.
Giglio guardò incantato, un uomo si presentò davanti ai giovani ragazzi e si offrì di accompagnarli alla tavola.
Anch'egli, sebbene fosse un semplice maggiordomo, era elegantemente vestito e non c'era capello che fosse fuori posto. Indossava un profumo delicato, che si sposava con i fiori e le piante del giardino.
Assieme alla leggera fragranza, egli indossava un paio di pantaloni classici cilindrici, aveva le gambe lunghe e sottili, Giglio immaginò che sotto i pantaloni portasse dei trampoli. Oppure era lui che era semplicemente sotto la statura media di un uomo?
Dopotutto, aveva ereditato dalla famiglia della madre una corporatura minuta, né pillole o miracoli avrebbero alterato i codici della sua genetica.
Il giardino era più piccolo di quanto Giglio immaginasse, tuttavia, nel suo piccolo spazio, le varie decorazioni erano ben disposte e ognuna godeva del proprio posto.
Camminarono lungo un sentiero in piastre affianco a una sequela di vasi di piante in topiaria.
Allori, ginepro, agrifogli e tassi.
Le loro chiome erano state tagliate affinché prendessero la forma di cigni, l'ispirazione era tratta da quelli veri che si trovavano nel laghetto sotto il ponticello presente dall'altra parte del giardino.
Giglio non si annoiò di guardare tutto ciò che lo circondava, sembrava di trovarsi nel grembo della primavera.
Il maggiordomo condusse i due giovani dritti alla tavola, in presenza del resto dei familiari.
La madre di Walter si rallegrò nel vedere suo figlio, si avvicinò a lui e lo baciò.
«Buongiorno mio caro, come stai?» Chiese preoccupandosi di sistemargli per bene i capelli.
Giglio contò con disagio i posti a sedere a tavola, tutti già assegnati.
Quando pure Walter se ne accorse, chiese a sua madre di poter aggiungere un posto in più per Giglio.
«Giglio?» Si chiese.
Fu allora che vide il giovane fanciullo alle spalle di suo figlio.
«Ma certo, amico tuo?»
«Sì, ho voluto invitarlo» rispose Walter.
Venne aggiunta una sedia affianco a quella di Walter, affinché anche Giglio potesse sedersi a tavola.
Avrebbero potuto cominciare a mangiare solo una volta che si fosse unito anche Vittorio, il padre di Walter.
La sedia al capo tavola difatti era ancora vuota, esattamente come gli stomaci affamati dei famigliari.
Nell'attesa nel frattempo si cibavano di pane fritto terso in una coppa di sangue di capra, denso e ricco per fortificare le ossa. Accompagnati da bastoncini di manzo secco e bocconcini di bulbo di tulipano con gratinatura di pelle di cavallo.
Giglio trovò curiosi i bulbi, ma Walter lo avvertì e gli disse.
«Il bulbo del tulipano è tossico, non va masticato, bensì direttamente ingoiato. Ma te li sconsiglio, sono solo per stomaci molto forti»
Ordunque, bon potendo assaggiare nulla dall'aperitivo, Giglio restò seduto a guardare i cuginetti e i nipotini di Walter giocare sul prato.
Sebbene fossero vampiri, essi si atteggiavano come esseri umani. I giochi erano li stessi, le regole della mosca cieca non conoscevano razza.
Quando Vittorio si presentò al pranzo domenicale, ognuno prese posto a tavola, per poter finalmente commemorare un'altra domenica in famiglia.
Ma notarono presto che una sedia era ancora vuota, qualcuno era assente.
Il caro cugino di Walter non si era presentato, e conoscendolo, tutti quanti supposero che non avesse sentito la sveglia, o che fosse impegnato con altre compagnie.
Ciononostante, non si degnarono di aspettarlo, Vittorio era in mezzo a loro, dunque iniziarono a mangiare.
Giglio osservò curante le varie pietanze davanti a sé, chiedendosi quali tra queste era senza viscere, sangue o tossine.
Mentre ci pensava, i camerieri giunsero alla tavola con le prime portate.
Quando anche Giglio venne servito, arricciò il naso per lo strano sentore che il pasto emanava.
«Filetto di cervo crudo con salsa di more e mirtillo» disse Walter, che nel frattempo stava già tagliando a metà la propria fetta.
Giglio, invogliato dalla presenza dei frutti di bosco, impugnò le posate.
Il coltello non era ordinario come la forchetta, quest'ultimo difatti era proprio adatto per il consumo di carne cruda.
