IV.
04. ▏ lacci rotti e promesse
CAMPO ADDESTRAMENTO RECLUTE, ANNO 836.
Picchiettava le punte degli stivali tra di loro con l'esclusivo obiettivo di irritare i nervi del ragazzo seduto dall'altra parte del corridoio rispetto a lei. Era riuscita a scorgere di sfuggita un bagliore di nervosismo scalfire la sua tremenda espressione inflessibile e di tanto in tanto intercettò delle occhiate vertiginose scagliate come frecce in sua direzione nel tentativo di farle capire quanto fosse fastidiosa. Oh, ma lei lo sapeva eccome. Lo stava facendo apposta. Era seduta in una posizione scomposta; le gambe allungate sulle assi del pavimento, il fondoschiena che toccava l'estremità della sedia e le scapole poggiate contro la spalliera. La testa abbassata, le palpebre leggermente socchiuse a favorire un atteggiamento annoiato e lo sguardo stabile sulle punte degli stivali che si divertiva a far scontrare insieme e i cui modulati colpetti riverberavano nell'ambiente.
«La smetti?» Sibilò il cadetto scosso dall'esasperazione definitiva, la voce attenuata a un sospiro spazientito che tuttavia lasciava supporre tutta la sua ostilità e, constatando che la ragazzina continuava a giocherellare con quegli orrendi stivaletti marroni logori che nemmeno erano quelli dell'uniforme militare, si alzò formulando un gesto spazientito con le braccia: iniziò a passeggiare nervosamente facendo avanti e indietro, per poi puntare un dito ad accusare la giovane «È colpa tua se sono finito qui, maledetta pazza che non sei altro! Avrei dovuto picchiarti più forte»
Emilia lo ignorò, dando l'impressione di non averlo neppure sentito continuando a ispezionare i suoi stivaletti trasandati; non avevano più i lacci poiché si erano rotti dopo qualche settimana dall'inizio dell'addestramento e affinché i gambali restassero saldi ai piedi ci aveva legato attorno della vecchia corda: si rifiutava categoricamente di toglierli, però, in quanto anni addietro erano appartenuti a Gilbert ed erano l'unico oggetto che aveva portato via con sé. Si era arruolata a quattordici anni e contrariamente alle proprie aspettative era stata accettata, in aggiunta a un accenno di sorpresa poiché non era stata Emilia a spedire la richiesta d'arruolamento, ma Gilbert si era preso la libertà di scegliere per lei. Un colpo basso, l'aveva definito. Un'astuta strategia per liberarsi di lei dal momento che aveva iniziato a essere un peso per la famiglia.
Un colpo improvviso tuonò nell'ambiente; la corvina alzò appena la testa per individuare la figura di un ufficiale affiorare dall'ufficio davanti a lei e nell'attimo cui l'uomo arrivò a incontrare i suoi occhi, Emilia incrociò le braccia al petto comunicando tutta la sua arroganza escludendo qualunque tentativo di approccio amichevole. L'uomo in piedi a qualche passo di distanza liberò un sospiro sconfortato e poi parlò rivolgendosi alla ragazzina: «Perché, quando succede qualcosa, ci sei sempre di mezzo tu?»
Egli non attese risposta, però, consapevole che non sarebbe comunque arrivata e le riservò un'occhiata corrucciata intanto che avvicinava una mano a toccare la spalla del cadetto, visibilmente indignato, che manteneva un'espressione altezzosa. L'ufficiale ebbe un sussulto impercettibile e le sue labbra si arricciarono in una smorfia sofferente alla vista della traccia visibile di un pugno direzionato sullo zigomo sinistro che stava iniziando a trasformarsi in un grosso ematoma purpureo sul viso del ragazzo. Determinato a non far notare il proprio disappunto lo accompagnò qualche passo più in là cosicché nessuno ascoltasse la breve conversazione che susseguì. Emilia infatti non riuscì a sentire quasi niente, eccetto qualche parola scivolata dalle labbra della recluta notevolmente più vibrante che andava ad accusarla personalmente riguardo atteggiamenti poco appropriati, su quanto il suo carattere fosse intrattabile, sgradevole, violento e su quanto fossero su due livelli completamente incompatibili; inefficaci furono i tentativi dell'ufficiale di calmare il ragazzo, di riuscire a farlo ragionare e concederle un'altra possibilità. La corvina osservò con imparzialità il diciassettenne girare i tacchi e con la schiena impettita andarsene, non riuscendo però a evitare di liberare un leggero sbuffo catartico, soddisfatto: finalmente si era liberata di quel presuntuoso imbecille.
«Dai, entra.»
Fu tutto ciò che l'ufficiale le disse una volta essere tornato a offuscare il suo campo visivo, inviandola a entrare nel suo ufficio e a seguito della tonalità di voce decisa che aveva abbandonato il suo solito timbro amichevole, Emilia dedusse che stavolta l'aveva fatto davvero arrabbiare.
*
Il Capo Istruttore della sua divisione, un tale di nome Chapman, era un uomo affascinante, sulla base del giudizio di molte ragazze che naturalmente non risparmiavano elogi e apprezzamenti bisbigliati di continuo, e aveva l'aria di essere un intellettuale, probabilmente a causa degli occhiali piccoli e sottili che gli scivolavano continuamente sul ponte del naso e che si premurava sempre di rimettere al proprio posto con un rapido gesto timido o altresì l'atteggiamento estremamente accondiscendente nei confronti dei suoi allievi; era una persona disgustosamente accomodante, secondo Emilia, mansueto. Trasmetteva una certa tranquillità attraverso l'intonazione morbida e gentile della voce, sempre con un affettuoso sorriso appena accennato che gli increspava le labbra. A dare l'impressione che fosse diverso rispetto ai suoi burberi colleghi erano anche i capelli biondi leggermente lunghi sul collo lasciati sbarazzini e gli occhi azzurri incredibilmente grandi che trasmettevano bontà d'animo. Malgrado ciò riusciva brillantemente a svolgere il suo lavoro: possedeva la fama di non fallire mai con i suoi cadetti, li portava sempre tutti a diplomarsi e molte delle sue reclute raggiungevano ogni volta le prime classifiche, suscitando anche un leggero sentimento di invidia negli altri addestratori.
In molti desideravano unirsi alla sua divisione.
