6 - Lontana da casa


Non riuscì a chiudere occhio per tutto il pomeriggio. Non aveva mai pensato che un materasso così morbido e soffice potesse essere tanto scomodo. Si modellava al suo corpo come una coperta leggera, ma lei era troppo abituata a dormire su cumuli di paglia per potersi sentire a proprio agio.

Dopo almeno due ore sdraiata, capì che non avrebbe concluso nulla. Si tirò su e decise di togliersi quei vestiti troppo fuori luogo. Il vestito che aveva visto indosso a Cordelia le stava benissimo, e anche Victoria nella sua semplicità appariva elegante. Fissò quelli che erano ormai stracci che la coprivano: quello che una volta era stato un lungo abito, caldo e comodo, ora sembrava una vecchia tela con due maniche a campana.

Sospirò e si allungò per afferrare la propria sacca, sperando almeno di avere qualcosa senza troppe toppe, quando si bloccò davanti al grande armadio di legno scuro. Passò quasi con incredulità i polpastrelli contro gli intricati rilievi delle ante, così grandi che non sarebbero riuscite a entrare in una stanza della sua capanna. E questo la fece sentire di nuovo fuori luogo, tanto da sperare di mimetizzarsi. Spalancò l'armadio e vi trovò molti vestiti eleganti, con scarpe con il tacco. Se da una parte era contenta di poter mettere quelli e non sembrare tanto una primitiva, i tacchi a spillo ed il persistente colore nero delle stoffe la indisponevano un po': possibile che non avessero qualcosa di più chiaro del grigio perla?

Si arrese a cercare qualcosa di meno "demoniaco" possibile, riuscendo nel suo intento: jeans blu – che nonostante il colore scuro, erano accettabili –, una maglietta grigia e una giacca marroncina. Forse nell'insieme non erano ben abbinati, ma erano i colori meno deprimenti. Si dedicò poi ai capelli, notando con un pizzico di orgoglio come contrastassero con tutto il buio di quell'ambiente. Li pettinò con una spazzola incisa d'osso che aveva trovato poco prima sulla toeletta – un intero mobile solo per pettinarsi, assurdo – e decise di lasciarli sciolti.

Ora cosa avrebbe dovuto fare? Rimanere in camera sarebbe diventato noioso dopo qualche minuto, ma uscire sembrava varcare territorio nemico. Si diede della stupida: era un'ospite, e come tale dovevano pure intrattenerla, altrimenti non avrebbero chiesto la sua presenza al Palazzo dei Demoni.

Aprì la porta cercando di ricordarsi la strada a ritroso verso l'ingresso con quella magnifica scalinata, quando i suoi occhi caddero su una figura appoggiata contro il muro, esattamente davanti alla sua stanza.

Il sorriso di Caesar si allargò, ma prima che potesse dire qualcosa Freya incrociò le braccia e lo interrogò: «Perché mi hai voluta qui?». Sì, era scortese. Sì, era ingrata. Ma quella domanda la stava facendo impazzire e non voleva attendere oltre.

Il Principe non rispose, con un colpo di reni si staccò dal muro e si avvicinò lento. Nonostante avessero passato anche un momento di cameratismo qualche settimana prima, nel piccolo salone di Freya, la sua mente non poté non associarlo ad un felino che sa come muoversi nel suo territorio. «Pensavo dormissi», disse lui.

«Pensavo fossi abbastanza sveglio da farti gli affari tuoi», rispose lei, puntando gli occhi in quelli del ragazzo, così neri da eliminare la distinzione fra iride e pupilla, così profondi da poter nascondere qualsiasi segreto e fingere che non lo facessero.

Lui rise, per poi alzare le mani e ridacchiare un «Touché». Aveva i capelli più in ordine dell'ultima volta – bagnati e sferzati dalla tempesta che aveva infuriato per tutta la notte – e questo dettaglio lo faceva sembrare ancora più... estraneo. «Visto che tu vuoi risposte, e che io vorrei farti vedere una cosa...», disse, per poi lasciare la frase incompiuta, allungando la mano verso il corridoio.

