5.8 • Salvare un legame


Mia sorella è invidiosa di Chiara? Ma perché? Pur non volendo, sto trattando male entrambe quasi allo stesso modo. Vero, non rema comunque a mio favore, ed ecco un altro crampo.

A questo punto credo ne siano arrivati cinque o sei, e l'ultimo in particolare mi blocca proprio un attimo prima di fermare Lucrezia che, non percependo né i miei pensieri confusi né i miei dolori, sbatte con foga la porta della sua stanza ed erige così un nuovo muro fra noi.

Certo, perché adesso sarebbe colpa sua, no? Cretino.

"Vattene via", sembra urlare ogni molecola di cellulosa in quel pezzo di legno che ci separa.

Al posto di un ordine simile, dalla superficie beige si stacca un foglio di carta ingiallito, insieme alla puntina con cui era stato affisso; il piccolo ago di metallo arrugginito precipita sul pavimento e rimbalza fino ad arrestare il suo moto, mentre la pagina plana a pochi centimetri dal suolo; scivola rapida sotto la credenza di fronte alla porta, finendo inghiottita in una fessura da cui raramente c'è ritorno.

Riposa in pace, foglio. Non posso preoccuparmi anche di te, ho bisogno prima di una tappa alla toilette, poi di riempire lo stomaco con qualcosa che non sia una contrazione involontaria.

Appurato ciò, mi avvio verso il bagno principale accanto all'ingresso. Supero la camera di Lulu e piego la testa verso il resto dei disegni appesi, incuriosito dal vuoto rettangolare lasciato dalla pagina perduta, passando in rassegna i presenti: un primo piano di Daenerys tratteggiato a carboncino, due vecchi schizzi di Final Fantasy VII e uno scorcio di Firenze preso dal Campanile di Giotto. 

Come immaginavo, manca proprio il ritratto regalatole da Mattia. Beh, se ne accorgerà molto presto e in qualche maniera lo recupererà, non mi riguarda.

Abbassando la tavoletta del water, un flash di dieci anni fa scatta nel mio lobo temporale. Il flusso di coscienza mi mostra Lucrezia che singhiozza e indica il divano verdognolo nella vecchia casa. "Ale, mi è finito un braccialetto lì sotto, ce la fai a sollevarlo?". 

Sbatto più volte gli occhi e li tengo chiusi fino a far svanire il suo volto, disperato per un'inezia. In quell'occasione, come in molte altre a essere onesti, Lulu ha chiesto il mio aiuto e ho ritenuto un piacere farla tornare a sorridere. Abbiamo avuto i nostri screzi e ho sempre odiato la sua migliore amica, ma a lei voglio bene.

Starà di nuovo male quando non troverà il disegno a cui è più legata? Oltretutto, quel foglio sarebbe ancora immobile nella sua posizione se io non l'avessi fatta arrabbiare.

Sbatto la testa contro il muro, rassegnato. «Oh, andiamo, non posso aver già cambiato idea».

Sbuffo, tiro lo sciacquone e passo i successivi minuti elaborando un piano di salvataggio, ormai convinto di dovermene occupare in prima persona. La credenza è troppo pesante per essere alzata e la fessura che la separa dal pavimento non permetterebbe il passaggio nemmeno alle mie sottili dita da pianista mancato. Potrei trascinarla di lato, ma il rischio di rovinare il disegno sarebbe elevatissimo.

«Diavolo, Mattia, avresti dovuto scegliere la strada dello scultore. Mica si può appendere una statua» bofonchio, asciugandomi le mani e spalancando l'entrata a scomparsa del bagno.

Contrariamente al consiglio appena esternato, il ragazzo di mia sorella è sempre stato un patito della pittura e immagino sia stato il maggior punto di connessione fra i due piccioncini.

Quando era piccola, Lu aveva riempito la camera di bellissimi disegni in bianco e nero, che compensavano la mancanza di sfumature colorate con un livello estremo di dettaglio. Il suo talento sarebbe apparso evidente agli occhi di chiunque si fosse lasciato trascinare dentro quei chiaroscuri, infusi di una passione davvero rara da trovare in una bambina così tecnicamente inesperta. 

Tutt'ora non ama i pennarelli, forse perché li consumavo io, dal primo all'ultimo, con il solo risultato di imbrattare e quindi peggiorare le mie creazioni fumettistiche, ben più incerte e sbilenche delle meraviglie esposte da lei. Se non sbaglio, il suo primo approccio all'arte era stato gravemente compromesso dalla totale assenza di inchiostro in ogni penna presente in casa, evento che l'aveva spinta a preferire prima le matite e poi la matita, quella nera. 

