Prologo.
𝗣𝗥𝗢𝗟𝗢𝗚𝗢
𝑜𝑐𝑒𝑎𝑛𝑜 𝑑𝑖 𝑙𝑢𝑐𝑖.
Oceano. Sopra la sua testa svolazzava un oceano di luci. Fluttuavano sul soffitto palline di cristallo che all'interno intrappolavano delle fiamme arroventate e morbide, illuminavano l'ambiente regalandogli una sensazione avvolgente; il colore aranciato si rifletteva armonioso sulle pareti, sulla pelle ambrata degli ospiti, sorpassava incerto i tavoli andando a depositarsi sul pavimento piastrellato. Allungava le braccia e allargava le mani nel tentativo di afferrarne qualcuna, ma appena le dita paffute sfioravano il vetro scottante delle lampadine, quest'ultime sgusciavano via liberandosi dalla sua presa: la sua risata tiepida si liberò nell'aria assieme allo scampanellio leggero degli oggetti fluttuanti che si scontravano appena tra di loro. Due grandi mani le afferrarono i fianchi e l'agguantarono saldamente finché i suoi piedini nudi non toccarono il legno di una panca sottostante; suo padre l'aveva tenuta sulla sua spalla permettendole di giocare con le luci sul soffitto e le sue robuste mani che poco prima erano impegnate a stringere il manico di un coltello che affondava ripetutamente nella carne di un povero cervo, adesso sfioravano con innaturale gentilezza il corpo della bambina che di anni ne aveva appena due e a malapena riusciva a reggersi in piedi da sola.
Il subbuglio dei chiacchiericci distorti degli ospiti che presenziavano in quel locale le arrivava alterato, non riusciva a distinguere le parole che fuggivano dalle bocche delle persone; le loro risate altisonanti erano come un fischio ai timpani, le loro facce sorridenti macchiate di chiazze rossastre a causa del vino erano nient'altro che sagome raccapriccianti e ogni tanto riconosceva le espressioni che aveva memorizzato perché le ripetevano in continuazione: complimenti rivolti nei suoi confronti, per lo più, sull'aspetto fisico e sul sorriso che da solo bastava a illuminare la stanza. Ma Emilia delle donne dagli occhi languidi dal troppo vino che la guardavano affascinate e della torta di compleanno più grande di lei che era sufficiente a sfamare tutti gli invitati, dei regali di compleanno e dei baci dei suoi genitori sulle guance non prestava interesse alcuno. Il suo viso paffuto era rivolto verso l'alto, nelle grandi iridi color carbone era riflesso il fuoco arroventato di quell'oceano sul soffitto dentro al quale desiderava annegare.
Aveva continuato a vederlo come un mare di luci anche quando aveva capito che si trattava di lampadine appese al soffitto con della corda. A dieci anni la sua immaginazione era ancora intatta, padroneggiata da una personalità turbolenta, vivace, a tratti indisciplinata che faceva esasperare sua madre, la quale, trasportata da rigidi archetipi che si impegnava a far rispettare a tutta la famiglia, si trovava sempre incapace a trattenere con sé quella figlia ribelle che al minimo cenno di distrazione le sfuggiva dalle mani; a poco servivano gli inefficaci tentativi di richiamarla a sé che la bambina aveva già tolto le scarpe lasciandole dimenticate sul pianerottolo di casa. Sigrid Hähn non si sarebbe mai concessa l'umiliazione di correrle dietro, altresì afferrava l'estremità della lunga gonna blu e la sollevava quel tanto che bastava per affrettare il passo e raggiungere il buon Gideon comodamente appisolato sulla poltrona, che all'udire dei tacchi che battevano prepotenti sul legno del pavimento che preannunciava l'arrivo della moglie in atteggiamenti tutt'altro che indulgenti, drizzò la schiena e attese che la donna irrompesse in sala. Poggiando le mani sui fianchi e lanciandogli un'occhiata fulminante socchiudendo gli occhi scuri e assumendo un'espressione che l'uomo identificò come qualcosa di raccapricciante. E quando lei informò il marito dell'atteggiamento scatenato della figlia femmina scappata ancora una volta che aveva, a detta di Gideon, alterato ancor di più l'equilibrio emotivo della donna – il fatto che fosse incinta era sicuro si ripercuotesse inevitabilmente sulla eccessiva sensibilità —, lui si pronunciò nel tentativo di mitigare la furia della moglie, Sigrid gli afferrò con una certa aggressività una ciocca di capelli, brontolandogli nell'orecchio: «Vai immediatamente a recuperare quella selvaggia di tua figlia.» e non c'era stato bisogno di aggiungere altro.
Gideon Hähn con il passo pesante e un'espressione gentile e arresa si mosse in direzione del bosco che delimitava l'area nelle vicinanze di casa; si espandeva, in realtà, per tutto il perimetro delle mura e se ci si addentrava abbastanza alle orecchie giungeva il familiare sussurrare dell'acqua che sorpassava le pietre scivolando lungo la montagna e, al di là del fiume, il Wall Sina ergeva imponente ostentando ricchezza. L'uomo non dovette introdursi troppo all'interno del fitto bosco, perché avanzando con sicurezza raggiunse in pochi passi una vecchia capanna di legno; il cartello appeso a un chiodo all'entrata della casetta era scarabocchiato con il pennello e riportava una scritta che precludeva l'intenzione di qualunque avvicinamento, un 'SMAMMA' indicato con tre punti esclamativi sosteneva la volontà della sua proprietaria di non voler essere disturbata. Gideon, che era un uomo alto e robusto dovette piegarsi leggermente sulle ginocchia, picchiettò leggermente sul cartello di legno e simulò l'azione con la voce: «Toc toc» annunciò dolcemente «C'è qualcuno in casa?»