Sospirò, e diede un assaggio alla carne del cervido, che con sua assurda sorpresa, gli piacque. Era cruda, ma poiché annegata nel succulente brodo boschivo, era semplice ingoiare piccoli bocconi, man mano che se ne cibava, il suo palato ci si abituava e provava delizia.
Sollevò poi gli occhi al calice di rosso presente alla sua destra, convinto che fosse sicuramente sangue, evitò di berlo. Ma Walter gli si avvicinò leggermente e gli disse che non si trattava di sangue.
«Tranquillo, quello è melograno spremuto» disse, avvertendolo però della presenza dei semi.
Allorché Giglio non esitò a condurre il calice alle labbra e berne un sorso.
Deliziato dal frutto, il giovane ragazzo non ebbe timore di concedere un assaggio anche alla seconda portata.
Affondò la forchetta in quel che all'apparenza sembrava essere una polpetta, e quando l'accolse in bocca, si accorse dell'errore che aveva appena commesso.
Walter lo guardò, non era stato capace di avvisarlo in tempo.
Quello che Giglio stava trattenendo in bocca, non era una semplice polpetta al pomodoro, bensì l'occhio di un cinghiale.
Quasi si fece sfuggire un conato, ma lo trattenne stringendo lo stomaco.
Walter gli suggerì furtivamente di sputare la pietanza dentro un fazzoletto, e senza farselo ripetere, il ragazzo colse il tovagliolo accanto il suo piatto, e se lo portò alla bocca fingendo di volersi passare le labbra.
Quando sputò l'occhio, si depurò il palato con il succo di melograno.
Walter sogghignò divertito, e Giglio lo fulminò con uno sguardo di rimprovero, e mentre dentro di sé lo condannava di sfregi, i suoi occhi incrociarono quelli di Vittorio.
Così profondamente rossi come il succo nel calice, essi erano posati su di lui e sembravano non vedere altro.
"Mi stava già guardando? Merda, ha visto qualcosa? Che imbarazzo..."
Il ragazzo si sentì subito a disagio, si morse le labbra e con maniera discreta rivolse lo sguardo altrove.
Ma il peso dello sguardo di Vittorio lo premeva, sentiva di essere protagonista della sua attenzione.
«State seduti composti voi due» ordinò un padre ai suoi due gemelli, i cuginetti di Walter.
«Lui mangia a bocca aperta, mi fa schifo»
protestò uno.
«E lui mi dà i calci sotto la tavola»
rispose il secondo.
Giglio li guardò, entrambi possedevano dei canini da latte, eppure sembravano già forti abbastanza da poter lacerare la carne di un agnello.
Erano capaci di ritrarli, proprio come gli adulti, ma poiché stavano bisticciando, se li mostravano l'un l'altro per minaccia.
«Caspian e Calipso, comportatevi bene o dopo non vi permetterò di accarezzare i cigni» avvertì Vittorio, allorché i gemelli si ricomposero e sfoggiando teneri sorrisi annuirono.
«Va bene zio Vittorio» cantarono in coro, quando però l'aurea sui loro capi era assente.
Giglio sorrise, i due bambini non avevano l'aria di essere dei vampiri. Non immaginava quanta somiglianza ci potesse essere tra loro e un comune umano tale a lui.
«Scusate per il ritardo, non ho sentito suonare la sveglia» disse una voce giungere alle spalle dei presenti, i quali si voltarono solo per vedere l'ultimo membro della famiglia arrivare.
Era Davis, il cugino di Walter, colui per cui nutriva un particolare affetto.
Veniva chiamato Roulette dagli amici e nemici suoi, perché si diceva che trascorrere un solo giorno con lui, era come giocare alla roulette russa.
Era un ragazzo la cui personalità non era mai la stessa, ovunque andava portava con sé tutti quanti i suoi tratti.
Ma quel pomeriggio si presentò come un ragazzo modello, pettinato e ben vestito.
I suoi due fratellini, Caspian e Calipso lo videro, lo accolsero gioiosi.
Ma quando Giglio unì lo sguardo con gli occhi bluastri del giovane vampiro biondo, venne investito da una coperta di terrore, come se il cielo gli fosse collassato addosso.
Il cuore cessò di battere e la sua anima bruciò di paura, collera e frustrazione.
Aveva immediatamente riconosciuto quel volto, quegli orecchini argentati e il suo bel faccino da figlio ben mantenuto.
Singhiozzò, la gola si fece stretta e il petto pesante.
Fu costretto ad alzarsi dalla tavola, scusarsi e chiedere per i servizi.
