4 - Kare
«Vi prego, Sire, ditemi che state scherzando», ripeté nuovamente Freya, scuotendo la testa. Si trovava nella grande sala della comunità, dove su un palchetto di legno rialzato si trovavano i due troni delle Maestà, ricoperti di pellicce pregiate. Solo uno era occupato, visto che il secondo monarca era deceduto qualche anno prima.
«Stento anche io a crederci, a quanto pare per la loro cultura è normale», rispose Sigfrid, passandosi la mano sulla barba bionda e fissando il vuoto.
«Non ve ne hanno mai accennato? Conoscete l'Imperatore da decadi, ormai», provò ancora la ragazza. O forse, semplicemente, aveva la conferma ai suoi sospetti: Caesar era un idiota. Eppure, il Re avrebbe dovuto dire di no dall'inizio, non scaricarle il peso di quella inusuale richiesta.
«Wladimir Bloodwood non è esattamente un tipo che rispetta le tradizioni alla vecchia maniera», sbuffò mezzo divertito Sigfrid, e questo rese ancora più infastidita Freya: i Demoni avevano chiesto la sua presenza a Palazzo, in America, e lui se ne stava lì a ridacchiare sommessamente di vecchi episodi con l'amico Imperatore!
«Ancora non capisco, Sire. A che scopo chiedere la mia presenza presso la loro Corte? So a malapena dire "per favore" e "grazie", e voi mi mandate in un ambiente simile?», sbuffò lei, incrociando le braccia. Non le importava di essere scortese, si sentiva tradita da quello che era come uno zio per lei. Aveva vissuto un mese da lui, come da accordo del villaggio dopo la morte dei genitori, e si era quasi sentita a casa. Sapeva che avrebbe potuto chiedere di restare ed essere accolta con sincero calore, ma semplicemente odiava chiedere. Significava essere deboli, per lei, tendere una mano in aiuto quando con quella stessa mano si poteva ingegnarsi e risolvere da sé.
«Oh, Freya, conosci bene le buone maniere, solo non ti va di applicarle», la riprese bonariamente, per poi muovere la mano come a scacciare l'argomento. «Restare qui a discuterne non cambierà la realtà dei fatti. Wladimir ha detto che vuole ricambiare l'ospitalità che ho avuto nei confronti della sua famiglia, e non ha voluto Bjorn e sua moglie: ha espressamente fatto il tuo nome», spiegò il Re, per poi congedarla con un sorriso di scuse.
Freya era troppo infuriata per salutare degnamente: si voltò ed uscì a larghi passi. L'Imperatore dei Demoni non conosceva di certo il suo nome, eppure sapeva chi era stato a chiederla a Corte. L'unico a cui si era presentata. Entrò nella piccola capanna e si preparò la piccola sacca, visto che il pomeriggio sarebbe passato un Angelo per scortarla all'aereo più vicino, nella città degli Umani che si trovava a circa tre ore da lì.
Stava infilando alla rinfusa quei pochi abiti che aveva, quando sentii qualcuno alle sue spalle schiarirsi la gola con un colpetto di tosse. Freya si voltò spazientita, credendo fosse Sigfrid o qualcuno per lui, ma appoggiando con una spalla alla parete, a braccia conserte, Kare la osservava. Era appena tornato dalla caccia mattutina, e lo testimoniava la guancia sporca di terra e la faretra sulla schiena.
«Oggi non è giornata», sbuffò lei, tirando i lembi della sacca per chiuderla.
«Non lo è mai», rispose tranquillo il ragazzo, sfilandosi la faretra e avanzando verso di lei. La abbracciò da dietro, dandole un bacio sul collo. «Sei più rigida del solito», mormorò.
Freya non era proprio in vena di smancerie – non lo era mai, ma in quel momento in particolare. Provava affetto per Kare, forse anche amore, ma non capiva mai quando doveva lasciarla sola. «Devo andare alla Corte dei Demoni», quasi ringhiò.
Almeno il ragazzo era abbastanza sveglio da capire che non era il caso di indagare. La fece voltare, affinché i loro volti fossero uno di fronte all'altro. Freya, guardandolo, si sentì davvero orgogliosa: non solo il villaggio, ma tutte gli Angeli volevano essere la compagna di Kare, avere il suo posto. Alto, muscoloso, ultimo di quattro fratelli, aveva molto da offrire economicamente – per non parlare poi della bellezza.
«Quando tornerai?», la interrogò lui.
«Non ne ho idea», mormorò lei, sperando segretamente che lui la confortasse, che le offrisse di passare le ultime ore insieme.
Kare si limitò ad annuire e a baciarla. Un normalissimo bacio, niente che trasmettesse amore o paura per la lontananza prossima: lui non era tipo da dare spontaneamente e lei era troppo orgogliosa per chiedere. Si staccarono quando Freya non ne poté più di aspettare. Le piaceva la morbidezza delle sue labbra miste al solletico che provocava la barba, le braccia che la avvolgevano forte, fino a tirarla su e non farle toccare il suolo, il sapore di terra umida che lo accompagnava; eppure sapeva che tutto quello non le bastava. Una parolina di conforto era troppo? Un "mi mancherai" o "ti aspetto qui" non erano forse normali in una relazione?
«Ci vediamo», disse lui, facendole un sorriso mozzafiato. Afferrò la faretra all'ingresso e uscì, senza aggiungere nient'altro.
Forse era Freya il problema, tra loro due. Si immaginava cose che le altre coppie non facevano, ma come poteva saperlo? Non aveva una madre a cui chiedere, né amici così intimi con cui confidarsi. Magari avrebbe anche fatto la figura della bambina che vuole le coccole. Accantonò tutti quei dubbi quando i suoi occhi tornarono sulla sacca piena di vestiti.
Sbuffò, afferrandola e avvicinandola alla porta – o almeno, dove si sarebbe dovuta trovare la porta: il vano dell'ingresso era coperto da una pelle di orso che sostituiva l'uscio di legno. Si preoccupò di chiudere le imposte e di controllare che non vi fosse nulla di fuori posto, poi fece il letto. Sperava di non dover passare troppo tempo presso i Demoni, dove non conosceva nulla di loro e nessuno. Certo, aveva Caesar, ma dopo quell'insana richiesta aveva deciso di evitarlo, o di trattarlo freddamente.
Di sicuro si era immaginato ciò che stava provando lei in quel momento, eppure aveva agito senza neanche chiederglielo. Avrebbero potuto ospitare Bjorn e la moglie, e invece no: volevano un'inutile ragazzina alla loro Corte, per cosa poi? Non aveva nulla da offrire alla sua gente, di certo la storia non sarebbe cambiata per i Demoni.
Stava per chiudere la porta e aspettare il suo passaggio quando inciampò nella spada. La osservò per un po', chiedendosi se avesse dovuto portarla, per esercitarsi e per difendersi da eventuali attacchi – dopotutto si sarebbe trovata in terra straniera. Si ricordò all'ultimo che gli Umani erano intransigenti con le armi negli aeroporti, perciò lasciò tutto lì con una nota di rammarico.
Controllò di nuovo di avere nella sacca la tazza e il thermos e uscì. Li avrebbe riconsegnati al proprietario, per eliminare quell'assurda sceneggiata del "potrete ricambiare il favore molto presto". Si maledisse per non essere andata a pesca anziché a caccia, il giorno in cui Caesar era spuntato dal nulla.
Ci sarebbe ritornato, di sua spontanea volontà o meno.
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