Si sedette sull'erba alta incrociando le gambe e attese pazientemente abbandonandosi al mormorare leggero del vento che accarezzava le foglie degli alberi facendole rabbrividire, passò una mano sfiorando appena i ciuffi verdi e i fiori colorati; chiuse gli occhi e lasciò che i suoi sensi si godessero dei sussurri della natura: la brezza estiva che si districava tra i suoi capelli e gli solleticava le guance e poi tornava dalle foglie che frusciavano indispettite, il cinguettare degli uccelli che si chiamavano tra di loro, il delicato scorrere dell'acqua del ruscello. Aveva capito, finalmente, perché a Emilia piaceva rifugiarsi lì. Al minimo rumore diverso da quello della natura, l'uomo dai folti capelli rossi aprì nuovamente gli occhi; la bambina stava in piedi davanti a lui, con le ginocchia sporche di erba e leggermente arrossate, una corona di fiori in testa e in mano l'enciclopedia dei fiori che l'anziana Thea – la proprietaria del vivaio all'angolo – le aveva regalato qualche settimana fa. I pantaloncini marroni – che un tempo appartenevano a Gilbert e per questo erano tenuti al loro posto dalle bretelle che di tanto in tanto le scivolavano dalle spalle, – erano arrotolati sopra le ginocchia e la maglietta sporca di pittura una volta era bianca. Ovviamente, non indossava le scarpe. Gideon non riuscì a nascondere un sorriso che in realtà tratteneva un immenso orgoglio: non avrebbe cambiato il modo di essere di Emilia per nulla al mondo. Allungò una mano ad accarezzarle la guancia sporca di pittura verde – così come le mani e le braccia erano ricoperte di buffe rappresentazioni di fiori dipinti con la tinta colorata – prima di comunicarle che l'aveva mandato la mamma a cercarla; nel sentire quelle parole la bambina si ritrasse come se fosse stata scottata, con un gesto repentino, indossando su quel viso chiaro che Gideon amava vedere sempre sorridente, un'espressione corrucciata.
«No!» Affermò alzando un po' troppo la voce «voglio stare qui. Tutta la notte.» Appoggiò con assoluta cautela il libro sul tronco di un albero abbattuto, dopodiché tornò con la schiena impettita incrociando le braccia al petto senza lasciare spazio a supposizioni, mantenendo le sue salde le sue intenzioni – in questo, dovette ammetterlo, era così tanto simile a Sigrid, ma confessarlo ad alta voce a una delle due sarebbe stato un vero e proprio tentativo di suicidio –. Lui tentò di dissuaderla nel modo più gentile possibile; non gli piaceva alzare la voce con lei, né con il suo figlio maggiore, preferiva anzi utilizzare la pazienza e la dolcezza. Uno dei punti deboli di sua figlia, Gideon lo sapeva bene, era il cibo. I dolci, soprattutto. Sicché decise di lanciare l'arma vincente. «Va bene, allora» l'avvertì alzandosi in piedi con qualche difficoltà, affondò le mani nella terra e fece forza sulla gambe tirandosi in piedi, si pulì la terra dai pantaloni «Sarò costretto a portarti il dolce alla cannella direttamente qui. Anche se, con tutti gli invitati che ci saranno, non ti prometto niente» l'uomo non aveva bisogno di guardarla per sapere che appena aveva nominato il suo caratteristico dolce con zucchero e cannella che ogni anno preparava in occasione del suo compleanno, gli occhi di Emilia si erano accesi, le sue guance si erano colorate di emozione; conosceva così bene sua figlia che, nonostante gli invitati chiassosi e i familiari impiccioni, il vestito rosa che sua madre aveva accuratamente preparato per lei che, sicuramente, non le sarebbe piaciuto e tutte le innumerevoli limitazioni che Sigrid si premurava di ricordarle che garantivano l'impressione della figlia perfetta, Emilia non avrebbe resistito al suo dolce preferito. «A meno che tu non voglia mangiare delle bacche per il tuo compleanno.» A quel punto, Gideon si voltò abbassando lo sguardo per incontrare il viso contratto in un'espressione di puro terrore della bambina che si affrettò ad afferrargli la mano e incamminarsi assieme a lui fuori dal bosco.
Avrebbe compiuto undici anni. Non era più una bambina, o almeno, ascoltando i discorsi che rimbalzavano tra gli ospiti seduti ai tavoli alla locanda che lei occasionalmente serviva, era quello che sarebbe dovuto essere. Un'età cruciale, dicevano, non più bambina ma neppure abbastanza grande da poter assolvere agli stessi incarichi che invece riguardavano il fratello maggiore, Gilbert, che di anni ne aveva quindici e responsabilità ben più notevoli gli erano state affidate – nel rispetto, s'intende, della sua sventurata condizione fisica che lo vedeva costretto su una sedia a rotelle –; prima fra queste, e motivo di un accenno di gelosia da parte di Emilia, l'accesso diretto in cucina. Il regno di suo padre. La zona della casa, in generale, dove a nessuno oltre a Gideon era consentito l'accesso. Tuttavia già da qualche tempo Emilia aveva iniziato a collaborare nella tavola calda di famiglia, servendo ai tavoli, di tanto in tanto – quando il posto era affollato e servivano mani in più in sala –, sotto attenta supervisione della madre. Anche se avesse voluto, e questo non significa che non ci avesse provato, non avrebbe potuto sottrarsi a quell'incarico. Era il locale che come da tradizione, il susseguirsi nel tempo dei singoli componenti della famiglia da parte di suo padre che avevano avuto in eredità la casa dovevano obbligatoriamente anche occuparsi del locale, Emilia e i suoi fratelli avrebbero ricevuto in successione.
