I.
01 ▏ zucchero e cannella
La lettera era stata recapitata con uno sgradevole ritardo. Il giovane incaricato di consegnarla, un fattorino che superava appena i sedici anni e che aveva iniziato giusto il giorno prima a lavorare, mortificato aveva lasciato la busta in mano a una ragazza che sfoggiava orgogliosamente un disordinato caschetto castano, gli ingenti occhiali rotondi di metallo proteggevano due bellissimi occhi ramati come il mattone e concedevano a quel viso dai lineamenti gentili un'espressione ancora più corrucciata; era senz'altro infastidita, con le braccia conserte a sostenere il proposito di un'accusa. Nessuno lo aveva informato che la lettera doveva essere consegnata con urgenza, il timbro della Corte Militare che splendeva sulla busta sarebbe dovuto essere un preavviso sufficiente a sottolinearne la priorità; tuttavia, quando alcuni soldati dell'esercito, che sbandieravano la divisa militare con il distintivo di un unicorno verde sul lato sinistro della giacca, gli avevano mollato la lettera, senza mezzi termini gli avevano semplicemente ordinato di recarsi al Quartier Generale della divisione dell'Armata Ricognitiva. Quello che sarebbe successo dopo, sarebbe stata una sua responsabilità. La ragazza, un ufficiale a giudicare dall'uniforme che indossava, continuava imperterrita a tenerlo inchiodato sulla porta d'ingresso senza lasciargli possibilità di fuga, benché tenesse stretta la lettera in mano. Il giovane, messo evidentemente in soggezione, insisteva a reiterare le medesime scuse incapace di formularne di nuove.
«Io non voglio le tue scuse,» parlò finalmente la castana rivelando una voce chiara e dal timbro adolescenziale che si adattava perfettamente al suo viso che tanto assomigliava a una ventata fresca ma che, malgrado ciò, riusciva perfettamente a comunicare tutta la severità necessaria «Voglio sapere perché una lettera che porta il timbro della Corte Militare ci ha messo così tanto ad arrivare, e soprattutto» s'interruppe accostando furiosamente il volto a quello dello sventurato fattorino, sistemandosi meglio gli occhiali sul naso nel tentativo di inquadrarlo meglio, alle narici gli arrivò una leggera fragranza di legno e l'odore atavico e delicatamente pungente del ferro. «Perché è stato mandato uno straccione.»
Il sedicenne fece istintivamente un passo indietro a momenti rischiando di incespicare nei suoi stessi passi e agganciò una mano alla tracolla della borsa che accoglieva all'interno tutte le lettere ancora da consegnare, soffocandola in una stretta nervosa. Non aveva trattenuto il respiro perché lei lo aveva identificato a quel modo, dopotutto visti gli abiti che gli cadevano larghi addosso – quando si era presentato all'ufficio postale i suoi superiori non si erano preoccupati di dargli una divisa della sua misura –, chiunque avrebbe potuto confonderlo per un vagabondo e non ardì alla tentazione di correggere le supposizioni della giovane, confessando che in realtà era tutt'altro che un ragazzo di strada, ma si trattenne e si focalizzò a rispondere direttamente alla sua domanda «Gliel'ho già detto, signorina, non lo so. Mi hanno fermato mentre passavo davanti alla corte e degli uomini in divisa mi hanno dato la lettera ordinandomi di consegnarla al Quartier Generale» Giudicando poi che non c'era nessuna traccia di cedimento da parte del soldato, il ragazzo, visibilmente sconsolato, piegò la schiena in avanti mostrando un'espressione disperata «Per favore, mi lasci andare.»
«Sarah,» una voce profonda e massiccia si fece strada alle sue spalle facendolo trasalire; la schiena s'irrigidì a seguito di un brivido glaciale che l'aveva attraversata giungendo fino al collo e i suoi occhi si persero nel vuoto, fece appena in tempo a voltarsi che un ragazzo alto e robusto lo affiancò; gli rivolse appena un'occhiata distratta lasciando supporre che non gli importasse davvero chi egli fosse e si concentrò invece a dedicare attenzione alla giovane «Dai, smettila. Non è colpa sua. — dopodiché gli batté un colpo sulla schiena con la mano aperta che riuscì a farlo vacillare pericolosamente in avanti, gesto traducibile come un chiaro invito ad andarsene immediatamente da quella scomoda situazione — Puoi andare, grazie.» La sua voce gentile e calma tradiva l'aspetto minaccioso. Il postino non indugiò e corse via uscendo dal Quartier Generale senza voltarsi indietro. Indubbiamente, pensò, quello era il posto più ambiguo che avesse mai visto, e quelle le persone più bizzarre che avesse mai avuto la sfortuna di incontrare.
«Che cosa hai fatto!» Esclamò mettendo in scena un'affermazione agitata la diciottenne con il caschetto castano, Sarah. Gli occhiali sul suo naso persero lievemente la stabilità in risposta all'improvviso movimento esageratamente frenetico e si spostarono su un lato; vennero subito messi di nuovo dritti con un altrettanto gesto infastidito. Sicuramente, ad aver fatto arrabbiare la ragazza non erano stati quei dannati occhiali che non stavano mai al loro posto, ma il collega dall'aspetto notevolmente corpulento che manteneva uno sguardo indifferente lasciando trasparire una certa superficialità.
«L'ho liberato, quel poveretto. Non è stata colpa sua, ricordi?»