Emilia entrò nell'ufficio che l'aveva vista ospite innumerevoli volte negli ultimi tempi, lo conosceva troppo bene; non era eccessivamente spazioso, come ci si aspetterebbe da ufficiale dell'esercito, ma disponeva di tutto ciò che serviva: una scrivania mediocre sempre in disordine e sepolta da pagine impilate che raggiungevano un'altezza sul punto di crollare, appesi con ordine alla parete tutti i suoi onorevoli riconoscimenti incorniciati che Emilia aveva ormai memorizzato: quello di Caposquadra e di Capitano del Corpo di Gendarmeria; la giacca della divisa militare e sul colletto di quest'ultima c'erano attaccati i distintivi di svariati colori, lucidati e luccicanti che decretavano i suoi atti eroici e a fianco i certificati scientifici: chimica, biochimica e biofisica quantistica. Poggiata invece al muro opposto, un'immensa libreria che si innalzava quasi a toccare il soffitto era rifornita di libri di scienza che Emilia più volte aveva desiderato sfogliare.
Nel frattempo che aspettava, riuscì a scorgere con la coda dell'occhio le confuse figure di due persone alla sua sinistra e comprese, in risposta a un broncio infastidito che le corrugò l'espressione, di non essere sola. Non aveva instaurato un rapporto amichevole e confidenziale con gli altri commilitoni; i ragazzi che facevano parte della sua divisione, i suoi coetanei, sviavano qualunque occasione di avere a che fare con lei e i cadetti più grandi le riservavano sempre sbirciate ostili e parolacce spietate bisbigliate senza neanche troppa discrezione, perciò era legittimo per lei sentirsi a disagio qualora capitasse di trovarsi in compagnia di altri ragazzi.
Infatti, iniziò a giocherellare nervosamente con le punte dei capelli libere dalle trecce e dondolare sui talloni poiché a disagio.
Incuriosita, però, iniziò a sbirciare con interesse le reclute che stavano in piedi a pochi passi di distanza in scrupoloso silenzio: erano due ragazze che avevano l'aspetto di essere più grandi di lei, quella a sinistra era leggermente più bassa, con una faccia severa e a tratti infastidita, fisicamente sgradevole da guardare; capelli biondo scuro sfilacciati, viso allungato, pallido e aspetto arrogante. L'altra invece era l'esatto opposto; leggermente più alta, i capelli castani legati in una coda e dietro le lenti degli occhiali le iridi brune sorvegliavano il monotono paesaggio che si riusciva a intravedere oltre la finestra alle spalle della scrivania.
Entrambe indossavano un lungo camice da laboratorio.
Venne bruscamente beccata a osservarle dalla bionda, la quale si protese leggermente in avanti corrugando la fronte e assottigliando lo sguardo: «Togli subito quegli orrendi stivaletti sudici dalla scrivania!» Le ordinò con voce fervida, sfoggiando un atteggiamento saccente. Emilia, in tutta risposta, spostò il piede destro sopra quello sinistro e le braccia dietro la testa spostandosi in una posizione più comoda e ribatté: «Non prendo ordini da una racchia spelacchiata come te.»
La giovane cadetta, che Emilia scoprì si chiamasse Gisela, — nome bisbigliato dalla ragazza a fianco con lo scopo, inutile, di mitigare l'esplosione di rabbia che palesemente stava divampando nella ragazza — all'udire di quel diretto insulto mutò la sua espressione in un'agghiacciante smorfia di terrore, gli sgradevoli e perfidi occhi verdi si spalancarono in risposta a un'improvvisa reazione di disappunto e la bocca si aprì leggermente dall'incredulità; evidentemente nessuno era mai stato talmente tanto audace da dirle la verità fino a quel momento, pensò Emilia. Poi puntò un dito ad accusarla: «Come ti permetti! Maleducata ragazzina che non sei altro, porta rispetto per le persone più grandi.» confutò mettendosi le mani sui fianchi mostrando una faccia compiaciuta, in seguito aggiunse quasi assorta «Non capisco cosa aspettano a cacciarti.»
Emilia non replicò, decisa a fare finta di niente; non avrebbe mai ammesso che la biondina isterica avesse ragione: se continuava ad accumulare reclami e lamentele di ogni tipo — atti di violenza ingiustificati, comportamenti inadeguati nel rispetto di istruttori e commilitoni, linguaggio inappropriato, incapacità di cooperazione e lavoro in gruppo... — sarebbe stata mandata via prima che potesse vedere il sorgere di una nuova alba. Costretta a tornare a casa con la coda tra le gambe, affrontare di nuovo la scomoda situazione che si era lasciata alle spalle con la sua famiglia e, più di tutto, avrebbe dovuto sostenere lo sguardo deluso di Gilbert.
Tuttavia incapace di restare in silenzio e tenersi i pensieri per sé, rivolgendosi direttamente alla bionda decretò: «Preferirei venire cacciata subito che dover sopportare una come te tutti i giorni.» Per poi tornare ad accomodarsi sulla sedia, trattenendo a stento una smorfia divertita che andò a sollevarle impercettibilmente l'angolo della bocca in risposta alla recluta che recriminava contro di lei insulti e minacce. A quel punto Emilia incrociò lo sguardo con quello della ragazza bruna che non aveva mai pronunciato parola — anzi, dava proprio l'idea di non aver neppure ascoltato il bisticcio in atto — e la sorprese a guardarla con sospetto, al che la corvina corrucciò lo sguardo e reagì con arroganza: «E tu che hai da guardare, quattrocchi.»
Chapman entrò nell'ufficio prima che altri battibecchi sopraggiungessero; si sedette alla sua scrivania e per prima cosa si rivolse con gentilezza alle due reclute accompagnando il gesto con la mano: «Prego, poggiate qui i vostri manoscritti.» detto ciò, le ragazze lasciarono cadere sulla scrivania del Capo Istruttore dei fogli impilati che rilasciarono un tonfo pesante e quando finalmente si congedarono la corvina le seguì con uno sguardo curioso fino all'uscita. Successivamente, Chapman poggiò i gomiti sulla scrivania e intrecciò le mani posizionandole sotto il mento. Susseguì un attimo di silenzio durante il quale l'uomo abbassò il capo, forse riflettendo sulle conclusioni da trarre. Posizionò due dita a massaggiarsi il naso nel punto in cui cadevano gli occhiali, visibilmente esausto: «Hanno fatto un reclamo... di nuovo.»
In tutta risposta, Emilia scrollò le spalle in un gesto distratto e superficiale, al che una leggera contrazione nervosa irrigidì il sopracciglio destro dell'uomo: «È il terzo questa settimana» specificò e intrappolò gli occhi cerulei in quelli neri di Emilia e lì restarono per un lungo indefinito momento nel tentativo di intercettare una reazione che, tuttavia, non arrivò. «Se continui così dovrò mandarti via. E credimi, non vorrei farlo. Non vorrei fallire, con te.»