Tenne stretta la mano di suo padre nella sua, assediata da pensieri raccapriccianti che vedevano Gideon abbandonarla, un giorno, e giunsero finalmente in prossimità del giardino posteriore alla casa delimitato da una staccionata, il cancello di legno era aperto. L'erba nel cortile era stata accuratamente tagliata in modo tale da permettere anche a Gilbert di godersi un po' di meritato riposo all'ombra dei massicci abeti – Emilia aveva a cuore i suoi alberi, così li aveva ribattezzati poiché se si trovavano all'interno del recinto, allora erano di sua proprietà. –, o di andare senza difficoltà a raccogliere i pomodori qualora servissero nell'orto che avevano realizzato accanto alla fontanella. Dalla parte opposta svolazzavano i panni stesi. Emilia sciolse le dita intrecciate a quelle di suo padre e corse all'interno del giardino andando ad abbracciare uno dei suoi alberi, dopodiché entro in casa.
L'abitazione in cui vivevano apparteneva alla sua famiglia da generazioni. Costruita nei pressi del Wall Sina, il muro più interno al di là del quale viveva la popolazione più abbiente, i borghesi, si estendeva su un unico piano ed era l'ultima casa del quartiere e, di conseguenza, la più vicina al bosco. Suo padre, Gideon, aveva ereditato l'abitazione successivamente alla morte prematura del padre – il nonno che Emilia non aveva mai conosciuto ma che dai racconti vigorosi degli abitanti del villaggio, doveva essere stata una persona splendida –, e assieme alla casa aveva ricevuto in successione anche il ristorante che era stato costruito affianco, se non letteralmente appiccicato. La bambina varcò il corridoio stretto di corsa e anziché proseguire svoltò pericolosamente a sinistra trovandosi davanti a un'altra entrata, più grande, che presentava diverse stanze; a destra la cucina che attraverso le luci accese era possibile scorgervi all'interno e invece a sinistra due porte scorrevoli chiuse che corrispondevano rispettivamente alle camere da letto dei suoi genitori e di Gilbert. Più avanti, invece, si estendeva l'ingresso di casa.
Emilia non fece in tempo a entrare in cucina per vedere il dolce che suo padre aveva preparato per lei che dovette arrestarsi di colpo, altrimenti sarebbe andata a scontrarsi direttamente con il pancione della mamma che comparve sulla soglia della stanza. Teneva il viso contratto in un'emozione infastidita e furiosa che però, dall'altra parte, non trovò dove attaccare poiché anche Emilia in risposta andò a trasmettere un'espressione altrettanto irritata nel tentativo di comunicare aperto il confronto a sua madre: sfidarla sembrava essere diventato uno dei suoi passatempi preferiti, ultimamente. Opporsi alle sue rigide regole, lottare fino allo sfinimento e, alla fine, scappare da quel tumulto inquieto che diventava lei appena la sua pazienza si esauriva anche se, con la sorellina in arrivo, Sigrid si concedeva meno agitazione. «Tu vieni con me.»
Le aveva tolto di dosso i vecchi vestiti di Gilbert facendole indossare, utilizzando le maniere forti, un vestito dal colore rosa antico con la gonna e le maniche a sbuffo. I capelli erano stati sistemati e un grosso cerchietto che riprendeva il colore del vestito riusciva in qualche modo a tenerli furiosamente sotto controllo; toglierle di dosso la coroncina di fiori era stato un combattimento agghiacciante durante il quale tutto ciò che Gideon e Gilbert dalla cucina riuscivano a percepire erano le grida di Emilia che strillavano tutt'altro che aggettivi adatti a una bambina, a una signorina, come continuavano a ripetere incessantemente tutti quanti.
Gli ospiti erano raggruppati nella sala principale del locale consumando un'abbondante cena con i calici continuamente riempiti di vino, non si erano nemmeno accorti che Emilia mancasse all'appello talmente tanto erano impegnati a setacciare con le mani unte e sudaticce la pancia di Sigrid; la sorellina tanto attesa era in arrivo. Giacché della festeggiata non v'era traccia, a dissipare l'anima turbata della madre che si trovava a un passo da intervenire con le maniere cattive e andare a prenderla per i capelli, se necessario, bastò l'intervento di Gilbert che dando una giustificazione casuale agli invitati oltrepassò la porta e se la chiuse alle spalle, assaporando per un attimo la quiete della casa vuota che avvolgeva l'ambiente in una confortevole penombra. Si mosse lentamente, il più possibile, in direzione della camera di Emilia; quando l'aprì, i suoi occhi verdi vennero sopraffatti dall'oscurità. Accese l'interruttore e nella devastazione più totale di cui quella stanza era succube, il ragazzo individuò Emilia incastrata in un angolino tra il muro e il letto. Aggirò i libri illustrati sparsi ma con le ruote della carrozzina non poté evitare di passare sopra ai disegni, schivò i vasi con i fiori appesi al soffitto e gli scaffali dove altrettanti vasi di piante e libri vi erano poggiati sopra; infine, si fermò davanti alla sorellina intrappolata in quel piccolo spazio con il viso nascosto. Si allungò a toccarle la testa muovendo lentamente la mano accennando a una carezza e appena Emilia riconobbe a chi apparteneva quella mano alzò gli occhi mori incatenandoli a quelli verdi del fratello. Lui, accennando a uno dei suoi soliti sorrisi incoraggianti infilò una mano nella borsa che teneva in grembo e tirò fuori la coroncina di fiori che la bruna aveva tentato disperatamente di tenere con sé.