Klaus aveva sempre presentato quel carattere straordinariamente riflessivo e temperato — che agli occhi di una turbolenta Sarah era causa di estremo nervosismo — adatto tuttavia ad attenuare quello irrequieto della collega che viceversa si abbandonava sempre a eccessivi sentimenti iracondi e inopportuni: non si faceva problemi, lui, a ricordarle che imitare i medesimi atteggiamenti del loro Caposquadra nel tentativo di alleviare quel desiderio di diventare qualcuno che non poteva essere, non avrebbe portato a nulla.
Sarah parve richiamare alla memoria il motivo per il quale le lettere arrivavano sempre con un certo spiacevole ritardo, lasciò andare un sospiro arreso e si avviò a entrare definitivamente nell'edificio percorrendo senza difficoltà i corridoi dispersivi del Quartier Generale. Insieme erano una coppia che osservata da lontano aveva tutte le caratteristiche per essere definita 'stramba'; lui un ragazzo sui vent'anni, alto e robusto, i capelli mori che portavano la tradizionale acconciatura militare erano pettinati ordinatamente a ritroso sulla testa, gli occhi profondi non lasciavano insorgere alcuna traccia di sensazione precisa mentre trasportava un'espressione solenne. Al suo fianco, spostandosi con energia azzardando un passo marciato c'era Sarah, la sua attuale collega e in passato compagna di addestramento, molto più bassa di lui e più piccola di almeno un paio d'anni ma dal carattere esuberante, talmente tanto che la sua emotività era sufficiente a colmare la sostanziale differenza di altezza.
Nel corso della fase di addestramento, Klaus aveva dovuto fronteggiare l'esaltazione snervante e immatura di Sarah che già al tempo proponeva un carattere irritante e sfacciato che lui, seppur preservando un autocontrollo imperscrutabile, aveva realmente avuto difficoltà a tollerare; tant'è che successivamente alla cerimonia si era sentito quasi contento al pensiero di non averla più attorno — finalmente un po' di meritata pace da schiamazzi, grida indecenti e modi insolenti.
Poi appena si era presentata l'occasione di entrare a far parte di una squadra d'élite dell'Armata Ricognitiva non ci aveva pensato due volte ad accettare; eppure, nel momento in cui aveva scoperto che anche Sarah era entrata nello stesso gruppo, per un attimo aveva quasi avuto l'impeto di abbandonare tutti i suoi propositi di un futuro glorioso. Non l'aveva fatto e adesso ne pagava le amare conseguenze.
«Sono emozionata!» Annunciò Sarah battendo i palmi delle mani e aumentando il passo quasi correndo, al tempo stesso invece Klaus aveva semplicemente preso a camminare più velocemente per starle dietro, un'altra seccatura pensò, in merito a cosa però non l'aveva ancora identificato «Finalmente alla nostra piccola squadra si aggiungerà una nuova recluta, non è eccitante?»
«C'è un motivo se le classi d'élite dell'esercito sono costituite da squadre con un numero limitato di soldati, lo sai?» Specificò Klaus con una tonalità saccente a dargli l'aria di qualcuno che conosceva già tutte le risposte. D'altra parte, Sarah si portò istintivamente un dito a sollevare gli occhiali sul ponte del naso, un gesto istintivo che faceva quando si trovava a riflettere su qualcosa; l'azione era accompagnata dall'espressione corrucciata della ragazza impegnata a far girare le rotelle nel cervello. Normalmente ci metteva un'eternità a trovare una soluzione.
«Per limitare il numero di possibili morti!» Esclamò con esagerato entusiasmo la castana intanto che continuava a rimbalzargli attorno come un cagnolino che era contento di trascorrere del tempo con il suo padrone; quel pensiero raccapricciante riuscì a mutare la faccia severa di Klaus in un appena accenno di disgusto. Eppure la collega non aveva dato una risposta sbagliata. L'esercito dell'Armata Ricognitiva trascinava con sé una reputazione talmente tanto terribile, spesso decorata con altrettanti aggettivi spiacevoli e brutali, che successivamente alla cerimonia in cui i giovani cadetti avrebbero deciso a quale divisione dell'esercito appartenere, quelli che effettivamente sceglievano l'Armata Ricognitiva erano davvero pochi; i rischi erano troppi e non c'erano certezze, solo tanta speranza.
Eppure, il motivo per il quale il corpo d'élite della divisione dell'esercito impegnata nelle spedizioni fuori dalle Mura era vincolato da un restrittivo regolamento che, puntualmente, ogni Caposquadra assegnato doveva rispettare, secondo il quale vigeva la disposizione che per ciascuna squadra ci fosse un limite di solo sei elementi, era un mistero. C'era chi spettegolava sulle probabilità che conosciuto il numero ristretto di soldati pronti a offrire il proprio cuore sacrificandosi per l'umanità, non tutti potevano permettersi di reclutare troppi soldati, altre voci invece azzardavano a ipotesi più creative e decisamente più terrificanti; una tra queste, il fatto che suddette squadre fossero state messe insieme per essere nient'altro che cavie da sacrificare in prima linea, più rapidamente di chiunque altro durante le spedizioni.