Per un brevissimo momento l'ombra di prepotenza negli occhi della ragazza si affievolì lasciando spazio a uno sguardo più addolcito. Chapman allungò una mano ad afferrare la sua; a quel tocco Emilia trasalì appena.
«Tu non sei una persona cattiva,» Assentì l'uomo stringendo di più la presa sulla sua mano, parlando quasi sottovoce. «Ti assicuro che il tuo quadro generale non è così... male.» Vacillò leggermente sull'ultima affermazione, comunicando l'impressione di aver riflettuto qualche istante di troppo sulla parola adatta da scegliere. Poi continuò: «Non hai niente che non và, da un punto di vista pratico; sai usare il movimento tridimensionale, sai tenere in mano le spade, sei agile nel combattimento corpo a corpo, ma... il tuo problema è qui» Le lasciò la mano per allungarla sul suo petto, all'altezza del cuore. «Sei molto di più che una ragazzina arrogante e arrabbiata. Però forse...» Tacque per un breve momento, probabilmente indeciso se continuare con quello che voleva dire, leggermente esitante «Forse semplicemente questo non è il tuo posto.»
Emilia, completamente ammutolita, restò immobile, colta di sorpresa da quella constatazione che riaffiorò ricordi sfumati d'infanzia che aveva premurato di nascondere e batté le mani sulla scrivania facendo tremare pericolosamente i fogli impilati riservando uno sguardo adirato all'ufficiale, poi soffiò a denti stretti: «E allora me lo dica lei, qual è il mio posto.» Abbassò lo sguardo poiché gli angoli degli occhi avevano iniziato a pizzicare e non avrebbe permesso che qualcuno potesse considerarla una persona fragile e lasciò semplicemente che le parole uscissero da sole: «Mi hanno sempre detto che non appartenevo a nessun posto; non mi vedevano a gestire la locanda di famiglia, né a vivere in quella casa. Mi hanno sempre detto che i miei sogni erano troppo grandi; 'non si può vivere di scienza', dicevano. Ma non mi vedevano bene nemmeno a vivere con i parenti ricchi, a diventare bella come mia cugina o obbediente come mio fratello e adesso mi sento ripetere le stesse cose, quindi me lo dica lei, Chapman, qual è il mio posto, esattamente? Perché se lei adesso mi manda via, io non so dove andare...»
Nella stanza calò un indefinito, rispettoso silenzio. Chapman aspettava pazientemente che Emilia si calmasse, riflettendo su quanto gli aveva riferito; aveva l'impressione che lei avesse raccontato di sé stessa e di quello che realmente provava per la prima volta da quando la conosceva e lui si sentì davvero uno sciocco per non essersi accorto del suo malessere in anticipo; gli errori che aveva commesso in passato credeva sarebbero stati sufficienti per evitare di imitarli nuovamente, eppure, ancora una volta, aveva commesso un errore: aveva lasciato perdere. «Mi dispiace,» Confessò, sinceramente indirizzandole un'occhiata duttile. «Voglio aiutarti, davvero. Ma tu devi permettermi di farlo. Io sono qui, ti ascolterò quando vorrai parlare e posso scommetterci la mia carriera: diventerai una grande donna, Emilia Hähn. Lo vedo nei tuoi occhi, sei molto di più di quello che ti hanno sempre fatto credere, hai solo bisogno di qualcuno che te lo dimostri. Torna qui domani pomeriggio dopo gli allenamenti, ti farò vedere una cosa. Puoi andare, adesso.»
*
Emilia non si fidava. Aveva trascorso tutto il pomeriggio a riflettere sulle parole di Chapman alla ricerca dell'inganno, di una spiegazione che l'aiutasse a capire, a trovare una giustificazione che spiegasse l'atteggiamento del suo capo istruttore il quale, con tutti i cadetti di cui doveva occuparsi, i quali senza dubbio avevano più possibilità di qualificarsi e fare carriera, lui aveva scelto di aiutare proprio lei. Eppure, per quanto volesse allontanare la sensazione di fiducia che quell'uomo le aveva trasmesso diffondendo in lei una certa serenità, non ci riusciva e, a detta sua, mossa esclusivamente dalla curiosità aveva deciso di presentarsi nel suo ufficio il giorno successivo, a tramonto inoltrato; nel frangente che intercorreva tra la fine degli allenamenti e la cena, dove ai cadetti veniva concessa la libertà di lavarsi e riposarsi e laddove si poteva finalmente assaporare un po' di quiete e tranquillità. Era il momento della giornata preferito di Emilia; poche persone in giro, niente grida eccessive o schiamazzi inquieti, solo chiacchiericci soffusi, risate tenui e il soffiare leggero del vento tiepido che disturbava gli alberi. In quei momenti sembrava quasi di non trovarsi nemmeno in un campo d'addestramento.
L'ufficio di Chapman rifletteva perfettamente la sua personalità: caotico ma accogliente, buffo e a tratti grottesco. L'uomo era indaffarato a raggruppare le pagine dei manoscritti sparpagliati sulla scrivania quando lei arrivò; era visibilmente agitato, tant'è che nemmeno parve sentirla arrivare: gli occhiali scivolati sulla punta del naso, le mani che saettavano da una parte all'altra nel tentativo di mettere ordine, i ciuffi biondi ribelli che gli cadevano davanti la faccia e la camicia sbottonata e per metà fuori dai pantaloni gli attribuivano l'aspetto che le altre ragazze avrebbero certamente definito come «bello e dannato.»
Agli occhi di Emilia sembrava solo un disperato.
Quando lui, sollevando la testa con un gesto repentino — solo successivamente che Emilia batté qualche colpetto sulla porta stufa di essere ignorata —, si accorse di lei tentò di ricomporsi drizzando la schiena e passandosi una mano tra i capelli spostandoli indietro: «Ah, sei qui!» Disse, fingendo indifferenza. Era chiaramente angosciato, tuttavia non mancò di rivolgerle un affabile sorriso gentile spostando l'attenzione dalla confusione sulla scrivania con il proprio corpo spostandosi davanti a essa. «Sono contento di vederti.» concluse poggiando le mani sulle sue spalle. Per incontrare il suo sguardo Emilia dovette alzare la testa e nel momento in cui riuscì a scorgere quel bagliore di gentilezza nei suoi occhi, nuovamente la sensazione di calore le invase il petto obbligandola a fare un passo indietro per scrollarsi l'imbarazzo di dosso, poi si schiarì la voce: «Allora, che cosa devo fare... Sistemare tutte le attrezzature? Lavapiatti? Lavanderia? Pulire il suo ufficio?»