«Cerchi questa?»
Appena Emilia individuò, leggermente offuscata a causa degli occhi lucidi di lacrime, la coroncina di fiori che la signora Thea le aveva regalato qualche tempo prima e che sua madre, con totale mancanza di sensibilità le aveva strappato di mano, di nuovo il suo sorriso splendente tornò a illuminarle il viso di felicità. Uscì fuori dal suo stretto rifugio e saltò in braccio a Gilbert circondandogli il collo con le braccia, liberando nell'aria una fresca risata contagiosa; dopodiché il fratello maggiore riuscì a slacciare le esili braccia di sua sorella dal collo e farle poggiare di nuovo i piedi sul pavimento, la guardò brevemente negli occhi concedendosi qualche istante per perdersi in quelle iridi corvine adesso occupate da scintille commosse e le scompigliò dolcemente i capelli facendo in modo che tornassero – almeno in parte – la solita matassa di nodi che da sempre era uno dei suoi tratti distintivi. Le poggiò la coroncina di fiori sulla testa e finalmente davanti a lui tornò a esistere la sua Emilia. Adesso và meglio, le disse prendendole la mano convincendola tacitamente a seguirlo. «Sembri un confetto.» Confessò il quindicenne scatenando l'ennesima risata da parte della sorella e si lasciò andare a uno sbuffo divertito.
Emilia aveva incatenato la sua manina a quella di Gilbert, come faceva da sempre. Era stata la prima cosa che aveva fatto appena poche ore dopo essere nata, afferrare il dito indice del fratello in un gesto involontario e poi non aveva mai smesso di farlo; i suoi primi passi li aveva fatti aggrappandosi a Gilbert, il fratello era sempre stata la prima persona da cui correva a raccontare le sue avventure, le sue scoperte, le sue idee, il primo a sapere del suo sogno di diventare scienziata, una d'élite; il suo laboratorio nella Capitale avrebbe consentito l'accesso solo a lui, Gilbert Hähn, Capitano del Corpo di Gendarmeria. Anche adesso che le aspettative e le speranze della famiglia di vedere il figlio maggiore arruolato nella Polizia Militare e vivere nei territori interni si era dissolta come il fumo che usciva dalla pipa che occasionalmente i militari ospiti alla locanda fumavano alla sera tardi, quando erano sicuri che non ci fosse nessun altro a guardarli, diffondendosi nell'aria fresca e raggiungendo le stelle. Era stato un incidente. Gilbert proseguiva a ripeterlo incessantemente, continuamente, instancabilmente finché, diceva lui, non gli si sarebbero consumate le corde vocali; era stato lui a voler uscire con il cielo che preannunciava un temporale, era stato lui a non guardare dove metteva i piedi, era stato lui a portare Emilia con sé. Il piede era scivolato perché lo aveva poggiato su un sasso bagnato e ricoperto di fango, aveva perso l'equilibrio ed era slittato e che fossero in prossimità di un precipizio formatosi in seguito al crollo di una frana era stata esclusivamente una terribile casualità: Gilbert era scivolato di sotto, il terriccio umido che si appiccicava alla pelle e la pioggia gelida che s'introduceva nelle ossa si univano ai colpi ripetuti sul terreno e, in un attimo, la sua schiena batté un urto brutale su una delle grosse pietre che il tracollo della montagna aveva trascinato con sé. Sarebbe morto se Emilia, con il cuore in gola dal terrore che avrebbe immobilizzato chiunque, non avesse trovato la forza e il coraggio necessari a incoraggiarla a correre verso casa; con il vento feroce che trascinava le gocce di pioggia contro la sua faccia e il suolo a tratti melmoso che minacciava di catturarle i piedi, corse a chiedere aiuto. Erano state le ventiquattro ore più spaventose della sua vita, in bilico tra la vita e la morte, alla fine la dea del sonno eterno lo aveva risparmiato. Costretto eternamente su una sedia a rotelle, un promemoria che imponeva un continuo interfacciassi con le colpe che non gli avrebbero mai più dato tregua, aveva distrutto le ambizioni della famiglia, le sue, e quelle di Emilia.
Varcarono la soglia del locale, le sue luci calde li avvolsero in un accogliente tepore. Nella zona più interna i tavoli erano occupati da una sequela imprecisa di persone che condividevano diversi gradi di parentela; due dei grossi tavoli erano stati uniti a formare un'infinita tela terrificante di immagini raccapriccianti, il quadretto che racchiudeva due gruppi di individui di ordine gerarchico differente era facilmente individuabile, la tensione seppur appena percettibile aleggiava pericolosamente tra le lampadine sopra le loro teste. Raggruppati nel tavolo più interno, davanti al bancone della cucina, la famiglia di sua madre: nonna Burga, un'orrenda settantenne dalla faccia segnata perennemente da una mostruosa espressione corrucciata che accentuava le rughe sul suo viso. La donna era talmente tanto raggrinzita che agli occhi di Emilia sembrava più simile a un rettile. Al suo fianco, impalate con la schiena rigida a simulare la postura mummificata della madre, c'era il reggimento delle quattro sorelle, le zie, che a loro volta erano accompagnate dai rispettivi compagni – uno più uguale dell'altro, constatò disgustata Emilia – e, seduti dall'altra parte del tavolo i terribili, abominevoli, mostruosi cugini; gli occhi tenebrosi di Emilia però si soffermarono su una personcina in particolare, impegnata a esaminare con una vaga espressione nauseata il piatto che aveva davanti a sé come in cerca di qualcosa di anomalo, sua cugina Cordelia. Stretta in un costoso vestito spocchioso colorato di un azzurro tenue, con pizzo e merletti bianchi, dava l'impressione di essere una bambola di porcellana. Cordelia era spaventosamente simile a lei che se qualcuno avesse osato metterle una di fianco all'altra, avrebbero quasi potuto scambiarle per gemelle, l'unica differenza erano l'eleganza, la raffinatezza della cugina che Emilia non possedeva per grande dispiacere di sua madre.