Era un patto silenzioso che incuriosiva Freya, perciò cominciò a camminare nella direzione indicatale mentre Caesar le si affiancava e le offriva leggero il braccio. Si sentì un po' impacciata ad accettarlo, non sapeva quanto spazio fra i loro corpi dovesse esserci o se dovevano incontrarsi proprio gli incavi dei gomiti o se potesse rilassare il braccio. Neanche il tempo di chiedersi se il Demone si stesse facendo tutte quelle paranoie, che lui la tirò veloce dietro una tenda. Lei lo guardò interrogativo, ma lui si portò un indice alle labbra e tese l'orecchio, e Freya non trovò di meglio da fare se non imitarlo.

Per il corridoio che stavano percorrendo fino a pochi secondi prima, dei passi si stavano avvicinando: le due persone stavano sicuramente litigando, dato che le voci erano vivaci e le parole non eleganti quanto l'atmosfera che circondava i Demoni.

«E ti sembra colpa mia? Va' da papà e lamentatene con lui», sbottò una voce femminile.

«Lo sai benissimo che papà ti darebbe ragione in ogni caso», ringhiò una seconda voce, maschile.

«Perché io non gli sottolineo ogni cosa come se fosse una guerra a chi dice la cosa più giusta».

«Oh, povera cocca, non diciamo nulla per non far arrabbiare papino e averla sempre vinta? Cresci un po', Helena».

«La colpa è tua, Alexander, che butti sempre fuori una questione che non c'entra nulla solo per trovarti in disaccordo con papà. E poi non lamentarti: sarò pure la preferita di papà, ma mamma ha sempre un occhio di riguardo per te».

Caesar scosse la testa, scocciato, come se fosse una discussione fatta e rifatta. Le voci continuarono a litigare, ma si allontanarono, permettendo al Demone e all'Angelo di uscire dalla tenda. Questa volta il ragazzo non offrì il braccio, e se da una parte Freya si sentì sollevata da tutte quelle preoccupazioni della distanza fra i corpi, una piccola parte di lei sperava ancora di incrociare le loro membra.

Giunsero a una piccola serie di scale in fondo al corridoio, dove il ragazzo si fermò. «Perciò... cosa vuoi sapere esattamente?».

Freya sospirò, cercando parole precise per esprimersi, e allo stesso tempo per celare il suo disappunto e il suo sentirsi inadeguata. Parole che avrebbero colto nel segno ma che non l'avrebbero resa debole a occhi esterni. «Non capisco perché proprio io, una semplice ragazza che non ha nulla da offrire alla famiglia imperiale, sia qui quando potrebbe esserci Bjorn o qualcun altro».

Caesar sorrise, e nella sua risposta l'Angelo notò la sicurezza che si acquisisce solo quando si sa per certo qualcosa. «Non vedo perché sarebbe dovuto venire Bjorn, visto che voi non avete un erede al trono ma lo eleggete per votazione alla morte dell'ultimo Re in vita». Non faceva una piega, ciononostante non aveva risposto alla domanda. Spiegare perché non aveva invitato Bjorn non era lo stesso del perché avesse voluto lei. Il Demone doveva aver capito, visto continuò: «E da come mi hai detto a casa tua, lavori dalla mattina alla sera per vivere degnamente; ho pensato che forse un po' di vacanza ti avrebbe fatto bene».

La ragazza si sentì come un manichino di paglia colpito dalla freccia di un arciere. Non era mai capitato che qualcuno si prendesse cura di lei in quel modo, non offrendole alloggio per avere braccia in più per lavorare, non chiedendole di diventare una moglie per poter lasciare a qualcuno la fattoria in tempi di guerra. No, Caesar non chiedeva nulla in cambio, si era preoccupato solo di lei; e questo la faceva sentire scoperta, fragile.

«Be', non avresti dovuto disturbarti!», quasi ringhiò lei. Se l'era cavata benissimo da sola per sedici anni e avrebbe continuato su quella strada per l'eternità. Lui era solo un Demone spocchioso che si insinuava di nascosto in casa sua e che cercava di carpirle i segreti. Che cosa le era saltato in mente? Perché aveva accettato quella richiesta invece che impuntarsi e rimanere a casa? Maledetta curiosità.

