6.8 • Sipario serrato


«Sei stato bravo». Agata appoggia il fianco allo stipite della porta colorata, come una moglie che guarda soddisfatta il marito mentre tenta goffamente di fare il papà.

No, non sono stato bravo. Cancellando Enn da qui nel modo più dolce possibile sono stato compassionevole, ma nei mesi scorsi non ho mai davvero tenuto in considerazione il suo punto di vista. Così come una sola cattiva azione non rende malvagia una persona buona, vale anche l'opposto, e infatti io resto l'assassino dell'incidente di marzo; non importa quanto bene possa procurare da ora in poi.

Questo però non significa che abbia finito: ora tocca ad Agata.

«Sei lì da molto?» le chiedo, facendo guizzare soltanto un attimo lo sguardo dalle lenzuola alla sua figura longilinea.

«Abbastanza a lungo per assistere alla scena». Agata inspira con decisione, persa in una miriade di pensieri che si condensano in un nodo alla gola facile da percepire. «Odiavo Enn e non ti nego che avrei preferito vederlo soffrire di più, ma alla fine era solo un ragazzino spaventato. Non tanto diverso da noi».

Già, fin troppo simile a me. «Mi fa piacere che la pensi così», le confesso. Accarezzo le coperte e le rincalzo un'ultima volta, prima di far svanire l'intera stanza con un colpo di tosse. La cameretta di un bambino non è adatta, voglio passare gli ultimi momenti con lei in un luogo piacevole, che sia il riflesso di quanto ci siamo amati in questi mesi.

Ripenso al ponte di acciaio rosso costruito sul fiume di lava, alle passeggiate sulla superficie marina, alle lacrime di stupore versate nel vedere un'alba con la Terra al posto del Sole. Per stasera voglio tutto questo e anche di più. Chiudo gli occhi e desidero di trovarmi in un luogo del genere, facendo leva su ogni ricordo positivo che riesco a raccogliere dai recessi della mia memoria. 

Quando riapro le palpebre non posso fare a meno di sospirare. Pini mediterranei, case vacanze e l'azzurra lucentezza del golfo di Squillace fanno a gara per rubarsi la scena a vicenda, eppure non possono contrastare il semplice stare di nuovo in piedi nella terrazza di mio nonno. Il caldo fa da contorno a un'aria pulita, agitata solo dal frinire delle instancabili cicale, metronomi delle giornate vissute in mezzo alla natura. «Qui è perfetto».

«Addirittura perfetto?» fa lei, poggiandosi sul parapetto di mattoni rossi del balcone. Immagino che il panorama non le procuri la mia stessa nostalgia. 

«Sì. Perché non esiste, non più ormai. Non per me».

La mia famiglia ha venduto la versione reale di questa casa anni fa e da quel momento non siamo più tornati in zona, preferendo altre mete turistiche calabresi, decisamente meno suggestive. Di sicuro, meno "pesanti" a livello emotivo. Mentre ci ripenso, cala un silenzio innaturale. 

Dovremmo abbracciarci, piangere insieme, gioire per esserci ritrovati... questo fanno le persone che si amano, giusto? Invece c'è come un muro fra noi. Da quando abbiamo avuto quella litigata sul suo libero arbitrio, il rapporto con Agata è diventato strano, direi più simile a due ex che si devono incontrare e cercano di mascherare un forte senso di imbarazzo.

«Sarei perfetta se non esistessi?» esordisce a un certo punto lei, con una domanda piuttosto inusuale per il suo carattere brioso.

«Certo che no» sentenzio, senza nemmeno pensarci. «Non so se puoi essere più perfetta di come sei adesso, però sono sicuro che non lo diventeresti sparendo». 

Piuttosto, è il contrario.

«Mh». Non sembra affatto confortata.

Ci riflettiamo su entrambi, ancora stregati dal panorama lucente che sembra arricchirsi di maggiori dettagli a ogni occhiata: credo di riuscire a seguire i movimenti di una barca a vela in bilico sull'orizzonte, così piccola in confronto al profondo blu dello Ionio.

«Sai, Giulia odiava parlare delle nostre paure. Diceva che le rendevamo solo più vere, e forse lasciandole sepolte prima o poi sarebbero sparite».

Agata rimane visibilmente in disaccordo. «È un ragionamento triste. Perché ora mi racconti di lei? Hai sempre evitato di nominarla».

«Io ho paura. Paura di tornare lì fuori: non ho la forza». Affondo la parte bassa del volto nei palmi delle mani, inspirando forte attraverso le fessure lasciate dalle dita. 

Lei rimane perplessa, indecisa se consolarmi o meno. «Ti mentirei dicendo che capisco».

«Lo so. Per questo ho bisogno di chiederti un favore». Schiarisco la voce e, per la prima volta da tanto tempo, mi giro verso di lei e la guardo dritta negli occhi, evitando di sprofondare come mio solito in quel verde meraviglioso delle sue iridi, per non distrarmi. «Devi andarci al posto mio. Fuori, intendo».

«... cosa?» Si incupisce, contrariata.

«È quello che hai sempre voluto, no? Vedere il mondo e sperimentarlo sul serio». Le stringo le spalle fra le mani, forse troppo bruscamente, infatti Agata fa un passo indietro scrollando la testa. «No. Io avrei voluto che potessimo farlo insieme».