«Ah! Emilia, eccoti finalmente» l'esclamazione graffiata di una donna anziana riuscì comunque a produrre una melodia dolciastra e gentile. A chiamarla, sollevando in alto il fazzoletto bianco tenuto tra le dita in modo da farsi notare anche se nascosta da quei fossili dei parenti di sua madre, era la nonna da parte di suo padre, Theodora; leggermente più anziana rispetto a Burga, ma riusciva senza troppe difficoltà ad apparire più giovanile attraverso un carattere parecchio libertino. Dora, questo era l'appellativo simpatico con cui veniva chiamata, era una ventata d'aria fresca, un'esplosione di gioia e felicità; con i capelli corti e sbarazzini pitturati d'arancione, i grandi occhi verdi sempre leggermente socchiusi in virtù di quel sorriso lucente che porgeva serenità. Emilia saltò sulle gambe della donna e quest'ultima non mancò di farle notare quanto la corona di fiori le donava; ti illumina di vita. Concordarono lo zio Kristof, un uomo sulla quarantina che, a parte l'essere leggermente più magro, era la copia riflessa di suo padre, e sua moglie, una donna giovane e timida che teneva in braccio il suo neonato, il cugino di Emilia. Divergenti, invece, erano i sentimenti contrastanti trasportati in espressioni al limite del disgusto di sua madre, accompagnati da acidi commenti sgradevoli su quanto la bambina fosse sciatta e disordinata di Burga. Se avesse potuto, Emilia lo sapeva, Sigrid avrebbe dato di matto.
Evitando la presenza degli sguardi severi che le martellavano sulla schiena, Emilia trascorse tutta la sera seduta sulle gambe di Dora, beneficiando della compagnia dei nonni e deliziando anche gli altri ospiti abituali del locale, i quali avevano accettato con estremo gradimento di prendere parte alla festa, che sedevano nella zona più esterna, di racconti forvianti di avventure adatte a un vero esploratore e illustrando al meglio delle sue capacità le sue eccezionali ricerche rivolte all'immenso ecosistema in cui vivevano. Emilia poteva percepire l'interesse che gli invitati mostravano attraverso risate coinvolgenti, le tipiche attenzioni che si rivolgevano a una bambina. Poco prima che suo padre, dalla cucina, uscisse trasportando il vassoio con il dolce alla cannella con le candeline accese sopra, in mezzo ai discorsi sui propositi del futuro che la giovane bambina confessava agli invitati, il minimo accenno di uno sbuffo spazientito e ironico sfuggì dalle sottili labbra di Burga e andò a intrappolare in un silenzio imbarazzante le altre persone presenti.
«Tu non diventerai mai una scienziata» s'intromise con tono saccente la donna, portandosi il boccale di vino alle labbra, ne bevve un sorso «in casa mia le signorine si comportano come tali. Avrai modo di imparare un po' di buone maniere quando verrai a stare da noi.» concluse con arroganza, mantenendo l'aria vanitosa che non accennava mai ad abbandonare il suo aspetto.
Un'ombra calò sulla tavolata. Un silenzio atroce premette sulle labbra di coloro che erano a conoscenza degli eventi futuri che si sarebbero proiettati nella sua vita; a quanto pare, setacciando con terrore i visi dipinti da nera delusione, l'unica a non essere stata informata era lei. Anche suo fratello, che teneva il capo abbassato e un'espressione di compassione, rifiutò di guardarla in faccia. Orientò uno sguardo smarrito verso sua madre, Sigrid non aveva accennato a nessun mutamento di espressione che tradisse la sua freddezza; neanche lei degnò di minima attenzione Emilia che aveva il viso segnato dalla paura. Si operò nuovamente Burga a scagliare un rimprovero verso la figlia, biasimandola di non averle detto niente. Appena anche Gideon fece capolino dalla cucina attratto dall'improvviso silenzio in sala, Emilia balzò giù dalle gambe di Theodora e si avvicinò all'uomo iniziando a colpirlo sulla pancia con i pugni stretti emettendo dei versi arrabbiati e, se soltanto la gola non fosse stata chiusa da una morsa dolorosa, avrebbe urlato. Ad eccezione di qualche respiro esalato dallo stupore, nessuno tentò di fermarla, neanche Gideon stesso che aveva compreso la situazione, quando la bambina senza guardarsi indietro scappò via.