Ma non attese risposta, nessuno ebbe il tempo di dargli l'indicazione che il giovane se ne andò e basta, portandosi dietro uno strascico di sguardi perplessi e curiosi.
«Che ha il tuo nuovo amico?» Domandò la sorella di Walter, Wendy.
Walter si alzò di sua volta dalla tavola e seguì Giglio, che si rifugiò nel capanno di legno dove venivano depositati gli attrezzi da giardino.
Si sedette a terra, si raggomitolò in mezzo a due sacchi di concime, raccolse le ginocchia e nascose il volto.
Walter lo raggiunse nel capanno, gli si avvicinò e pretese delle spiegazioni.
«Giglio, va tutto bene?» Domandò.
Ma Giglio non fu in grado di rispondere, aveva il viso abbozzato di rosso e il fiato privato da uno stretto nodo alla gola.
Sembrava che qualcosa lo stesse perseguitando, che qualcuno lo stesse minacciando di morte.
«Era lui, è stato lui a uccidere Dalia, lui guidava quell'auto quella notte... W-walter è lui!» balbettò.
Walter titubò, allontanò la mano con cui era intenzionato ad accarezzare la spalla del giovane, riconoscendo di essere in parte colpevole.
«Ti prego fammi andare via, non riesco a mangiare nella stessa tavola del suo assassino, ti prego Walt, Walter andiamocene a casa adesso!» boccheggiò disperato, e il suo pianto si fece ancora più intenso, quando per un istante vide il corpo di Dalia giacere davanti a lui.
«Senti, attirerai l'attenzione così. Mio cugino non ha ricordo di te, però cerca di atteggiarti in maniera normale e poco sospetta. So che pretendo troppo, ma sei già poco al sicuro qui» sussurrò Walter, cercando in tutte le maniere di calmare l'amico.
«Allora lasciami qui, vattene, tanto a te cosa cazzo frega? Eh? Esci!»
Il vampiro non insistette, sapeva di non averne nemmeno il permesso di farlo.
Provò dispiacere per Giglio, e gli concesse dei momenti in solitudine.
«Raggiungimi appena puoi, per favore» disse prima di andarsene dal capanno.
Giglio si premette contro la parete e bagnò le ginocchia con fiumi di lacrime.
Restò lì dentro in compagnia di sé stesso, ad ascoltare con dispiacere i propri singhiozzi e a raccogliersi le lacrime da solo.
Dalia, la cui presenza era pesantemente presente nei paraggi, si accostò sul ragazzo.
Era lui, lui guidava quel mezzo che si era avvicinato a loro quella notte, lui aveva domandato a entrambe le lettere del loro sangue, lui le aveva condotte in quel campo.
Giglio provò odio, venne punto, trafitto e molestato da un tremendo e velenoso odio verso quel biondo.
La parola odio gli si incise nelle vene, nelle venature dei palmi e delle dita, sotto le palpebre, sulla lingua e dentro le ossa. Lo sentiva crescere a dismisura, lo sentiva bollire agitato.
«Va tutto bene? Sembri molto turbato, il pranzo non era di tuo gradimento?» Domandò una voce familiare, che calò su di lui leggera come sale.
Ma Giglio si lasciò trascinare fino in fondo dalla paura e l'odio, così tanto che non ne riuscì ad uscire.
Si formò una gabbia attorno il suo petto, e ogni respiro sembrava essere impedito da una forza maggiore. Il corpo suo esplose di calore, così come il cuore, che si fece pesante come un macigno.
Venne prevalso da tremori e gesta involontarie, come sfregamenti e sospiri.
«Stai avendo un attacco di panico» disse Vittorio, giunto nel capanno per accertarsi che Giglio stesse bene, si chinò s'un ginocchio all'altezza del giovane e lo guardò mentre boccheggiava e rullava la gamba.
«Stai provando molta paura in questo momento, riesco sia a vederla che a sentirla. Ti pulsa il cuore, lo senti nella testa. Soffochi nelle tue stesse lacrime, ti sembra che il mondo sia finito» pronunciò con tono narrante, cullante per le orecchie di Giglio, ma non sufficiente per placare la paura.
«Mia mamma, voglio mia mamma. W-walter? Chiami Walter per favore...» singhiozzò.
«Quando ho avuto il mio primo attacco di panico ero da solo. Nessuna madre, nessun padre, e nessun amico. Sai allora che cosa ho fatto per farlo passare?»
Domandò Vittorio, facendosi leggermente ancora più vicino al ragazzo, fino a respirare il suo stesso fiato corto.