Klaus aveva sempre avuto il terrore che fosse così, per quanto quel pizzico di trepidazione che alimentava il suo viscerale desiderio di unirsi all'Armata Ricognitiva fosse intensa; adesso che invece era diventato uno di loro, poteva a tutti gli effetti smentire i pettegolezzi inquietanti che sorvolavano i tavoli del refettorio del campo d'addestramento. Il motivo era ben diverso, molto più sentimentale rispetto a ciò che aveva immaginato: un Caposquadra d'élite aveva la responsabilità di scegliere accuratamente cinque soldati – che fossero reclute, in realtà, era irrilevante –, veniva fatta una selezione in modo da avere almeno un gruppo da cui scegliere, tutti divisi per abilità ricercate e, soprattutto, l'obiettivo principale era quello di mettere insieme una squadra talmente tanto affiatata che ogni elemento avrebbe considerato tutti gli altri come parte di una famiglia. Più il branco era piccolo, più le possibilità di affiatamento e fiducia reciproca aumentavano e, di conseguenza, le probabilità di rimanere uccisi quasi azzerate. Alla luce di quella prospettiva però, Klaus non aveva ancora compreso le motivazioni che avevano portato il suo superiore accettare che un nuovo soldato, una recluta a quanto sapeva, entrasse a far parte di una squadra già unita e formata da tempo. La situazione, dovette ammetterlo almeno a sé stesso, non gli tornava per niente.
Talmente tanto era immerso nelle sue riflessioni da non essersi accorto che Sarah si era fermata mentre lui invece stava continuando a camminare, si immobilizzò solo quando la sua voce squillante non era più un ronzio molesto ma al contrario un sussurro lontano: «Io mi fermo un attimo dalla Caposquadra a consegnare la lettera, abbiamo perso già troppo tempo» in tutta risposta, Klaus sollevò gli occhi al cielo dando vita a una faccia esasperata; Sarah era definitivamente irrecuperabile. «Tanto sarà l'ennesimo richiamo dai piani alti.»
Emilia era raggomitolata su sé stessa in una posizione decisamente scomoda. I piedi puntellati sulla sedia e le gambe piegate permettevano alla schiena di curvarsi in maniera quasi innaturale, il mento poggiato sulle ginocchia nel frattempo che il viso era contratto in una buffa espressione concentrata; la lingua incastrata tra i denti e gli occhi appesantiti dalle sopracciglia aggrottate focalizzati a osservare attentamente che la punta a stella si incastrasse perfettamente nel chiodo che sarebbe andato finalmente a decretare conclusa la sua nuova invenzione; era un lavoro di massima precisione, un passo falso e tutta la ferraglia che teneva insieme il progetto sarebbe crollata e, assieme a lui, anche l'intero edificio sotto la furia scatenata della ricercatrice.
La porta si spalancò di colpo e la voce già fragorosamente fervida — resa ancora più intensa dal respiro trattenuto nel petto — di Sarah le arrivò alle orecchie così in fretta che dall'imprevedibilità lanciò il cacciavite in aria, e il suo corpo liberandosi finalmente dalla tensione accumulata si scosse in un salto improvviso. Il cacciavite andò a conficcarsi sulle assi del soffitto, gli occhiali da lavoro le scivolarono sul collo e la sedia venne ribaltata all'indietro. «Caposquadra Emilia, è arrivata una lettera dalla Corte Militare!»
«Miseria, ragazza!» Affrettò un'esclamazione che però non aveva alcuna traccia di colpevolezza. Emilia si sistemò gli occhiali da lavoro di nuovo sulla testa cedendo a un leggero ridacchiare piacevole indirizzando un'occhiata divertita alla sua giovanissima assistente che, al contrario, la guardava con un pizzico di disappunto; si sentiva in colpa per averla spaventata. «Vuoi farmi prendere un colpo prima del tempo tesoro?» Concluse porgendo un interrogativo che però non necessitava di un'effettiva risposta, era solo una domanda retorica fatta nel tentativo di farle capire che non era arrabbiata, infatti, le dedicò un occhiolino afferrando la lettera con disinvoltura e, con atteggiamento infastidito, iniziò a scartarla intanto che tornava alla sua postazione.
«È arrivata con un giorno di ritardo...»
La donna si lasciò cadere di peso sulla sedia poggiando i piedi sulla scrivania, di fianco alla sua creazione incompleta ma ancora intatta — per fortuna del Quartier Generale e dell'incolumità dei suoi ospiti — e incominciò a leggere senza realmente prestare sufficiente attenzione, «Saranno stati quei cani della Gendarmeria, ogni volta che mi vedono iniziano a scodinzolare talmente tanto sono felici di vedermi!» E questa, pensò, si tratterà dell'ennesima segnalazione che qualche ficcanaso dell'esercito aveva fatto a qualche amico della Polizia Militare; una soffiata riguardo una delle sue geniali creazioni, senza ombra di dubbio. Tuttavia, più continuava a setacciare quelle parole scritte con una grafia decisamente troppo raffinata per appartenere a un bastardo come Neil Doak, più si rendeva conto che quella in realtà era tutt'altro che una solita denuncia identica a tutte quelle che erano accumulate da qualche parte in una scatola, molte delle quali, tra l'altro, mai realmente aperte. Spalancò gli occhi, le pupille corvine si dilatarono, un sorriso si fece strada sul viso scosso dalla confusione iniziale. «Cazzo.» Sussurrò. Si alzò in piedi con un gesto improvviso, batté la mano sulla scrivania facendo pericolosamente tremare tutti gli oggetti poggiati sopra. «Ce l'hanno fatta! Lo sapevo, quel matto di Erwin ce l'ha fatta davvero!»