La stanza di Emilia era proprio affianco alla tavola calda, sicché non dovette disturbarsi di percorrere tutta la casa a corsa ma travalicò i tavoli più esterni, con il viso basso, le guance graffiate da calde lacrime abbondanti sotto gli occhi tristi degli ospiti che avviliti restavano immobili a seguirla con lo sguardo e aprì il piccolo cancello di legno che conduceva al suo giardino; un quadrato stravolto dall'erba alta, fiori, piante, un grosso pesco che si innalzava oltre il muro ed era visibile anche dalla strada, sul quale, da uno dei rami più massicci che era cresciuto quasi in orizzontale, era stata legata un'altalena. La parete di pietra che circondava il piccolo cortile era stata inglobata dall'edera rampicante che aveva cosparso l'ambiente di foglie che assumevano spettacolari sfumature di verde in estate e arancioni e rosse in autunno. Inoltre, il rampicante era utile per ostacolare la curiosità di occhi indiscreti; era impossibile, dunque, scorgervi all'interno. Emilia attraversò il suo giardino e si arrampicò sul corridoio esterno, un piccolo patio che divideva l'interno della stanza, e entrò. Non si preoccupò di chiudere le porte scorrevoli. Si sedette in mezzo alla stanza dove una grossa colonna di legno separava, figurativamente, la camera; quando ancora la condivideva con Gilbert erano state collocate delle porte scorrevoli per permettere ai due fratelli di stare separati, tuttavia non erano mai state chiuse permettendo all'ambiente di essere un grande luogo unico. Dalla tavola calda era tornato a cospargersi un tenue chiacchiericcio soffuso che aveva tanto l'aria di essere qualcosa di estremamente impacciato, quasi inopportuno. Emilia restò semplicemente ad ascoltarlo con distrazione nel frattempo che un leggero vento estivo s'introdusse nella sua stanza solleticando campanelli appesi sulla tettoia.
Non parve udire neanche il leggero bussare alla porta. A catturare la sua attenzione fu un altrettanto debole è permesso? e quando Emilia volse il capo individuò la timida figura di Cordelia. Stava dritta con le gambe unite e le mani elegantemente allacciate dietro la schiena in una posizione raffinata seppure le sue intenzioni vennero ingannate dai piedi che, soffocati nelle scarpette azzurre, si muovevano nervosamente producendo uno stridio fastidioso che fece arricciare il naso a Emilia dal nervoso.
«Puoi toglierti le scarpe?»
«Come?» Interrogò Cordelia, evidentemente presa all'improvviso.
«Le scarpe» puntualizzò la cugina indicandole con lo sguardo i piedi «Puoi lasciarle fuori?»
La bambina obbedì all'istante, tenendosi allo stipite della porta con una mano mentre con l'altra adoperava a slacciarsi il cinturino e posizionarle ordinatamente sul lato opposto della stanza, dopodiché rientrò mettendosi nella medesima posizione. Nessuna delle due parlò per i successivi minuti, Emilia tornò a sorvegliare con aria infelice un punto imprecisato del giardino mentre invece Cordelia osservava imbarazzata i suoi piedi coperti dai calzini bianchi tornare a muoversi agitati e fu proprio lei a respingere quell'odioso silenzio e, sperava, anche un po' di ostilità; si schiarì la gola e parlò «Sai, la nonna può sembrare spaventosa e severa, ma in realtà è buona. Ci tiene alla nostra istruzione, tutto qui.» Concluse avvicinandosi di qualche passo fino a trovarsi affiancata a Emilia, tentò di individuare qualunque cosa ella stesse guardando così intensamente ma tutto ciò che i suoi occhi neri scoprirono fu l'oscurità che invadeva il giardino. Si sedette mantenendo una leggera distanza che non era sicura avrebbe mai potuto azzerare completamente, si voltò in sua direzione incontrando il profilo dai lineamenti morbidi di Emilia; la fronte alta, la curva del naso che terminava in una leggera punta all'insù, la sporgenza delicata delle labbra e, poteva intravedere gli occhi scuri oscurati dalle palpebre leggermente abbassate. Non avrebbe dovuto sentire, nei suoi confronti, certi sentimenti di accennata gelosia; eppure, più la guardava, più si osservava attorno posando lo sguardo sulla particolarità dell'ambiente in cui viveva che, al contrario del suo, era cosparso della sua creatività e personalità, sulla corona di fiori che aveva avuto il coraggio di mettere e sull'atteggiamento ribelle e, come aveva spesso sentito attribuirle dalla nonna, scatenato, non poteva fare a meno di provarlo, quel pizzico di invidia.
«E che c'entro io.»
Se Cordelia avesse avuto un rapporto che si avvicinasse anche un minimo all'amicizia con la cugina, probabilmente il suo tono buffo che sarebbe dovuto essere arrabbiato l'avrebbe fatta sorridere; ma loro non erano amiche, a dir la verità, si erano viste solo due volte, inclusa quella sera. Ringraziò il creatore che Emilia intervenì repentinamente sbattendo con prepotenza la mano sul parquet, perché non avrebbe saputo cosa rispondere, sembrava ancora più infuriata di prima: «insomma, diamine! Io appartengo a... qui. Casa mia. La tavola calda. Il mio giardino, gli alberi, le piante, il bosco. Non c'entro niente con voi.»
In effetti, se non fosse stata un'affermazione scortese, Cordelia avrebbe concordato. Ma non l'avrebbe mai detto, che una persona di campagna così attaccata alla terra avrebbe fatto un'enorme fatica ad adattarsi alla vita di città; tra le vie popolate e ingombranti, i palazzi alti incollati gli uni agli altri senza lasciare spazio all'aria di passare e che, di tanto in tanto, provocavano una nauseante sensazione di vertigine, le strade acciottolate, le persone distaccate, quasi disumane.