«Pulire il mio ufficio?»
«Ne avrebbe bisogno.»
«Il mio ufficio non è...» L'uomo stava per controbattere, leggermente offeso che qualcuno gli avesse fatto notare il suo disordine nel quale lui chiaramente si trovava benissimo, ma s'interruppe riprendendo il discorso «No, comunque. Niente di tutto questo. Non si tratta di un vero e proprio lavoro, in effetti. Ecco... mi ha incuriosito l'interesse che hai mostrato per la scienza, ho visto come guardi la mia libreria e avevo detto che ti avrei aiutato, e così farò.» Un'espressione trionfante si manifestò sul viso di Chapman illuminato parzialmente dalla luce aranciata che irrompeva dalla finestra aperta. Emilia, al contrario, era perplessa e visibilmente disorientata. Era convinta che, come più volte era successo in passato, qualora sopraggiungessero dei reclami e fosse necessario un intervento punitivo, il Capo Istruttore le avrebbe assegnato un lavoro che si sarebbe rilevato, in qualche modo, miracolosamente resiliente; invece quello che le stava proponendo era qualcosa che faceva fatica a visualizzare come una soluzione concreta, o utile.
«Il mio obiettivo è quello di dare una seconda scelta. Troppi di voi si arruolano per necessità, per obbligo; quanti dei cadetti che sono qui vogliono davvero diventare dei soldati? Non abbastanza, temo. Ecco perché faccio tutto ciò che è in mio potere per concedervi una seconda possibilità: farvi uscire da qui con molto di più di una divisa militare addosso.»
Rendendosi poi conto che Emilia manifestava una certa confusione, lui si apprestò con una fierezza che rasentava l'emozione a spiegare. Cameron Chapman non era semplicemente un soldato encomiabile senza dubbio della rispettabilità dei più illustri dell'esercito, ma era prima di tutto un professore, un esperto di scienza — sebbene non si definisse «scienziato» a tutti gli effetti — che aveva dovuto mettere da parte con riluttanza la sua volontà di divulgare la sua stessa passione ai più giovani per arruolarsi. E non c'erano possibilità di scelta «all'epoca non potevi essere un soldato e al tempo stesso un uomo di scienza». Così, dopo che ebbe prestato fedelmente i suoi servigi all'esercito e all'umanità, deciso a non abbandonare del tutto né la vita militare, né il suo desiderio di giovinezza, si era dedicato all'addestramento delle giovani reclute con l'intenzione di cambiarne il futuro. E, alla fine, contro le catastrofiche aspettative di molti, aveva ottenuto l'autorizzazione e l'approvazione di Zachary in persona il quale avrebbe finanziato il suo progetto: tra tutte le classi di insegnamento teorico che il Corpo d'Addestramento proponeva alle reclute, l'aggiunta di una classe dedicata alla formazione di menti brillanti che avrebbero fatto progredire il genere umano era stata istituita.
Emilia, con ulteriori domande che le affollavano la testa, lo accompagnò fuori dall'ufficio e successivamente attraverso il cortile; una sequenza sempre più improbabile di supposizioni e immagini si fece strada davanti ai suoi occhi e una volta arrivati finalmente vicino a un capanno in prossimità dei campi di grano, lui si voltò verso di lei e mormorò: «Benvenuta nella mia classe.»
Poggiò una mano sulla porta e l'aprì rivelando quella che a tutti gli effetti sembrava essere una classe: almeno una dozzina di ragazzi erano seduti a dei grossi tavoli, alle loro spalle una scaffalatura con svariati strumenti scientifici, attrezzature da ricerca e grossi manuali si elevava magnifica dietro di loro.
«Scusate il ritardo» Annunciò Chapman entrando nella stanza rivolgendosi ai suoi studenti, trascinando Emilia al suo fianco passandole un braccio attorno alle spalle con l'intenzione di proiettare l'attenzione su di lei. «Lei è Emilia e da oggi parteciperà alle nostre lezioni, perciò, mi raccomando... siate gentili.» Enfatizzò le ultime due parole con un accenno di accortezza; conosceva abbastanza bene i suoi allievi da sapere quanto fossero altezzosi e diffidenti e quanto potessero presentarsi con aria sgradevolmente saccente agli occhi degli altri, specialmente nei riguardi dei cadetti più giovani.
Premette dolcemente una mano sulla schiena di Emilia indirizzandola verso una sedia vuota davanti a sé. La corvina avvertì gli sguardi dei ragazzi addosso, ispezionandola e giudicandola dall'alto al basso, e tutto ciò che avrebbe voluto fare era scappare, rifugiarsi in un posto tranquillo, isolato, lontana da tutti; a questo proposito, rifletté che forse la prospettiva di lavapiatti non sarebbe stata un'alternativa poi così male. Almeno sarebbe stata da sola, senza avere le occhiate tutt'altro che incuriosite su di lei. Appena si sedette e afferrò la penna si accorse di quanto le sue mani fossero sudate e iniziò a far caso a ogni occhiata, sussurro o risatina direzionati attentamente verso di lei, chiudendosi nelle spalle e desiderando di sparire.
La campana che annunciava l'inizio della cena riuscì letteralmente a liberare la stanza in pochissimo tempo, i cadetti si precipitarono al refettorio con la stessa velocità con la quale sarebbero fuggiti da un orso affamato. Emilia, atteso il momento in cui anche Chapman fosse uscito dal capanno, si decise a muoversi; appena saltò giù dalla sedia con l'intenzione di andarsene, qualcuno l'afferrò per le spalle negandole di fare un altro passo.
«Dove credi di andare, microbo.»
Le parole vennero pronunciate da un ragazzo decisamente più alto e robusto di lei, che di conseguenza senza difficoltà riuscì a spingerla di schiena contro lo scaffale sul quale erano poggiati tutti gli strumenti scientifici che crepitarono appena sopra la sua testa. Accompagnato da altri ragazzi dall'aspetto anonimo le cui facce si sarebbero confuse con quelle di qualunque altro cadetto nei paraggi, che restavano in disparte a ridacchiare, il ragazzo continuò a darle altre piccole spinte con tutta l'intenzione di infastidirla.
«Tu sei quella che è sempre nei guai, vero?» Ridacchiò il giovane, beffardo.
«E che picchia tutti.» Aggiunse uno dei ragazzi alle loro spalle.