Sarah sussultò e appena la Caposquadra si mosse correndo in sua direzione fermandosi a un centimetro dal suo viso, la ragazza avvertì le guance scottarsi leggermente e il cuore iniziare ad accelerare i battiti, così tanto che temeva potessero essere sentiti addirittura da Emilia stessa. «Sarah, raduna i ragazzi, fai preparare i cavalli, ruba qualche provvista! Andiamo a fare una gita in mezzo ai boschi» concluse regalando alla brunetta un grazioso e al tempo stesso emozionato sorriso, con gli occhi chiusi e spostando leggermente la testa di lato; Sarah restò per qualche breve istante immobile a guardarla, a riflettere su quanto fosse riconoscente di quell'opportunità poiché sapeva che soltanto un numero davvero ristretto di persone intime erano state abbastanza fortunate da conoscere quel lato della personalità di Emilia così gentile e gradevole. Percepì una calorosa sensazione di orgoglio crescerle nel petto al pensiero che la Caposquadra Emilia, che si trascinava dietro la reputazione di persona senza cuore — e altri numerosi appellativi sgradevoli che preferiva non riportare alla luce —, le avesse rivolto un sorriso del genere... uno di quelli che avrebbe fatto perdere la testa a chiunque.
Il sole stava iniziando a tramontare all'orizzonte, fuggendo oltre le montagne, inzuppando il cielo di un tenue azzurro pallido. Presto si sarebbe spolverato di arancione, forse anche di un leggero rossastro fino a sparire del tutto lasciando spazio a una scala di blu in discesa verso l'oscurità, trapuntandosi di stelle; sarebbe stato facile vederle talmente tanto erano lontani dalla civiltà. Attorno al piccolo gruppo di cavalli, nel soffuso scalpitare degli zoccoli che battevano sul terreno accidentato, soltanto il leggero soffiare del vento che accarezzava dolcemente le foglie degli alberi, districandosi poi in mezzo ai ciuffi d'erba dipinti di verde, era percepibile. Il sentiero acciottolato, dipinto di marrone, era interrotto ogni tanto da qualche fiore colorato che spuntava sul percorso; l'aria profumava di vegetazione e terriccio umido, l'univoco segnale che un precedente temporale si era abbattuto su quella zona. Al palpitare dei cavalli intervenne un leggero colpo, causato da una delle ruote del carro incappato su un sasso troppo grosso per i suoi limiti; tuttavia nessun danno, dopotutto quelle erano vetture dotate di notevole resistenza a qualunque genere di urto. Klaus Bauer, alla guida, che reggeva placidamente le redini concedendo ai suoi amati cavalli di riposare un po', non si scompose, non si preoccupò, ma un'occhiata fugace indietro per accertarsi che fosse tutto al proprio posto non la negò e, constatato che non ci fosse niente di rotto tornò a sorvegliare l'orizzonte godendosi la vista del crepuscolo che, precisamente come la Caposquadra aveva dedotto, adesso s'era macchiato di dolci sfumature aranciate al limite del rossiccio.
«Fai attenzione alle buche,» lo ammonì Sarah, tirando appena le redini obbligando il cavallo a rallentare, affiancandosi al compagno «Sai quanto è importante quella roba.»
«Sì, non ti preoccupare» Sbuffò Klaus, «Sei davvero insopportabile quando ti impegni a fare la saputella. Più del solito—»
Il viso di Sarah si contrasse in un'espressione frustrata «Saputella?» Strillò sollevandosi leggermente sull'inforcatura facendo pressione sui piedi nelle staffe nel tentativo di fronteggiare il ragazzo «Caro, ti vorrei ricordare che questo è il mio lavoro. Il tuo, come signore dei cavalli, è quello di portare l'attrezzatura a destinazione tutta intera!»
«Caro?» Interrogò Klaus, aggrottando un sopracciglio dando vita, per l'ennesima volta, a una faccia al limite del ribrezzo «Avevo ragione, allora. Stai davvero cercando di imitarla.» Concluse pienamente soddisfatto che le sue ipotesi avessero finalmente trovato una risposta adeguata; aveva impiegato tre mesi di attenta osservazione, ma alla fine avrebbe potuto finalmente mettere una croce su un altro punto della sua infinita lista che riguardava 'tutti i motivi per cui Sarah Wagner è un pessimo soldato'. L'avrebbe presentata al Comandante Smith, se fosse stato necessario.
«Ma che dici!» La castana si agitò troppo rischiando di scivolare su un lato, ma ciò non accadde poiché riuscì abilmente ad aggrapparsi saldamente con una mano al pomello della sella e con l'altra afferrando una ciocca della criniera del suo cavallo riuscendo a rimettersi dritta, ma i suoi occhiali, come sempre, erano storti sul naso dandole un aspetto ridicolo e buffo che fece ridacchiare sotto voce gli altri colleghi. Con l'indice della mano libera dalle redini si sistemò le lenti. «Questo è il mio carattere, brutto bestione, dovresti conoscermi bene ormai!»
«Voi due insieme siete proprio adorabili!» Si intromise la voce di una donna che cavalcava a capo della piccola squadra. Una voce morbida e femminile — se qualcuno non l'avesse vista in faccia avrebbe dedotto si trattasse di una ragazzina, eppure quel tono così delicato e gradevole non apparteneva a nessuna graziosa fanciulla, ma altresì era in realtà il biglietto da visita di Emilia Hähn, la Caposquadra dell'Armata Ricognitiva; tutt'altro che una damigella incantevole. Emilia voltò il busto e il viso rivolgendo ai ragazzi alle sue spalle un sorriso sincero, dal cappuccio svolazzavano dei ciuffi corvini ribelli che però riuscivano a incorniciare il viso dai lineamenti dolci, la pelle chiara leggermente macchiata da lentiggini e gli occhi grandi. Sicuramente, se fosse stata una persona che avesse curato di più la sua femminilità, sarebbe stata una bella donna, ma nelle condizioni in cui era e con i modi di fare spesso maleducati che aveva, sembrava solo una bambina intrappolato nel corpo di una ragazza.