Mi devo calmare, la sto spaventando.

«Non si può, Agata: c'è un solo corpo là». 

Sono giorni che ci ragiono su e credo sia la scelta migliore per entrambi, ma lo sarà davvero? Non ne sono certo come voglio far sembrare, però non vedo alternative. Non sopporto il fatto di continuare a lamentarmi della mia vita all'esterno mentre lei sta qui, imprigionata.

«Ma ti senti quando parli? Non potrei mai lasciarti nei sogni a patire quello che ho subito io. La solitudine totale, le tenebre, la paura di non rivederti! Mi reputi così egoista?»

Il balcone trema a ogni suo tono più acuto, diffondendo della polvere di calcestruzzo. Ha un'espressione infuocata, di chi ha sofferto troppo per permettere a qualcun altro di vivere la stessa situazione.

La capisco.

«Non potrò mai chiederti scusa a sufficienza per tutto ciò che hai dovuto sopportare. Ma posso fare ammenda, o almeno posso provarci dandoti una seconda possibilità». Sto rassicurando me stesso più di quanto non voglia convincere lei, perché alla fine la mia è soltanto una scommessa: non posso essere sicuro che si sveglierà a Firenze come se niente fosse, né che io non rimanga intrappolato qui dentro per sempre.

«Sai benissimo che non accetterò mai di scambiarci di posto». Muove le mani di fronte a lei con un gesto secco, disegnando una croce di dissenso in aria.

«Lo so». È una fortuna che non abbia bisogno del suo permesso: sono ancora io il re dei sogni. «Mi dispiace, per quello che vale». Faccio crollare su di noi una cupola di vetro infrangibile, passandoci poi attraverso come un fantasma. Lei non può, infatti resta bloccata sotto la trappola più banale del mondo.

«Ale, che stai facendo? Fammi uscire!» Le sue urla di rabbia vengono attutite dal materiale cristallino, affievolendosi ancor di più mentre mi libro in aria osservando il villaggio vacanze da una prospettiva nuova. Distaccata. Agata colpisce la cupola con tutta la sua forza, forse sperando di romperla?

Il contenitore rimane immobile, ammortizzando ogni pugno.

Non ci sono parole per questo, solo lacrime e dolore. Una parte di me vorrebbe interrompere tutto, andare ad abbracciarla e continuare con la farsa dei sogni lucidi. Vorrebbe restare con lei anche se ferisce entrambi, anche se ha perso senso. Invece non mi fermo, continuo a salire di quota, posando lo sguardo sia sul luogo sia sul tempo in cui probabilmente sono stato più felice. Basta. Ormai l'ho perso per sempre, così come ho perso l'affetto di Agata.

Sento un brivido freddo percorrermi la spina dorsale fino alla nuca ed è la sensazione stessa a convertirsi in una domanda: «Sei sicuro?» 

L'ombra blu si è avvinghiata alla mia manifestazione incorporea come un boa che stritola la sua preda, ma non sento dolore. Non mi stupisco nemmeno di vederla adesso, dopotutto credo di aver compreso chi sia. Cosa sia.

«Lei può uscire?» chiedo, tremando, al mio vero inconscio.

«Solo se non ci sei tu». 

Sarà sincero? È davvero l'unico modo che ho per permetterle di essere felice? Oppure questo fantasma dagli occhi bianchi non è altro che l'ennesima proiezione dei miei pensieri? 

Non ha importanza. Non ho modo di liberarmi del filtro con cui interpreto il mondo, figuriamoci se sono in grado di distinguere un riflesso da un'entità profonda come l'inconscio, di cui onestamente so solo quelle due nozioni idiote studiate a scuola.

Comunque sia, va bene così. Ho fatto la mia scelta già tempo fa. 

«Puoi ancora tornare da lei» mi suggerisce, indicandola con un movimento lento.

Guardo giù e non ho bisogno di tendere le orecchie per essere scosso dalle sue grida. Instancabile, Agata continua a lottare contro l'impenetrabile spessore vetroso. «Non credo di meritare la sua compassione, o il suo amore. Non so nemmeno se la sua furia è per me o per il fatto di sentirsi in trappola».

L'ombra mi fissa e in lei rivedo me stesso, in un modo diverso da come appariva Enn. Ho l'impressione che capisca cosa sto passando, il dolore che ho provato. «Una via di mezzo, Ale».

«Basta vie di mezzo».

«Fammi uscire, ho detto!» Agata tira un ultimo, poderoso colpo al vetro, frantumandolo in decine di schegge fluttuanti. Non si cura nemmeno di valutare il prodigio che è riuscita a compiere, agitando le braccia al cielo con la stessa rabbia. «Torna subito qui!»

Le sorrido, rassicurato e orgoglioso; vederle manipolare il sogno è più di quanto mi serviva per lasciarla andare. Chiudo gli occhi e abbraccio a mia volta l'ombra blu, stringendo al massimo la presa.

«Ale, ti prego! Torna qui!» Sono le ultime parole che sento gridare da lei, prima di abbandonarmi completamente alla presa mortale dell'inconscio. 






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