Mentre io scarabocchiavo personaggi del tutto privi di scheletro o proporzioni, mia sorella si dilettava nell'ombreggiare autoritratti che spesso le riuscivano tanto bene da suscitare perfino l'interesse di alcuni insegnanti dell'Accademia di Belle Arti, amici dei nostri genitori. Non ero invidioso delle loro attenzioni, anzi, accrescevo il mio ego facendo leva sulla differenza incolmabile di stile e sull'incapacità degli adulti di comprendere sia i misteri dei "baloon" che il fascino delle onomatopee, però quella situazione era stata senza dubbio un motivo di attrito fra me e Lucrezia. Invece Mattia, nipote di uno degli insegnanti dell'Accademia, pochi giorni dopo averla conosciuta fu stregato dal suo talento, o più probabilmente dall'artista stessa.

Tentando di fare colpo aveva chiesto a Lulu di posare per lui ed erano rimasti a lungo in camera a fissarsi, ciascuno impegnato nel rispettivo compito di pittore e modella. Venne fuori una scena strana da osservare: due bambocci di dodici e nove anni completamente assorti in quell'impresa titanica durata circa tre ore, che per loro saranno sembrate trenta. Il risultato non fu di certo all'altezza dei lavori di mia sorella, ma ne rimase colpita al punto da appenderlo in piena vista, al centro della sua porta.

Mamma aveva cercato di convincerla a incorniciarlo, mettendola in guardia dai piccoli incidenti domestici che avrebbero potuto rovinarlo, eppure Lucrezia si era rivelata inflessibile nella semplicità del suo ragionamento. Aveva detto qualcosa di simile a "È stupendo, ma ogni macchia lo renderà ancora più perfetto".

Chissà se ha deciso di non tingersi più il ciuffo bianco seguendo la stessa logica per la quale all'epoca non volle proteggere il ritratto.

In ogni caso, io non ero d'accordo e avevo appena portato a plastificare le tavole della mia opera massima, "Energyc, il destino della saetta", che per ironia della sorte è andata perduta durante il trasloco dovuto alla separazione dei nostri genitori. Assurdo. Il disegno di Mattia, nonostante fosse privo di protezione, non aveva mai incrociato la strada con il pericolo di rovinarsi o perdersi. Fino a oggi.

Capisco perché alcune persone riescano a mantenere una fede incrollabile nel destino: ci sono eventi che sembrano collocati di proposito al termine di una scelta, sottolineando l'ineluttabilità del fato e deridendo chiunque tenti di contrastarlo. Io però sono un uomo di scienza, non ci credo e l'ultima cosa che desidero è servire su un piatto d'argento a Lucrezia un ennesimo motivo per arrabbiarsi con me, perciò devo recuperare ad ogni costo il suo reperto di romanticismo. Avrò bisogno di uno strumento risalente all'infanzia, e mi sembra di ricordare dove sia.

Un tuono fa tremare la grossa finestra in fondo al corridoio e riporta alla luce il forte senso di nausea, messo in secondo piano dallo spirito combattivo. Sì, distrarmi è la chiave, lo è sempre stata, quindi ben venga un temporale estivo e il suo fragore. Torno nei pressi della camera di Lucrezia e armeggio fra gli scaffali incastrati sotto la scala sospesa. Servirebbe un po' d'ordine, o una pulita.

Adocchio un comodino fossile con più anni che giunture e, insistendo sul meccanismo di scorrimento arrugginito, apro due dei suoi antichi cassetti. Niente nel primo, ma mi lascio sfuggire un «Trovata!» scardinando il secondo. Torno in piedi e rischio di lasciare mezzo cranio contro uno scalino, ma scanso il pericolo a pochi millimetri dall'impatto per pura fortuna. Oppure il mio istinto non è del tutto da buttare.

Abbandono il sottoscala impugnando la riga pieghevole che usavo da piccolo per recuperare le biglie in vena di nascondersi e mi volto con aria di sfida verso la fessura mangia-cianfrusaglie. «A noi due, malandrina».

Tossisco, constato di essere ancora nella sacrificabile tenuta da corsa e mi adagio sul pavimento, infilando lo strumento di misura nel sottile spazio lasciato fra le mattonelle fresche e il massiccio mobile scuro. Ci teniamo le marmellate "buone" fino a farle inevitabilmente scadere, e mai più di adesso avevo inquadrato la futilità di questa unica funzione ad esso riservata. «Non solo mi rovini le marmellate all'amarena, ora mi rubi anche i disegni. Ti smonto come la sedia in camera mia, te lo prometto».

Nella posizione insolita in cui mi sono spalmato ciò che è piccolo assume un nuovo fascino misterioso. I lampi all'esterno illuminano le venature del mobile e i piccoli fori causati dalle termiti, facendomi pregare che non ne esca fuori una all'improvviso. Un'ulteriore fatto rilevante è la posizione dell'orecchio, così vicino al suolo da permettermi di percepire i passi nervosi di Lucrezia. Sta ciarlando al telefono, è possibile che abbia chiamato Mattia per sfogarsi con lui.

Riporto l'attenzione all'estremità della riga e d'un tratto ogni barlume di interesse verso il mondo visto dalla prospettiva di una formica svanisce: un ragno dalle zampette aghiformi vaga a pochi centimetri dal mio pollice.