Sarah e Klaus si scambiarono un'occhiata fugace e arrossirono violentemente appena misero a fuoco che era stato dato loro della coppia.
«Caposquadra Emilia! È quello il castello?» Invocò Wolf, che viaggiava al fianco della Caposquadra. All'orizzonte delle colline leggermente dipinte dei colori all'imbrunire del cielo, comparve rivelandosi poi in tutta la sua totalità mano a mano che il gruppo si avvicinava, un edificio secolare che tanto somigliava a una qualche residenza di proprietà alla famiglia reale. Quello, in realtà, era l'ex Quartier Generale dell'Armata Ricognitiva. Un vecchio castello ristrutturato che esteticamente presentava caratteristiche eccezionali; purtroppo però, era collocato decisamente troppo lontano dalle Mura. Sarah replicò maneggiando con lo straccio di carta che si era portata appresso fino a quel momento, se lo rigirò tra le mani e infine confermò che quello fosse effettivamente il posto che stavano cercando.
«Ma guarda un po' che bel posticino!» Commentò Emilia drizzando la schiena e puntando le iridi color carbone a osservare meravigliata l'edificio che si innalzava immenso sempre più vicino.
«Mi permetta la domanda, ma lei non dovrebbe già conoscerlo?» Azzardò timidamente Wolf, un uomo con i capelli biondi sbarazzini e un leggero accenno di barba chiara tagliata male che gli circondava la mascella. Gli occhi azzurri si spostarono dal castello che prendeva possesso del campo visivo precedentemente occupato da alberi e distese infinite di pianure, e si posarono brevemente a delineare il profilo sottile di Emilia, lasciando sul suo viso una leggera punta di confusione. All'improvviso, a deliziare i suoi timpani, una leggera risata della donna riuscì a fargli distendere gli angoli delle labbra.
«Ne ho sentito parlare, ma veniva usato talmente tanti anni fa che io ero ancora una bambina. Non sono poi così vecchia.» Allungò il viso in direzione del biondo per mostrarlo meglio, dopodiché domandò seria: «Ti sembro vecchia?»
Wolf, in tutta risposta, non si scompose minimamente abituato ai modi eccessivi della Caposquadra. «No, affatto.» Rispose semplicemente con assoluta sincerità, che fu notata da Emilia la quale non trattenne un'espressione orgogliosa. Successivamente, tornò a parlottare tra sé. Wolfgang Dirk, il più anziano dei componenti del gruppo; un uomo di circa trent'anni che, differentemente a come in tanti avevano ipotizzato, aveva deciso di sua spontanea volontà di unirsi alla squadra di Emilia guidato da quell'irrefrenabile istinto di ricerca che aveva sempre caratterizzato gli obiettivi della Caposquadra; e poi, se proprio doveva ammetterlo, quella sua personalità così eccentrica e caotica era ciò che l'aveva incoraggiato ad accettare definitivamente l'offerta. Wolfgang, abbreviato in Wolf da Emilia stessa perché, a detta sua, si faceva prima a chiamarlo, continuava a riporre in quella ragazza stravagante un'estrema fiducia e un disperato sentimento di interesse ancora non bene identificato. Inoltre, non aveva accettato di passare a nessun grado superiore a quello di Emilia — nemmeno a quello di capitano perché consapevole di quanto il suo superiore fosse in notevole sintonia con Sarah — proprio per poterle stare accanto.
«Tanti anni inutilizzato e abbandonato,» rifletté, prima di crollare nuovamente in un'altra risata sfavillante «Chissà quanta polvere avranno dovuto spazzare via quei poveri ragazzi sotto l'ordine di quel nanerottolo bastardo.»
«Nanerottolo?» L'interrogativo giunse da Kurt Hartwin, un ragazzino appena sedicenne che fino a poche ore prima era nient'altro che un semplice candidato, si ritrovava adesso a cavalcare al fianco di uno dei Capisquadra d'élite più interessanti dell'Armata Ricognitiva. La sua domanda, però, non ricevette risposta direttamente dalla persona alla quale lui l'aveva comunicata, poiché Emilia era terribilmente immersa in quei pensieri che sembravano riportarle alla memoria episodi, o persone, così sgradevoli da farle addirittura digrignare i denti dal nervoso, ma a soddisfare gentilmente ai suoi dubbi intervenne Sarah, che celermente lo affiancò con il suo cavallo, e parlando a bassa voce nel tentativo di non farsi sentire dalla caposquadra, sussurrò portandosi una mano a nascondere la bocca: «Parla del Capitano Levi.»
«Sul serio? Si rivolge a lui in quel modo?» Reclamò con una faccia attonita il giovane soldato, strabuzzando gli occhi e lasciare che la mascella cedette sotto il peso della gravità talmente tanto era rimasto scioccato. Kurt conosceva il Capitano Levi perché la sua reputazione di essere il soldato più forte dell'umanità lo precedeva e sebbene i successi militari di cui vantava, il suo apparentemente brutto carattere faceva impallidire la fama della propria forza. Era sicuramente un uomo verso cui era necessario mostrare assoluto rispetto. A tal proposito, non si sarebbe mai aspettato che una persona con la quale aveva, presumibilmente, condiviso innumerevoli spedizioni e battaglie potesse prendersi tanta libertà addirittura da designarlo con aggettivi così scortesi; si sentiva quasi in imbarazzo.