«Già...» Borbottò il cadetto tornando improvvisamente serio, stavolta facendo pressione sulla spalla di Emilia in modo da premere sul nervo di quest'ultima. Per quanto la ragazza si sforzasse di mostrarsi inflessibile, si abbassò leggermente sotto la mano del ragazzo. «Senti, noi non vogliamo problemi. Non mi interessa perché Chapman ti ha portato qui, non mi interessa se sei un genio, una raccomandata o la sua puttana... Il tuo atteggiamento del cazzo non funziona con me, perciò vedi di stare al tuo posto.»
Per la prima volta, Emilia non reagì, non lo colpì come faceva sempre quando qualcuno le diceva cosa fare, soprattutto se si trattava di cadetti presuntuosi come il ragazzo che aveva davanti, bensì decise di abbassare la testa e restare in silenzio; accettando di seguire Chapman aveva anche tacitamente fatto un accordo con lui e sapeva che questo includeva anche mettere da parte la sua impulsività. Non glielo aveva esplicitamente detto, ma lei era consapevole che fosse così.
Poco prima di uscire, la recluta si voltò verso di lei con un ghigno arrogante e proclamò con sfacciataggine: «Ah, i novellini restano a pulire.» Poi qualcuno le lanciò bruscamente uno straccio e si allontanarono ridacchiando tra loro lasciando Emilia finalmente da sola.
«Immaginavo che ti avrebbero lasciato a pulire.»
Sentendo quell'affermazione arrivare da qualcuno alle sue spalle, si affrettò a scendere dallo sgabello che aveva utilizzato per raggiungere il ripiano più alto della libreria e lanciò un'occhiata sorpresa alla persona che adesso era definitivamente entrata nella stanza: era la ragazza con gli occhiali che aveva visto il giorno prima, quella che aveva chiamato 'quattrocchi'.
Tempestivamente ribatté: «Non sto pulendo» E si affrettò poi nascondere lo straccio dietro la schiena. Aveva in effetti iniziato a pulire nel momento in cui stare seduta a leggere aveva iniziato a diventare insopportabile e mossa dall'esigenza di impegnarsi a fare qualcosa, aveva preso lo straccio e in poco tempo si era ritrovata a spolverare ogni angolo sporco di quel capanno. Ma non l'avrebbe mai ammesso ad alta voce, comunque; riconoscere che aveva ascoltato e eseguito gli ordini di qualcuno era assolutamente fuori discussione. Alla ragazza castana non sembrò interessare, né della sua reputazione, né di che cosa stesse facendo.
«Ti ho portato un panino, pensavo avessi fame.» Tirò fuori dalla borsa una pagnotta avvolta in un tovagliolo di carta e le dedicò un sorriso sincero.
«No, fuori dai piedi.» Emilia, decisa a mantenere le distanze, riportò alla mente le occasioni in cui aveva avuto fiducia in qualcuno e non era finita bene — ricordò quando una delle sue compagne di stanza si era offerta di acconciarle i capelli ma invece le aveva tagliato una ciocca, o quando un cadetto più grande si era proposto di aiutarla con le faccende ma ne aveva soltanto approfittato per illuderla della sua gentilezza per poi ridere di lei assieme ad altri ragazzi nascosti in un angolo a guardare tutto —; non ci sarebbe cascata un'altra volta. Incrociò le braccia al petto e rivolse un'espressione accigliata, tuttavia, nonostante le sue intenzioni, poco dopo il suo stomaco brontolò. La risata divertita che uscì dalle labbra dell'altra le provocò un leggero imbarazzo, tant'è che percepì le guance scottare lievemente e appena la castana si avvicinò, Emilia fece istintivamente un passo indietro.
«Io sono Hanji, molto piacere. Allora, lo vuoi il panino?»
Emilia si sbarazzò dello straccio gettandolo con arroganza e rabbia su uno dei tavoli e proclamò: «Me ne vado io» Detto ciò, uscì dal capanno ma non riuscì a fare più di qualche passo che il suo stomaco brontolò di nuovo, stavolta più forte, obbligandola a fermarsi, tornare indietro benché con la stessa presunzione. Afferrò il panino con un gesto sgarbato. «Io sono Emilia.» Disse e se ne andò sbattendo la porta.
Nelle settimane seguenti Emilia s'impegnò per mantenere un certo autocontrollo. Tenne a freno la lingua nelle occasioni in cui gli addestratori si sbilanciavano urlandole addosso a un soffio dalla faccia o quando alcuni cadetti le bisbigliavano qualche cattiveria all'orecchio mentre le passavano a fianco, tenne giù le mani qualora dei ragazzi la spintonavano o alzavano le mani su di lei e si concentrò davvero per limitare al minimo indispensabile la vicinanza con i suoi compagni di corso; e riuscirci era incredibilmente facile dal momento che anche gli altri cadetti non sembravano manifestare interesse nei suoi confronti.
Tuttavia, sbarazzarsi di Hanji sì, che era difficile.
Ogni volta che provava a parlare con lei, Emilia si voltava dall'altra parte, scocciata. Ogni volta che provava a sedersi accanto a lei a lezione, Emilia si allontanava più in là e ogni volta che voleva farle compagnia durante i pasti o intanto che era impegnata nelle pulizie, Emilia si alzava e se ne andava.
Eppure, quella sera, Hanji era stata l'unica persona dalla quale Emilia era andata a chiedere aiuto.
Quando la corvina spalancò la porta del capanno dove sapeva che l'avrebbe trovata, sussultò quando la vide comparire dalla penombra: con una mano poggiata allo stipite della porta si reggeva a malapena in piedi, l'altra mano invece era sullo stomaco. Era piegata in avanti, il respiro mozzato, i capelli disordinati e sporchi di terra, così come la divisa militare. Nell'istante in cui alzò la testa, Hanji chiaramente individuò dei tagli sulla guancia sinistra e un segno rosso sullo zigomo, il sangue che le usciva dal naso era colato sulle labbra e sul mento. «Ho bisogno di una mano.» farfugliò con difficoltà.
Hanji l'aiutò a sedersi su una sedia dove Emilia si lasciò semplicemente cadere, esausta. Restò qualche attimo a guardarla accertandosi che non si trattasse di qualcosa di molto più grave ma, eccetto il petto che si alza e si abbassava con irregolarità causata dal respiro affannoso, Emilia era cosciente e capace di rispondere quando veniva chiamata. Si allontanò giusto di qualche passo per prendere una scatola che appoggiò sul tavolo accanto alla lampada a olio la cui fiamma ondeggiava appena, giusto il necessario per creare un gioco di luce sul visto di entrambe. Versò del disinfettante su un pezzo di stoffa e lo posizionò delicatamente sul taglio sulla guancia della ragazzina. A quel contatto Emilia trasalì contraendo l'espressione in una smorfia di dolore spostandosi istintivamente indietro, la sensazione di bruciore sembrava insopportabile. «Cerca di stare ferma, è solo un taglietto.» Disse la più grande, con un pizzico di umorismo nella voce con l'obiettivo di alleggerire la situazione. Quando terminò di medicare la ferita ci mise sopra un cerotto.