«Ho pensato al mio colore preferito. Alla mia canzone preferita, e al mio pasto preferito» confessò, nel frattempo la sua mano si avvicinò a Giglio, e con delicatezza, gli spostò un ciuffo di capelli dal viso.
«E poi, ho fatto un respiro profondo. Ho chiuso gli occhi, e ho continuato a respirare, pensando a queste tre cose»
Giglio seguì il consiglio dell'uomo, pensò al suo colore preferito, il rosa.
Rosa come i capelli di Dalia, come i baci di sua madre, come il suo vecchio maglione invernale.
Dopodiché cantò a mente il suo brano preferito, lo stesso che lui e Dalia cantavano sotto le stelle.
E infine, pensò alla colazione della mamma, nonché suo pasto preferito.
Quando finì di pensare a tutte queste cose, fece un respiro profondo, fallì al primo tentativo, ma al terzo, riuscì a ritrovare la pace.
Sospirò, si accarezzò il volto, e chiuse gli occhi.
La paura lo abbandonò, e con essa il timore e l'angoscia. Il suo cuore riprese a palpitare sereno, il nodo alla gola si sciolse e le sue tempie si rilassarono. Tutto di lui si ammorbidì come del soffice cotone, poteva sentire il petto espandersi con facilità e le spalle alleggerirsi.
Erse timidamente gli occhi a Vittorio e gli sorrise grato, in qualche maniera ora, quei suoi occhi non lo spaventavano più.
Non erano più rossi come il sangue, come il pericolo. Ma rossi come la buccia di mela, come i petali di un agrifoglio.
«È che io, a me, non mi piace molto stare attorno a tante persone, specialmente se non le conosco» balbettò per giustificare il suo atteggiamento.
Vittorio sfilò dalla propria tasca interna del gilet un fazzoletto chiaro, poi lo porse a Giglio.
Il ragazzo lo prese e si pulì, dopodiché lo ridiede a Vittorio unto.
«Capisco, anch'io ero così, forse anche adesso. Gli estranei mi mettono un po' a disagio, ma tranquillo, prima o poi riuscirai a sopportarlo. Ma sei sicuro che sia solo questo? Ansia sociale?» Domandò cercando la verità negli occhi scuri di Giglio.
«Uhm sì, sempre stato così...» rispose il giovane. «Il dottore non è riuscito a curarmi del tutto» proseguì arreso.
Vittorio lo guardò, ma non covò sospetti, anzi, sembrava essersi incantato. Lo sguardo puerile e indifeso di Giglio gli regalava una gradevole sensazione di conforto e appartenenza, sentì immediatamente il bisogno di tendersi verso di lui e affondare i denti nella sua pelle.
Il suo odore era particolare, gli stuzzicava il naso, ed egli era bravo a riconoscere la differenza tra un umano e un vampiro. Ma Giglio non era un semplice umano, non più oramai, ma non era nemmeno figlio di un vampiro.
Il suo odore umano alterato con la traccia di vampiro che dimorava nelle sue viscere, stimolava il senso olfattivo di Vittorio.
Lo ammise, lo faceva impazzire.
Bramò quasi di tirarlo per i capelli per spingergli indietro il capo, esposto il collo, lo avrebbe morbosamente azzannato. In tutto ciò, con la mano libera lo avrebbe privato della giacchetta e accarezzato il volto. Era uno scenario piccato seguito dalla consapevolezza che non l'avrebbe esaudito, era stato istruito bene, e con l'idea che ogni donna doveva essere trattata con enorme rispetto.
«Torniamo a tavola?» Domandò quasi stordito, e fu costretto a prendere delle leggere distanze dal giovane.
«Veramente, preferirei attendere qui. Ho un gran dolore allo stomaco, non mi sento affatto bene. Non vorrei rimettere davanti a tutti» rispose il ragazzo.
«Vuoi dell'acqua? Oppure qualcosa di più gasato?» Chiese Vittorio.
«No, sto bene, davvero» rispose Giglio.
«Quando te la senti, raggiungici. Anzi, Avvertirò mio figlio, gli dirò che stai male così potrete andare via»
Quando egli se ne andò, Giglio restò solo nel capanno.
Nel frattempo Vittorio avanzava verso la tavola con il sorriso scolpito tra gli zigomi.
Gli occhi di Vittorio erano occhi ingordi e mai sazi, amava tutto ciò che brillava, e Giglio era il sole.
Orgoglioso e avido com'era, pensò che tale bellezza doveva appartenergli, esattamente come i suoi precedenti amori.
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