«Avrai tempo per conoscere la caposquadra Emilia» Spiegò Sarah, «Non guarda in faccia a nessuno. Che tu sia un ufficiale, un superiore, un semplice soldato o addirittura un gigante, non aspettarti che lei ti rivolga trattamenti differenti; per lei siamo tutti uguali, sullo stesso livello e come tale ti tratterà. Ma se non riesci a stare al suo passo non sperare che rallenti per venire a recuperarti, non lo farà. Proseguirà per la sua strada, che a guardarla dall'alto fosse anche il Re in persona.. Non esistono scale di potere, nella sua testa. Per questo ci tiene che ci rivolgiamo a lei chiamandola per nome.»
Kurt era ancora più confuso. Un anno più tardi essersi arruolato nell'Armata Ricognitiva aveva ricevuto la lettera che precisava la sua convocazione a un colloquio per diventare un ufficiale di una delle squadre d'élite dell'esercito; scettico ma orgoglioso di sé si trascinò con il cuore che gli era slittato in gola e l'uniforme tirata a lucido al Quartier Generale chiedendo di una certa Emilia Hähn. Quando l'aveva vista per la prima volta, Kurt aveva pensato che fosse decisamente eccentrica: l'aveva accolto con un'esplosione di entusiasmo, facendolo accomodare afferrandogli le mani con le sue, rivolgendosi a lui con assoluta mancanza di formalità come se stesse parlando, in effetti, con una persona qualunque. Gli aveva brevemente menzionato i motivi per cui l'aveva scelto, precisando che alla sua squadra mancasse un elemento come il suo; a primo acchito quell'affermazione l'aveva disorientato. Poi però osservandola meglio; i lunghi capelli corvini sciolti erano una matassa disordinata di ricci e nodi, non indossava l'uniforme ma si era semplicemente scomodata a indossare la giacca perché obbligata, al collo ondeggiavano dei grossi occhiali da lavoro e lanciando una rapida occhiata verso il basso non aveva potuto ignorare la grossa cintura avvolta da una quantità incalcolabile di oggetti scientifici da ricerca, alcuni dei quali sbucavano fuori anche dalle innumerevoli tasche presenti sui pantaloni larghi, finalmente comprese: l'aveva scelto perché aveva una certa abilità a maneggiare gli esplosivi. Appena l'aveva accennato, giurò d'aver visto gli occhi di Emilia dipingersi di eccitazione. Era decisamente una persona stravagante, appariscente e invadente e Kurt non sapeva ancora quale fosse il modo migliore per approcciarsi a lei. Storse gli angoli della bocca, pensieroso, poi ammise forse a voce troppo alta: «Beh, non è che lei sia poi così alta da potersi permettere di chiamare nanerottolo il Capitano Levi.»
Emilia mutò la sua espressione rilassata in una smorfia turbata, tirò le redini fino a far fermare il cavallo e senza voltarsi aspettò che Kurt la raggiungesse per poi puntargli addosso uno sguardo severo e corrucciato. Il ragazzo trasalì lievemente quando intercettò la mano della caposquadra raggiungere il suo viso e piazzarsi davanti al suo naso con tre dita alzate; restò a osservarle qualche istante, iniziando a tremare all'idea di essere stato tanto irrispettoso nei confronti di un superiore. Evidentemente, l'affermazione non era stata gradita... ma che significata quel tre?
«Tre centimetri!» Esclamò Emilia, decisiva. «Trenta millimetri, trentamila micrometri! Hai idea di quanta materia ci sia in così tanto spazio? Trentamilioni nanometri pieni zeppi di roba in più rispetto a lui, non c'è neanche da supporre chi dei due sia superiore in proposito.»
Kurt trattenne il respiro intanto che accompagnava con lo sguardo la figura Emilia allontanarsi senza neanche assicurarsi che gli tutti gli altri stessero continuando a seguirla, proseguendo a sproloquiare tra sé su quanto quei tre centimetri di differenza fossero fondamentali. Voltò uno sguardo interrogativo a Sarah, che in qualche modo si era accollata la responsabilità di istruire la recluta, ma quest'ultima soffocò a stento una risatina alzando le spalle senza dire una parola. Kurt aveva dedotto che il Capitano Levi e la Caposquadra Emilia non andassero molto d'accordo.
Raggiunsero il castello una volta emersi dal bosco. La struttura ergeva maestosa e, malgrado i segni del tempo che erano riconoscibili attraverso l'usura e il deterioramento delle pietre o l'edera rampicante che imperterrita scalava l'altezza delle torri, era ancora da considerarsi una costruzione meritevole del suo nome. Emilia dovette quasi gettare la testa all'indietro se desiderava inquadrare la punta dei tetti azzurri che squarciavano il cielo, seguita dalla sua squadra si arrestarono nel cortile del Quartier Generale e, finalmente smontarono da cavallo; successivamente a un'intera giornata di viaggio impegnato prevalentemente in sella con l'obiettivo di arrivare il prima possibile — «ci aspettano domani, ma noi arriveremo stasera!» aveva detto Emilia —, le gambe s'erano intorpidite e la schiena scricchiolava dolorante, ma nessuno azzardò l'audacia di protestare e l'unico suono che uscì dalle bocce dei soldati esausti fu semplicemente un gemito di stanchezza nel frattempo che distendevano i muscoli addormentati. Eccetto Emilia, che appena poggiò i piedi sul terreno dopo essere saltata giù dal cavallo, lasciando poi le redini in mano a Sarah indirizzandole solo un leggero «Ci pensi tu, vero? Sei un tesoro» che si perse nel vento, si avviò in direzione delle due figure che pazientemente la stavano aspettando.