Subito dopo con prudenza ma tuttavia non mancando di trasmettere una certa esigenza incrociando le braccia al petto, chiese: «Allora, cos'è successo?»
«Sono caduta.» Proruppe Emilia sbrigativa, distogliendo lo sguardo e incatenando gli occhi scuri sulla lampada a olio.
«Devi aver fatto davvero un bel volo, allora!» Ironizzò Hanji. Osservando poi che la ragazzina continuava a tenere la mano poggiata sullo stomaco come se bastasse ad attenuare un dolore altrimenti molto più forte, approfittò di un breve momento di distrazione per sollevarle la maglietta e scoprire delle impronte che stavano iniziando a macchiarsi della tonalità purpurea e bluastra tipica dei lividi. Emilia, colta di sorpresa, con una faccia che rasentava la vergogna, scattò in piedi «Che cosa fai!»
«Devi andare subito in infermeria!» Esclamò l'altra, visibilmente preoccupata.
«Scordatelo!»
«Potresti avere qualche costola rotta, per quel che mi riguarda.»
Emilia liberò uno sbuffo infastidito alzando gli occhi al cielo, dopodiché si chiuse leggermente nelle spalle e un ulteriore, violento, fremito di dolore la colpì nuovamente costringendola a piegarsi su sé stessa e poggiare una mano sul tavolo per tenersi in piedi. Hanji rapidamente si avvicinò e l'aiutò a mettersi di nuovo seduta e prese posto anche lei al suo fianco, rispettando il suo silenzio, continuando però a supervisionarla con lo sguardo. Stava solo prendendosi il suo tempo per riflettere e rintracciare il coraggio di parlare, di confidarsi, ovunque si fosse nascosto.
Le veniva difficile farlo, specialmente dal momento che a casa sua raramente si parlava apertamente delle questioni che riguardavano personalmente qualcuno in particolare della famiglia, essendo in tanti, si preferiva rivolere da sé i propri problemi; in più, Emilia era la figlia meno considerata, quella che giacché aveva sempre trasgredito alle regole e non aveva mai dimostrato di essere bisognosa né di affetto né di attenzioni, veniva lasciata in disparte; sua madre, una donna flemmatica e solenne di per sé, aveva sempre mal sopportato il carattere della secondogenita, il padre, troppo impegnato con il lavoro, non aveva abbastanza energie per dedicarsi anche a lei e il fratello maggiore aveva iniziato a riscontrare difficoltà a causa della sua disabilità e di conseguenza era diventato più insofferente e scostante. In più, da quando era lì, non aveva avuto nessuno con cui parlare.
Era la prima volta che ci provava davvero.
«Erano in cinque e io da sola» sussurrò ad un certo punto poggiando il gomito sul tavolo e poggiando il mento sul palmo aperto della mano. Trascorse qualche altro istante di silenzio. «Non c'era molto che potessi fare.»
«Hai provato a chiedere aiuto?» Chiese Hanji, con indulgenza, l'espressione leggermente velata da un pizzico di compassione.
«Ho urlato di dolore, a dire la verità» Confessò Emilia. La voce incerta e fragile, la gola che iniziava a bruciare e gli angoli degli occhi pizzicare le acconsentivano di parlare come avrebbe voluto; tentò di ricacciare indietro le lacrime. «Ma non c'era nessuno. Non c'è mai nessuno, in realtà. Del resto, mio fratello mi ha fatto arruolare perché tutti in famiglia volevano sbarazzarsi di me. Direi che ormai ci sono abi—»
Istintivamente, senza neanche rifletterci troppo, Hanji si alzò e si avvicinò a Emilia circondandole le spalle in un abbraccio che aveva tutta l'intenzione di trasmetterle affetto e solidarietà; la corvina non ricambiò, rimasta sbigottita da quel gesto, tuttavia non era necessario che lo facesse, la testa poggiata contro il suo petto era sufficiente. «Non sei sola, non lo sarai più, hai capito?»
Emilia si rifiutò di farsi visitare, senza scendere a compromessi, e Hanji dovette arrendersi. Ciò nonostante riuscì a persuaderla dall'accettare una cura specifica che avrebbe velocizzato il decorso dell'ematoma e avrebbe leggermente attenuato il dolore. Senza darle la possibilità di controbattere l'afferrò per il polso e l'accompagnò nel suo dormitorio dove le assicurò che da qualche parte, chissà dove, avesse un unguento che faceva proprio al caso suo. Così, cautamente, impegnandosi il più possibile per non zoppicare e esibire una faccia indifferente al dolore straziante che si diffondeva in tutto il corpo a ogni passo che faceva, Emilia seguì la ragazza nel dormitorio riservato alle donne, quello delle più grandi, e camminò con circospezione alle sue spalle attraverso le occhiate curiose delle altre ragazze che lanciavano sbirciate guardinghe e sussurri sconnessi; ai cadetti più piccoli non era permesso addentrarsi nei dormitori dei più grandi e in questo momento, come se nulla fosse, Emilia si trovava proprio a trasgredire una delle regole più intransigenti nella speranza che nessuno andasse a spettegolare.
Arrivarono finalmente alla cuccetta di Hanji dove lei immediatamente iniziò a tirare fuori tutte le sue borse e zaini, borbottando tra sé. Attorno a loro, le reclute che non erano impegnate ad allenarsi o in altre attività si affacciarono oltre i loro letti per osservare con diffidenza.
«Trovata!» Esclamò con energia mostrandole davanti al viso un piccolo tubetto di vetro, Emilia lo afferrò velocemente con l'intenzione di sottrarsi il più velocemente possibile a quella situazione ma venne prontamente afferrata per le spalle dalla maggiore e riportata indietro «Dove credi di andare, hai un aspetto orrendo!»
A quel punto, la corvina lanciò una sbirciata al suo riflesso nello specchio in fondo al corridoio: la maggior parte dei capelli erano liberi dalle trecce ormai praticamente inesistenti e i vestiti macchiati di sangue e polvere erano strappati in alcuni punti. Quando Hanji le consigliò di sciogliersi definitivamente i capelli, Emilia esitò. Aveva iniziato ad acconciare quei capelli ribelli in due trecce poco dopo essere arrivata al campo d'addestramento; e non l'aveva fatto perché era stata una sua scelta, una sua preferenza, ma poiché i suoi addestratori si ostinavano a ripeterle quanto sarebbe stato più comodo raccoglierli affinché non avessero causato difficoltà nei movimenti o qualora utilizzasse il movimento tridimensionale.