Caesar non fece una piega, ma salì qualche gradino della scala e le offrì la mano per invitarla a seguirlo. A denti stretti lei salì la scala, senza accettare la mano. Dopo un po' di trovarono di fronte una porta, che nonostante fosse nascosta aveva la stessa bellezza e dettagli delle altre. Il Demone la aprì e si trovarono davanti una terrazza, più grande della piazza del mercato del villaggio di Freya. Lei non poté non trattenere il fiato dalla meraviglia, per poi darsi della bambina e sperare che Caesar non l'avesse vista. Uno sguardo nei suoi confronti, e ebbe conferma che lui sapeva cosa stava provando: il sorriso si era addolcito.

«Ti ho portato qui», spiegò lui, facendo due passi in avanti e indicando lo spazio con le braccia aperte, «per farti vedere che non sei poi tanto lontana da casa».

Freya incrociò le braccia e lo fissò, chiedendosi cosa intendesse. Lui le fece cenno di avanzare e quando furono abbastanza vicini, le circondò un fianco con la mano, indicando con l'altra su. Il cielo in lontananza era ancora colorato per il sole che stava tramontando, ma proprio sulle loro teste ormai era blu scuro. «Le stelle sono le stesse».

La ragazza puntò gli occhi sul firmamento, la cui luce era ancora troppo debole. Caesar aveva ragione: erano identiche a quelle che si potevano vedere dalla finestra della sua camera. Tante luci guida nel buio che parevano imperturbabili e disinteressate a cosa accadeva laggiù, al fatto che dopotutto Freya non si sentiva poi così male con il Demone così vicino. Ma sarebbe morta pur di ammetterlo ad alta voce.

Quando il Principe tolse la mano dal suo fianco, lei lo sentì stranamente vuoto. Stava per ringraziarlo, eppure l'idea di dargli soddisfazione era troppo pungente, perciò non disse nulla. Si limitò a fissare i suoi occhi scuri, e anche lui fece lo stesso. Cosa dire? Cosa fare? Ad interrompere il momento fu un servitore, che si scusò e annunciò che la cena era pronta.

«Ho pensato che presentarti a tutta la Corte non sarebbe stato molto d'aiuto, il primo giorno», disse Caesar, lanciando uno sguardo alle stelle. «Puoi mangiare in un luogo più intimo, se lo desideri».

Freya lo osservò per un attimo, chiedendosi come facesse a pensare a tutto affinché non si sentisse troppo un'estranea. Forse i Demoni leggevano nel pensiero, era plausibile dato che gli Angeli avevano la capacità di curare le proprie ferite con le emozioni. Era un po' strano da spiegare a qualcuno che non aveva mai visto in azione quella capacità, ma poiché era qualcosa di eccezionale, una dote innata di ognuno della sua specie, magari i Demoni potevano carpire le idee che passavano in mente agli altri. «Sarebbe perfetto», concesse lei, innescando un sorriso sul volto di lui.

Lui si rivolse verso il servitore, che era rimasto silenzioso in un angolo a occhi bassi. «La signorina gradirebbe cenare in giardino, vicino alla finestra».

L'uomo in uniforme fece un inchino e chiese: «Da sola?».

Caesar lanciò un'occhiata a Freya, ma prima che lei potesse rispondere in un modo abbastanza anonimo da non far trapelare la paura che provava ad immaginare di rimanere sola in quel grande Palazzo, lui sorrise, come se avesse trovato risposta nei suoi occhi troppo azzurri, e rispose: «No, apparecchia per due».


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Ciao ragazzi! :)

Ho deciso di iscrivere questa storia ai Wattys, posso chiedervi di aiutarmi? Basta solo stellinare i nuovi capitoli e commentarli, nulla di troppo faticoso. Ovviamente, se vi va ;)

Grazie mille per la collaborazione e per aver letto questo capitolo, ci sentiamo presto! ♥

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