Il Capitano Levi Ackerman aveva la schiena appoggiata al muro di pietra, le braccia conserte e l'espressione corrucciata mentre riservava un'occhiata imprecisa al gruppo appena arrivato, al suo fianco Eren Jaeger stava con la spalle rigide in una posizione impettita con le mani allacciate dietro la schiena, l'attenzione rivolta esclusivamente alla donna che si stava avvicinando. Sul viso di Emilia spuntò un sorriso sinceramente entusiasta e allargando le braccia esclamò a gran voce: «Finalmente fai vedere quel tuo brutto muso!»
«Sei in anticipo.» Osservò Levi, sfoggiando un'intonazione vagamente infastidita.
«Che vuoi farci? Quando mi hanno detto che avrei passato un sacco di tempo in un romantico castello in mezzo ai boschi assieme alla mia persona preferita, non ho resistito e sono corsa qui. Non sei contento di rivedermi?» Parlando azzardò a circondagli il collo con un braccio poggiando lievemente la testa contro la sua. Orientò un'occhiata furba verso destra, sollevando appena gli angoli della bocca a formare una smorfia subdola; stava aspettando qualcosa, una reazione che sapeva sarebbe apparsa come i raggi del sole spuntano dopo un temporale primaverile, come un arcobaleno che sorge sbucando dalle nuvole macchiate di grigio. E finalmente eccola lì, la reazione che Emilia si divertiva così tanto innescare in Levi, perché era così semplice da attivare che non serviva neanche miscelare i composti chimici per scatenarla, arrivava da sé: le sopracciglia si corrucciarono tanto, dal nervoso, che comparvero almeno tre rughe in più sul suo volto mentre i denti cominciavano a digrignare dando vita all'espressione più terrificante che Eren avesse mai visto e per un attimo giurò che a sorpassare lo sguardo truce del Capitano fu una scintilla d'odio. Eren tremò per l'incolumità del braccio della caposquadra.
«No.» Rispose lui a denti stretti, «e toglimi subito le mani di dosso. Puzzi di cavallo.»
«Uffa, quanto sei antipatico! Non ci vediamo da mesi ed è questa la tua reazione?» Piagnucolò Emilia sottraendo finalmente Levi dalla sua stretta che non sembrava nascondere niente di amichevole e si allontanò poggiando i pugni sui fianchi ostentando una faccia imbronciata. Lui ignorò la sua reazione fuori luogo. «Non sono io quello che soffre la tua mancanza, qui.»
Eren, nel frattempo, era rimasto immobile a guardarli lievemente indietro. Era difficile credere che i due fossero effettivamente degli ufficiali d'élite dell'Armata Ricognitiva, piuttosto sembravano una coppia di fratelli che bisticciavano tra loro, come se fosse una consuetudine. E quando gli occhi scuri della Caposquadra si posarono definitivamente sulla sua figura, un brivido agghiacciante gli attraversò la schiena; non c'era niente di terrificante o minaccioso in quello sguardo, anzi, così come la sua presenza in generale, trasmetteva una certa simpatia. Le sue iridi erano grandi e color carbone, costantemente nebulizzati da scintille di eccitazione, tuttavia Eren non riuscì a sottovalutare del tutto la sensazione macabra che a guardarla sembrava trascinarsi dietro, come se fosse avvolta da un'aura tetra. Forse, però, era a causa dell'influenza dei pettegolezzi che aveva in più di un'occasione ascoltato sul suo conto: che fosse un pessimo caposquadra, insensibile e brutale, che oltre la faccia d'angelo in realtà si nascondesse una personalità spietata. Anche se, dovette ammetterlo, a vederla così sembrava semplicemente una bambina lunatica.
«E tu chi sei?» Chiese rivolgendogli l'intonazione più dolce che avesse mai sentito, fortemente in contrasto con quella usata con il Capitano Levi pochi istanti prima. Eren si apprestò a risponderle ma venne brutalmente interrotto proprio dal corvino che fece schioccare la lingua sul palato in un'affermazione irritata. «Smettila di fingere di non saperlo.» L'ammonì. Era palese volesse sottrarsi a quella situazione il più velocemente possibile e questo includeva anche le eventuali presentazioni. Eren si sentì sopraffare dall'ansia.
«Per Dio, Levi!» Affermò Emilia, esasperata lasciando cadere le braccia lungo il corpo. «Volevo metterlo a suo agio! — poi, tornando a rivolgersi al quindicenne, tese una mano aperta — Io sono Emilia Hähn, molto piacere! Ti ho visto in tribunale. Che emozione conoscerti! È incredibile, tu sei davvero incredibile!» Concluse sfoggiando un sorriso luminoso che riuscì, almeno in parte, a rasserenarlo. Gli afferrò la mano stringendola nella sua. «Io sono Eren. È un piacere conoscerla, caposquadra.» Ricambiò indirizzandole un timido sorriso. Emilia Hähn aveva le mani più morbide e fresche che avesse mai sentito, il suo tocco bastò ad allentare i nodi tesi dei muscoli. Non sembrava affatto che avesse tenuto le redini in mano per tutto il giorno. In seguito indirizzò un'occhiata sul tipico chiasso che facevano gli oggetti metallici quando si scontravano tra di loro e individuò una varietà di attrezzatura scientifica e da lavoro che le circondava la vita, appesi a una grossa cintura; appena li riconobbe — alcuni di quelli erano davvero simili a quelli utilizzati da suo padre — fece istintivamente un passo indietro, leggermente agitato.