Tuttavia non c'era più niente da sistemare e lasciò che l'altra le slegasse e arruffasse affettuosamente i capelli, un gesto innocuo che riuscì a far ridacchiare leggermente Emilia; un suono delicato e piacevole che faceva fatica a riconoscere anche lei stessa. I ciuffi corvini che adesso erano un disordinato groviglio di nodi e ricci le ricadevano caotici davanti alla faccia coprendole il viso, tant'è che la ragazzina dovette più volte spostarli con prepotenza.
«Ti serve qualcosa per tenerli indietro.»
«Posso sempre legarli» Farfugliò Emilia continuando a tentare di districare i nodi e spostarsi i ciuffi dalla fronte.
«Stai scherzando? I tuoi capelli sono bellissimi così e rispecchiano la tua personalità!»
«Mi hanno sempre detto che mi avrebbero dato problemi con l'attrezzatura—»
«Stronzate, ragazza!» Strepitò Hanji mettendo le mani sui fianchi e avvicinando il viso corrucciato a quello perplesso di Emilia. «Ce lo dicono solo perché ci vogliono tutti uguali, i soldatini perfetti. Al diavolo!» Concluse scacciando quell'idea con un gesto della mano. «Ti serve solo qualcosa per tenere quei ciuffi indietro, tutto qui.» Proclamò nel frattempo che aveva iniziato nuovamente a frugare nel suo zaino. Per prima cosa, tirò fuori un paio di occhiali sottili e dopo averli ispezionati per un breve attimo glieli posizionò sulla testa, Emilia non mancò di farle notare che ci vedeva benissimo e che non aveva bisogno degli occhiali, «non devi usarli, devi tenerli sulla testa!».
Constatando poi che fossero totalmente inutili, poiché troppo sottili e solenni, Hanji tirò fuori dei grossi occhiali protettivi elastici neri e grigi e appena glieli ebbe messi sulla testa, con un'espressione trionfante e a tratti soddisfatta, l'afferrò per le spalle e la fece voltare verso lo specchio
«Allora, che ne pensi?»
Nell'istante in cui Emilia osservò il proprio riflesso, istintivamente si portò una mano a toccare gli occhiali sulla testa e un ricordo trasportato di nostalgia rievocò l'immagine di quella gentile pensionata che possedeva il negozio di fiori all'angolo nel suo quartiere e che aveva accompagnato dolcemente la sua infanzia, le parole che usava ripeterle spesso quando le faceva visita, tutti i libri di botanica letti che si sovrapponevano a chiacchierate sul futuro da donna indipendente si racchiudevano in quell'immagine che rifletteva quello che sognava da bambina. Un sorriso tenero si manifestò sul suo viso; le piaceva quello che vedeva. Per la prima volta riusciva a scorgere sé stessa nel riflesso che aveva davanti. Poco dopo, Hanji le offrì il proprio camice da laboratorio sostenendo che fosse semplicemente un modo per distogliere l'attenzione dai suoi vestiti sporchi.
«Grazie, per l'unguento e tutto il resto.» Mormorò Emilia leggermente impacciata e titubante, allungando la mano verso di lei con l'intenzione di esprimere gratitudine attraverso una stretta ponderata. L'altra ricambiò senza esitare a rassicurarla che finché ne avesse bisogno avrebbe potuto tenersi sia gli occhiali che il camice.
*
Ondeggiava sui talloni nel tentativo di non lasciarsi trasportare in un ridacchiare impertinente. Benché non riuscisse a nascondere del tutto il sorriso beffardo che minacciava di incresparle le labbra. Al suo fianco Hanji era nella stessa situazione; entrambe in piedi davanti la scrivania di Chapman con le mani allacciate dietro la schiena.
Lasciò vagare lo sguardo nell'ambiente circostante, appurando che durante l'anno appena trascorso aveva subìto una burrascosa invasione di libri e manoscritti ammucchiati sul pavimento, oltre che sulla disgraziata scrivania. Adesso che i raggi primaverili del primo pomeriggio irrompevano nella stanza, si poteva chiaramente intravedere la polvere depositata sugli oggetti propagati dovunque. Emilia continuava a chiedersi come l'uomo riuscisse a muoversi in quel dedalo di cultura.
Poi i suoi occhi si direzionarono sulla figura dell'ufficiale impegnato a concretizzare quello che aveva davanti; due adolescenti sporche di fuliggine dalla testa ai piedi che a malapena riuscivano a trattenere dei sorrisi divertiti come se l'intera situazione fosse più esilarante che disastrosa. L'uomo poi rivolgendo prima di tutto un'occhiata stupefatta a Emilia, allargò le braccia in un gesto esasperato e parlò: «Adesso tu mi spieghi, no, anzi, entrambe mi spiegate cosa vi è saltato in testa!»
«È stato un incidente.» Intervenne Hanji.
«Creare un esplosivo lo chiami un incidente? Avete fatto saltare in aria un capanno!»
«Non è tecnicamente esploso...» Soppesò Emilia incrociando le braccia al petto.
«Ha solo fatto qualche scintilla.» Concluse Hanji.
Il silenzio che seguì fu oltremodo svigorito, tant'è che Emilia ebbe il sospetto che Chapman fosse prossimo ad un bizzarro esaurimento nervoso.
«Uscite immediatamente da qui, adesso.» Sospirò. «In realtà... Emilia? Vieni qui.» Accompagnò la richiesta con il gesto della mano. Quando Hanji uscì, prima di chiudere la porta lanciò uno sguardo complice all'amica, la quale ricambiò indirizzandole una smorfia divertita. Dopodiché, distese una gamba affinché si avvicinasse di un lungo passo raggiungendo la scrivania di Chapman e quest'ultimo, riservandole un'occhiata critica, la indirizzò a sedersi.
«Mi sembrava di essere stato chiaro l'ultima volta. Non volevo più vederti dentro questo fottutissimo ufficio.» Assottigliò lo sguardo, meravigliandosi anch'egli dell'espressione pittoresca appena utilizzata.
«Ma è stato un anno fa...» Puntualizzò Emilia con un'aria notevolmente divertita.