«Lo hanno deciso già da un po', credo. Ne parlano da almeno due mesi in casa e la tua stanza è già pronta.» Avrebbe dovuto dispiacerle, sentirsi in colpa, quelle parole avevano colpito Emilia più forte di quanto avesse fatto la reazione di suo padre, o di suo fratello poco prima; avere la conferma che era già tutto deciso era raccapricciante, le fece storcere lo stomaco. Emilia sospirò, poggiando il mento sulle ginocchia portate al petto sembrò arrendersi, per un attimo, alla fatalità; sua madre ancora una volta l'aveva in pugno. Tentò di immaginarsi come sarebbe potuto essere vivere nella Capitale alla quale, apparentemente, tutti avevano il viscerale desiderio di appartenere, «E com'è? Casa tua. Com'è fatta? È bella?» Auspicò che almeno la casa della famiglia di sua madre fosse un ambiente ricco di storia, di personalità, di caratteristiche peculiari che l'avrebbero fatta sospirare a ogni angolo svoltato. La risposta di Cordelia fu l'ennesimo macigno che si depositò nel suo stomaco e le provocò un'altra piccola crepa sul cuore. «No.» Replicò la cugina. «È dozzinale–»
«Cosa?»
«Dozzinale.»
«Che significa?»
«Banale, volgare, squallida.»
«Squallida?»
«Sì, insomma. Brutta.»
«Oh.»
Avrebbe dovuto interrompere il discorso perché Emilia tornò ad appoggiare il mento sulle ginocchia innalzando un'aria delusa. Tuttavia quella morsa stretta attorno alla gola che tanto le dava l'impressione di un serpente che azzannava il suo respiro, la gelosia, se poteva essere paragonata a un animale allora, pensò Cordelia, sarebbe stato proprio un serpente, continuava a morderle le corde vocali incitandola a continuare e lei l'ascoltò; utilizzò le parole più cattive che aveva a disposizione nell'ampio repertorio di parole difficili che la cugina non capiva. Lei era più grande di due anni, avrebbe dovuto avere un minimo di pietà ma la vita di città, dopotutto, era spietata. «Le pareti sono rosse, i tappeti sono orrendi e pesanti, i mobili scuri e pieni di oggetti superflui»
«Supercosa?»
«Superflui. Inutili.»
«Avete delle piante?»
«Qualcuna, nella stanza più luminosa dove c'è un pianoforte.» Si morse il labbro inferiore. «Ma noi non possiamo andare lì. E poi non avrai tempo per le piante, dovrai studiare. Starai chiusa in casa la maggior parte delle giornate, sui libri e anche se volessi, a Mitras non ci sono i parchi, eccetto qualche albero qua e là. Anche se, in realtà, un posto dove vedere delle piante e un po' di verde c'è.»
«Davvero? Dove?»
«Al cimitero.»
Aveva esagerato, pensò guardando gli occhi di Emilia macchiarsi di un velo lucido di lacrime che spuntarono lievemente sugli angoli. Distolse lo sguardo posandolo sulle ombre del giardino caduto nell'oscurità della notte; malgrado le tenebre che avvolgevano la città, se Cordelia volgeva l'attenzione alla sua destra riusciva a scorgere un frammento di luce calda che proveniva dal locale affianco; erano le luci appese al soffitto, quel reticolato di lampadine che ogni volta si fermava a osservare incantata. Spuntava da uno squarcio tra il muro, dove c'era il cancello rimasto aperto. Sentì Emilia tirare su con il naso e il senso di colpa le avvolse lo stomaco in una morsa terribile, tant'è che si adoperò per stemperare la situazione di disagio e tristezza che lei stessa aveva creato. «Non mi piace casa mia e neanche la città, se devo dirla tutta. – si sforzava di utilizzare un linguaggio semplice e scoprì che bastava semplicemente rilassare il cervello e smettere di concentrarsi sulle parole da utilizzare. Appurò che parlare come lei era piacevole – È soffocante e troppo impostata, come la mia famiglia. Non c'è luce, in casa mia, anche se abbiamo tante finestre; la luce fa fatica a entrare perché abbiamo i palazzi davanti. La mattina ci sono i rumori dei carri e degli zoccoli dei cavalli, le persone che passano, e di notte i cani che abbiano alla luna. Invece mi piace qui, mi è sempre piaciuto.»
«Oh.» Notificò lievemente Emilia. «Pensavo che vi facesse schifo venire qui.» Puntualizzò sottolineando il suo disappunto.
«Non è vero» rispose contrariata Cordelia. «Dal mio punto di vista, ogni volta che vengo qui mi sembra di stare dentro una fiaba. – s'interruppe un attimo riflettendo su cosa dire – sai, penso che tutte le case siano un po' come i loro proprietari; li ricordano, in qualche modo e guardando una casa si capiscono tante cose sul carattere del suo proprietario. Hanno degli aspetti unici che nelle altre case non trovi. La tua ti assomiglia, più di qualunque altro della famiglia: è accogliente, solare, disordinata, un po' buffa, è diversa da tante altre. È gentile, affettuosa e le piace essere circondata da un sacco di persone. È luminosa e felice. Come te. Non ti conosco bene, ma guardando la casa e poi guardando te si capiscono già molte cose.» Concluse il discorso indirizzando un'occhiata a Emilia, curiosa di assistere a qualunque effetto le sue parole avessero suscitato nella cugina e ignorò le probabilità di trovare un sentimento di riprovazione, e infatti, nella penombra dell'ambiente circostante con le deboli luci nella sua stanza che si riflettevano sul suo viso, riuscì a intravedere due occhi scuri come il carbone brillare come le lampadine che fluttuavano di là, le guance dipinte di un leggero color porpora e un sorriso contagioso che esprimeva da sé l'entusiasmo esagerato senza che lei dicesse nulla. Poi, proseguì «Casa mia invece non è così. È piena di oggetti ma è vuota, sembra sempre che sia raggomitolata su sé stessa, attorcigliata, inconsolabile. Non trasmette niente a parte sofferenza e tristezza.»