«Lei è un medico?» Chiese Eren, titubante e vagamente spaventato, senza distogliere gli occhi dalla cintura piena di strumenti.
«Medico, io?»
«Preferirei morire agonizzante sotto il culo merdoso di un gigante piuttosto che mettere la salute nelle mani di questa donna» intervenne Levi d'improvviso.
«E io preferirei venire sbranata dal gigante che ti sta usando per pulirsi il culo merdoso, piuttosto che assaggiare uno dei tè preparati da te!» Replicò Emilia contrattaccando innervosendosi forse un po' troppo agitando le mani in aria lanciando un'occhiataccia minacciosa a Levi. Poi tornò a rivolgersi a Eren ammorbidendo lo sguardo e addolcendo la voce: «No, non sono un medico. Sono una ricercatrice, una scienziata, e quando capita mi piace dilettarmi a costruire invenzioni!» Terminò saltellando e battendo leggermente le mani manifestando euforia. All'improvviso, poi, mutò l'espressione in una faccia terrificata alzando le mani all'altezza della faccia sventolandole animatamente «Ma non preoccuparti, io non ho alcuna intenzione di fare esperimenti su di te se è quello che ti turba! Non sono come quei ratti schifosi della Gendarmeria» ci tenne a specificare.
«Non mi permetterei mai di pensarlo, signorina.»
«Ma che dolcetto che sei!» Sorrise Emilia, intenerita dalla sua educazione quasi diffusa fino all'estremo e soprattutto da quegli occhi che portavano lo stesso colore dello smeraldo, così grandi e terrorizzati, che la caposquadra pensò di tranquillizzare a modo suo «Dì un po', i tuoi ti hanno messo al mondo con zucchero e cannella?» Scherzò la corvina. Eren avrebbe dovuto provare dell'imbarazzo al limite dell'umiliazione accompagnato dal un profondo desiderio di sotterrarsi vivo, e l'avrebbe pure fatto — provare vergogna, sentirsi a disagio, seppellirsi vivo proprio sotto i piedi del Capitano Levi — se non fosse però che quella riflessione eloquente accompagnata da un leggero porpora che andarono a dipingere il viso chiaro della Caposquadra, che continuava a sorridergli così teneramente, lo avevano fatto sentire apprezzato dopo tanto tempo. Lei gli prese la mano nella sua e fece appena in tempo a esclamare «Vieni, ti presento i miei ragazzi» che tempestivamente Levi l'afferrò per il colletto della giacca e la trascinò via senza lasciarle il tempo di agire, soffiando a denti stretti.
«Dobbiamo andare, Erwin ti aspetta.» Poi, fermandosi a pochi passi dall'entrata, lanciò un'occhiata svelta che lasciava intendere quanto fosse terribilmente spazientito, si rivolse al giovane ragazzo—gigante «Tu torna a lavorare. Subito.»
L'ultima cosa che Eren Jaeger riuscì a vedere, fu il Capitano Levi che si trascinava dietro la Caposquadra Emilia sequestrata per il colletto della giacca della divisa dell'Armata Ricognitiva — unico indumento che rappresentava realmente l'uniforme perché la maglietta larga con un fiore dipinto sull'angolo sinistro infilata dentro dei larghi pantaloni grigi pieni di tasche non sarebbero dovuti essere autorizzati —, nel frattempo che quest'ultima continuava a dimenarsi insistendo, attraverso un pizzico di sarcasmo pungente, che poteva camminare benissimo da sola senza necessariamente dover abbassarsi così tanto, per poi infine esclamare «ma io volevo stare ancora un po' con il ragazzo cannella!».
Era sicuramente l'essere umano più bizzarro, eccentrico, chiassoso e sfacciato che Eren avesse mai conosciuto e stentava a credere, ancora, che si trattasse davvero di un ufficiale. Ma comunque, un sorriso gentile non mancò di increspargli le labbra.
❪ 注意。❫ ⤸
𝔞𝔲𝔱𝔥𝔬𝔯'𝔰 𝔫𝔬𝔱𝔢𝔰
La mia bambina finalmente appare come l'ho sempre immaginata, piango.
La storia inizia proprio quasi agli albori della prima stagione, pochi giorni dopo l'arrivo della squadra di Levi e di Eren all'ex Quartier Generale. Viene menzionato anche che Emilia aveva già visto Eren in tribunale; non ho specificato oltre, ma fondamentalmente ci è rimasta giusto il tempo di vedere Eren di sfuggita e poi se n'è andata, quindi tecnicamente non lo conosce.
Il capitolo vuole essere un'introduzione a Emilia da adulta, al suo carattere, al suo stile eccentrico, per dare un po' l'idea del personaggio che ci troviamo davanti (giusto per non farvi spaventare troppo 💀) + serve per introdurre un po' brevemente la sua squadra, che comunque avrà un ruolo rilevante nella storia!
Letteralmente la mia reazione quando Emilia ha chiamato Eren per la prima volta (la prima di tante, vi avviso) «Ragazzo cannella»
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