«E così doveva continuare a essere!» Gridò battendo una mano sulla scrivania. I manoscritti tremarono leggermente. Emilia, al contrario, non si mosse né si stupì della reazione eccessiva dell'ufficiale. «Credi che le lamentele si siano fermate? Voi due avete quasi fatto esplodere un capanno, avvelenato un vostro commilitone, vi siete perse nel bosco con la scusa di chissà quale diavoleria stavate cercando e come se non bastasse ti sei messa a costruire invenzioni senza il mio permesso ma... al di là di questo, poteva andare peggio.» Esalò l'ennesimo sospiro. «Per questa volta ve la faccio passare, spero solo che tutto questo serva a qualcosa.» Ci credeva davvero. A distanza di un anno da quando aveva avuto quella conversazione con Emilia e dal momento che era diventato a tutti gli effetti il suo insegnante, aveva potuto osservare quanto fosse intelligente e quanto la sua personalità in realtà fosse, a volte anche troppo, vivace. Anche se aveva causato qualche esplosione di troppo e molto spesso faceva le cose di testa sua, era sicuro che, uscita da lì, Emilia avrebbe preso una strada diversa. Quel pensiero era maturato giacché aveva smesso di indossare la divisa militare e, nonostante tutti continuassero a farglielo notare, lei non accennava ad ascoltare. "Quando mai!", rifletté.
Emilia riuscì a stento a trattenere un sorriso furbastro. «Le mie invenzioni, professore, salveranno l'umanità... vedrà, vedrà!» Subito dopo balzò in piedi e trotterellò fino all'uscita canticchiando tra sé facendo distendere le labbra di Chapman in un sorriso soddisfatto.
*
«Allora? Cosa ti ha detto?» Chiese Hanji con impazienza appena Emilia raggiunse l'amica sul tetto.
«Stasera sono fuori.» Rispose poggiando il mento sulle ginocchia assumendo un'espressione malinconica e osservando con aria abbattuta il paesaggio lugubre che si propagava davanti ai suoi occhi e sotto di lei; al di là del cortile debolmente illuminato dalle lanterne appese sotto i pergolati degli edifici, il bosco era assediato dal buio più totale. Gli alberi foschi avevano l'aspetto di essere minacciosi se non fosse stato per le lucciole che fluttuavano sopra i cespugli e il frinire dei grilli nascosti nell'erba alta accompagnato da una brezza leggera trasportavano con sé l'aria di primavera. Emilia liberò un sospiro trattenendo un sorriso. «Sì, insomma, mi ha cacciato. Ha detto: "Questa è l'ultima bravata che fai, da stasera ti voglio fuori!" — lo disse imitando la voce di Chapman in un modo che suonava molto buffo —, sembrava davvero incazzato.» Infine, appoggiò la guancia in modo tale da poter rivolgere un'occhiata a Hanji per vedere la sua reazione.
Quest'ultima, rimasta ammutolita e probabilmente anche sbigottita perché sapeva quanto Emilia che Chapman difficilmente arrivava a conclusioni così estreme, salvo alcune eccezioni in cui non c'era più niente da fare, e sapeva quanto a lui piacesse e rispettasse l'amica nonostante lo facesse dannare. Non l'avrebbe cacciata così facilmente, in più, prima di farlo, avrebbe dovuto vedersela con lei. «Lascia fare a me, adesso mi sente!» Brontolò alzandosi con l'intenzione di scendere e precipitarsi nell'ufficio di Chapman, o ovunque fosse, anche presentarsi nella sua camera da letto e trascinarlo fuori dal letto se fosse stato necessario.
A quel punto, Emilia si lasciò andare in una risata divertita e afferrando il polso di Hanji, fermandola. «Ferma, ferma! Stavo scherzando!» A quel punto la più grande tornò a sedersi al suo fianco colpendole la spalla con la sua, in un gesto amichevole borbottando un "idiota" rallegrato.
Con lo sguardo perso nel vuoto a osservare incantata le lucciole che svolazzavano leggere, Emilia iniziò a picchiettare le punte degli stivaletti dall'agitazione e nascondendo il viso tra le braccia strette alle gambe, indecisa se parlare o tenersi quel pensiero per sé. Alla fine, solo perché incapace di stare zitta, parlò: «Senti ma... io e te saremo amiche anche fuori da qui, vero?» Detto ciò, dall'imbarazzo aumentò il ritmo con cui tamburellava i piedi e iniziò a giocherellare nervosamente con le mani.
«Ma che domande fai! Certo che sì» Affermò. «Non ti libererai di me così facilmente.»
Emilia allungò una mano in sua direzione senza guardarla in faccia e allungò il dito mignolo «Promesso?» Bisbigliò. Lanciando poi una sbirciata verso Hanji notò che stava guardando la sua mano con un'espressione confusa. «Devi stringere il mio dito con il tuo. Serve per fare la promessa!» Così l'altra la assecondò e allacciò il suo dito con quello di Emilia.
«Promesso.»
❪ 注意。❫ ⤸
𝔞𝔲𝔱𝔥𝔬𝔯'𝔰 𝔫𝔬𝔱𝔢𝔰
I'M BACK con un capitolo che, detto sinceramente, non mi sarei mai aspettata né di scrivere né tantomeno di pubblicare. Di solito non gradisco particolarmente i flashback ma c'erano delle questioni che mi piaceva approfondire e tutte convergevano in un punto unico:
✨L'adolescenza di Emilia ✨
Tra i vari aspetti che volevo approfondire, il cambiamento è quello che mi premeva di più. Farvi vedere come Emilia non è sempre stata la persona super espansiva e allegra che è da adulta e soprattutto quanto in realtà basta pochissimo (giusto un po' di gentilezza a volte) per aiutare qualcuno <3
POI
Non sapere l'età precisa di alcuni personaggi mi innervosisce parecchio. Ho fatto un calcolo approssimativo seguendo l'età di Emilia considerando che dei veterani lei è la più piccola e tenendo conto della durata dell'addestramento.
+ Ho voluto aggiungere un tocco di verità: sono una studentessa di microbiologia e consapevole che non si diventa scienziati schioccando le dita (purtroppo), ho voluto anche approfondire COME Emilia è diventata scienziata a tutti gli effetti (è l'esigenza di incastrare la scienza in ogni cosa capitemi sono irrecuperabile 🎀). All'inizio avevo paura che fosse una cosa troppo forzata, poi me ne sono fregata.
Ah sì, questo capitolo serve a introdurre un personaggio che diventerà molto controverso in futuro.
Ne approfitto anche per ringraziarvi del supporto che mi dimostrate, anche voi lettori silenziosi lo vedo che avete messo aoc nel vostro elenco lettura e che votate i capitoli. Grazie.
Bacini stellari.
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