«Merda, oh merda!» ritraggo la mano di scatto e subito mi pento di aver abbandonato le consuete altezze umane, delle quali mi approprio nuovamente una volta ucciso l'aracnide da appartamento.

Decido di passare alle maniere forti e attendo con pazienza una pausa dalle fitte allo stomaco.  Se ne susseguono tre di media entità, poi il vuoto. Nel frattempo, il temporale tamburella sulle finestre e agita l'albero al centro del cortile interno. Ti capisco, magnolia, anche io mi sento così. Approfitto della calma nelle viscere per abbracciare la credenza e prepararmi a uno sforzo notevole. Tirando qualche volta da entrambi i lati riesco a portare alla luce il disegno; grazie al cielo non è ricoperto di insetti schifosi. Sospiro e mi infilo nel ridotto spazio tra la credenza e il muro, sicuro di poterlo afferrare, però tiro una spinta di troppo al mobile, il quale si piega pericolosamente in avanti verso una caduta rovinosa sulla porta di Lucrezia.

«No, no, no, no!»

Scatto all'indietro e poggio entrambe le mani sulle ante arrestandone lo schianto. La credenza è alta mezzo metro più di me e ha diversi chili di troppo, non riuscirò a sorreggerla a lungo da solo.

«Lu! Ho bisogno di una mano, alla svelta, davvero!» grido, con la voce soffocata dallo sforzo.

Passano un paio di secondi interminabili e finalmente mia sorella fa capolino dalla sua stanza, lanciando un gridolino preoccupato.

«Non stare lì impalata, aiutami!»

Combinando la spinta dei nostri timidi bicipiti riusciamo a buttare di nuovo indietro il mobile assassino, che scricchiola in modo poco rassicurante a contatto con la parete opposta. Lucrezia ansima senza sosta, io mi accascio a terra tossendo e sgranando gli occhi.

«Si può sapere che stavi facendo?!» 

«Il disegno di Mattia, si era staccato». Rivolgo il palmo della mano verso la fessura incriminata e Lucrezia affonda le dita nei capelli.

«Sei un pazzo, Ale. Ti stavi ammazzando per un pezzo di carta, lo capisci, no?» 

Rimango abbastanza basito dalla sua reazione. «Credevo ci tenessi molto e volevo farmi perdonare». Abbasso gli occhi, confuso.

«Io... non so che dire. Non mi hai mai capita, eppure ho spiegato diverse volte le mie ragioni, a te ai nostri genitori». Fa una pausa e si stringe la radice del naso. La situazione è identica a quella di una decina di minuti fa, è cambiato solo lo sfondo, passando da camera mia all'uscio della sua e c'è poco da stupirsi, quando non si conclude una discussione è facile che si riproponga in modalità simili. «Ale, in quanto amante della tecnologia digitale non so se potrai mai arrivarci davvero, ma per me i pixel su uno schermo non contano niente. Un disegno al computer o una foto non stampata non hanno quel carico di realtà di cui è pregna la controparte materiale, tangibile. Qualcosa che non si rovina non ha valore, non è "vera". Quando guarderò il ritratto di Mattia e vedrò delle pieghe penserò sì a lui, ma anche a quella volta in cui ti ho salvato da una credenza. Queste sono cose importanti, sono i dettagli involontari a rendere perfetto ciò che ci circonda».

Si ferma e restiamo a fissarci, ancora scossi e con i nervi a fior di pelle. Dal modo in cui ha pronunciato quelle parole sembrava quasi riferirsi ad Agata.

Al posto di un crampo, un boato temporalesco riavvia la mia attenzione.

«Credo di doverci pensare su». E potrei concludere così, alzarmi e andare a preparare un piatto di pasta migliore di quello posato in tavola. Potrei regalare un sorriso finto a mia sorella e rimandare ancora la questione, crogiolandomi nella sofferenza. Invece la abbraccio. L'ultima volta che lo avevo fatto era stato proprio durante l'incidente di marzo. Lei sembra scossa, incredula, però dopo qualche attimo di esitazione ricambia e ne approfitta per togliermi la polvere dalla schiena.

Ho fatto trenta, a questo punto...

Stringo il contatto ancora più forte e mi preparo a creare una bufera anche in casa. «Senti, ti devo parlare di...» 

«Non ti preoccupare di Chiara», mi interrompe e travisa completamente l'argomento. Si stacca ma lascia le mani poggiate sulle mie spalle. «Prima non dovevo arrabbiarmi, ho capito che non è un momento facile per te».

Riesce a strapparmi un sorriso sincero. «Sei gentile, ma io intendevo Agata».



/* NOTA DELL'AUTORE:

Ragazze e ragazzi, mi scuso per l'estremo ritardo. Purtroppo il terzo anno di università ha colpito più duro del previsto, ma spero di riuscire a riequilibrare i ritmi quanto prima. Fatemi sapere se avete apprezzato questo capitolo abbastanza più lungo del normale oppure mandatemi qualche lettera minatoria, a vostra scelta!

Alla prossima ;)

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