«Posso portare delle piantine, se vuoi e un po' delle mie cose che faranno sorridere la tua casa!»
Cordelia percepì un tepore meditabondo che le avvolse il cuore in una tetra sensazione dispiaciuta, il respiro le si mozzò in gola alla vista dell'ennesimo sorriso confortante capace di incoraggiare chiunque a ricambiarlo, anche senza la medesima energia. Cordelia era andata da Emilia nella speranza di riuscire a consolarla, ma alla fine la situazione si era capovolta e aveva finito per essere consolata dalla persona che più di tutte ne aveva bisogno. Alla luce di quella conversazione, l'ultima cosa che voleva era sottrarre la cugina alla sua realtà incantata in cui qualunque cosa sembrava esistere solo per lei; la casa stessa sarebbe probabilmente crollata senza di lei. Non voglio che tu debba lasciare tutto questo. Le confessò sinceramente, distogliendo lo sguardo dall'imbarazzo e spostandosi leggermente aumentando la distanza papabile tra di loro.
«Dovrò farlo comunque, prima o poi.»
«Quando ti sposerai?»
«No,» Reagì l'altra con una tonalità sbrigativa accompagnata da un'espressione leggermente disgustata e confusa «quando mi arruolerò. Perché io mi arruolerò nell'esercito.»
«Nell'esercito?»
Quella domanda restituì a Emilia il frammento di un ricordo che si collocava in un giorno imprecisato che trasportava con sé l'odore di un temporale e il tumulto delle sue gocce che irrequiete battevano sul tetto della casa; il cielo torbido di nubi accigliate, l'odore di disinfettante pungente che le pizzicava il naso, le lenzuola morbide sotto le dita. Era seduta sul letto di suo fratello, il quale ancora non aveva recuperato le energie sufficienti per rinunciare all'adeguato riposo, e gli faceva compagnia tentando di estorcergli qualche sorriso sincero. Poi, al commento di Emilia in riferimento alla rinuncia di Gilbert all'arruolamento nell'esercito, quest'ultimo aveva tirato fuori un discorso che non era più riuscita a togliersi dalla testa: «non è stata colpa tua, anche se vogliono farti credere il contrario. Sappi che mai mi permetterei di credere che sia stata tu la causa dell'incidente, non voglio che il senso di colpa ti perseguiti. Non lasciare che gli altri decidano al posto tuo, in qualunque situazione. Ribellati, reagisci, combatti per le tue cause, per ciò che credi giusto, per le persone che diventeranno la tua famiglia dopo di noi. Vattene da qui, adesso ti sembrerà insensato e non credere che siano le medicine, te lo dico con il cuore: questo non è il tuo posto. Tra qualche anno mi manderai una lettera, in qualunque parte della città ti troverai, e mi dirai che potrò finalmente venire a visitare il tuo laboratorio, hai capito?»
«Sì,» dichiarò a quel punto Emilia, alzandosi in piedi mettendo i pugni chiusi sui fianchi e rivolgendosi al cielo puntellato di stelle, sotto lo sguardo attonito di sua cugina Cordelia, sigillò una promessa «Tra qualche anno mi vedranno tutti con le ali della libertà sulla schiena, vedrai!» Trovandosi poi incapace a trattenere l'esaltazione che d'improvviso le aveva percorso la schiena come un brivido di entusiasmo, incominciò a saltellare sul posto osservandosi intorno alla ricerca di qualcosa che potesse accompagnarla in quella sua delirante prospettiva di vita che non avrebbe mai abbandonato facilmente, neanche se fosse stata trascinata via da casa sua con la forza; individuò, posizionati ordinatamente sopra uno scaffale dall'altro lato della stanza, degli occhiali da lavoro che la Signora Thea le aveva regalato assieme all'enciclopedia dei fiori affermando che «ogni scienziato che si rispetti porta con sé degli occhiali, questi ti aiuteranno a vedere con chiarezza e ti accompagneranno sempre. È un regalo che anche quando sarai più grande spero riuscirà a farti ricordare di me», li afferrò e li posizionò sopra la testa, afferrò il grosso libro e concesse a sua cugina di vedere esattamente quello che sarebbe diventata; una matta esaltata, ecco cosa sembrava. «Un soldato con delle ali sulla schiena e un laboratorio tutto suo»
❪ 注意。❫ ⤸
𝔞𝔲𝔱𝔥𝔬𝔯'𝔰 𝔫𝔬𝔱𝔢𝔰
non sono soddisfatta del finale, doveva essere diverso e, soprattutto, più lungo ma ho deciso di eliminare un po' di parti che forse rivelavano un po' troppo e che dovranno invece essere aggiunte più avanti , in situazioni precise; quindi facciamo finta che vada bene così. nel complesso sono abbastanza soddisfatta, volevo introdurre, a grandi linee, il contesto familiare di emilia perché io🤝🏻 found family trope ( uno dei tanti che ho )
1: ho sempre immaginato la casa di emilia tutt'altro che nel modo in cui vengono rappresentate le abitazioni in attack on titan, quindi prevalentemente con un aspetto medievale e occidentalizzato. io sono profondamente innamorata delle case tradizionali giapponesi e quando immaginavo la stanza di emilia e, soprattutto, la sua casa la sognavo come una machiya. invece il patio è una veranda-corridoio di legno che separa l'esterno e si chiama engawa.
esempio:
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