1 ◌ Συμπόσιον by Πλάτων

Simposio, Platone

«Ma che puttanata!», esordii sbattendo la matita sul banco, rassegnata alle idiozie che mi stavano assillando negli ultimi giorni.

Non facevano altro che parlare di amore, amore e solo amore. E non perché era il periodo di San Valentino, ma perché sembrava che il programma di terzo anno si ricordasse solo ed esclusivamente di questo piccolo particolare nell'universo, tralasciando gli altri.

Nessuno pensa più, che ne so, al cibo?

«Book, taci», sentii una voce alle mie spalle che fu subito zittita dal professore e dal suo sguardo truce.

Continuavo a chiedermi come mai alle superiori andasse ancora di moda, nel
ventunesimo secolo, dare degli stupidi soprannomi ed etichette in giro per la scuola. Ero Book, soprannome storpiato dal mio nome Brooke e dal fatto che frequentassi praticamente solo corsi di letteratura avanzata, escludendo quelli standard.

«Per carità, Signorina Langdon, continui. Cosa c'è che la turba?»

Langdon.

Odiavo che mi chiamassero per cognome, giusto per sottolineare quanto, anche solo il mio nome all'anagrafe, fosse in modo esilarante collegato al mondo dei libri.

Beh, per chi non lo sapesse, Il Professor Langdon era il protagonista dei libri di Dan Brown. Come dicevo, esilarante.

Sospirai quando il professore mi rivolse uno sguardo appena simpatico, invitandomi ad alzarmi. Calò il silenzio in aula, colmato solo dallo strisciare della mia sedia sul pavimento così che potessi alzarmi.

«Che cosa sarebbe l'amore? Non facciamo altro che parlarne e parlarne. Cioccolatini a San Valentino, il ballo scolastico, l'importanza del re e della reginetta, i baci sotto al vischio di Natale. Si dà così tanta importanza a queste stupidaggini che non credo di volermi innamorare» borbottai realmente convinta delle mie parole.

Il professore si ricompose sul posto.

Decisi di risedermi e, lo stesso imbecille di prima, prese parola prima che il professore potesse fermarlo.

«Tranquilla, Book: nessuno si fidanzerebbe con una sfigata.»

«Direi la stessa cosa di te, segaiolo, però a Josie Austin piaci tanto», ghignai girandomi per guardarlo in volto, giusto per godermi la sua espressione sconvolta.

Soddisfatta, mi risistemai al mio posto solo per poter notare l'espressione infastidita del professor Kennedy, il quale, decise malamente di mandare in detenzione sia me che quell'idiota del mio compagno di classe quello stesso pomeriggio, alle quattro e mezzo.

Come se non bastasse, decise anche di assegnarmi il Simposio di Platone, da leggere durante le ore di punizione.

Ero perfettamente consapevole dell'argomento principale di quel libro ed ero seriamente tentata dal correre in presidenza con una qualche accusa diffamatoria su una qualsiasi persona, scelta a caso in corridoio, solo per evitare la lettura, ma dovetti rinunciare ai miei piani subdoli e accettare le conseguenze delle mie azioni impulsive.

Infatti, quel pomeriggio, mi ritrovai a leggere le parole di Socrate e Agatone nel famoso discorso ipotizzato da Platone, il quale metteva in bocca non sua le sue più oscure teorie sull'Eros.

In realtà, se fossi stata lì, nel bel mezzo di quel discorso acceso sulla natura dell'amore in sé per sé, non so cosa avrei potuto dire ma, sicuramente, sarebbe stato un pensiero contro quello dell'epoca. Inoltre, una donna che prende parola nell'Antica Grecia?

Neanche i miei viaggi mentali potrebbero raggiungere così tanta fantasia.

Lì erano felici proprio perché gli uomini consideravano alla propria altezza solo ed esclusivamente gli uomini: le donne facevano le finte tonte e si godevano la vita sole o con le loro amiche, senza che nessuno intralciasse la storia amorosa dell'altra.

«Sto per impazzire» borbottai dopo un'ora di lettura insistente, chiudendo il libro per concedermi una pausa mentale.

Il professor Philips, che era lì ad occuparsi della detenzione con il suo computer a volume bassissimo dove, palesemente, si ascoltava un documentario sui furetti, -lui sì che era il vero sfigato-,  si portò l'indice sulla bocca intimandomi a fare silenzio ed io lo guardai, inclinando la testa.

«Posso andare in bagno?»

«Sshhh!»

«Ok, alle macchinette?»

«Shh, Langdon!»

«Ma perché non si può parlare in detenzione? Ok, mi costringete a stare a scuola e non posso neanche parlare?» buttai lì, annoiata, chiudendo definitivamente il libro sul quale avevo perso ormai tutta l'attenzione concentrata precedentemente.

«Ok, Langdon, vai dove ti pare, drogati, vai a casa, ma sta' zitta!» sbottò il professore di geografia ed io, soddisfatta, presi il mio libro e il mio zaino ed uscii dall'aula, diretta alle macchinette.

Dopotutto non era così male stare a scuola fuori dall'orario scolastico.

C'era visibilmente meno gente, se non quasi nessuno, oltre la squadra di basket e sport vari, ragazzi con i corsi extracurricolari e, beh, quelli della detenzione.

Mentre camminavo verso la macchinetta, pensavo di essere realmente io il problema, io con la mia boccaccia larga e il mio essere perennemente chiacchierona, logorroica, impertinente. Forse dovevo solo imparare a dosare le parole, chi lo sa. E continuavo a camminare, pensando di dover cambiare degli aspetti di me per le relazioni con la gente, quando un ragazzo mi diede una forte spallata, superandomi, diretto alla macchinetta.

«Oh perd- ah no, sei solo Book» ghignò come se fosse soddisfatto della stupidaggine appena detta, ed io inarcai un sopracciglio, massaggiandomi la spalla mentre raggiungevo la macchinetta con il libro ancora stretto tra le mani.

Calum Hood era il ragazzo in questione.

Uno dei ragazzi più bravi nel basket che tutta l'Australia avesse mai potuto vedere, gay, tutto sommato oggettivamente carino ma, per compensare e rispettare ogni genere di cliché esistente e non, era anche un gran cazzone.

«Ma che simpatico, quante qualità Hood» sputai acida affiancandolo ed attendendo che prendesse la sua bottiglietta d'acqua.

La sua pelle ambrata era sudata e il sole del tramonto, che raggiungeva il corridoio dalle finestre della scuola, lo illuminava, risaltando i suoi muscoli.

Grugnii a quella vista.

Disgustoso pallone gonfiato.

«Oh, un libro, che novità Langdon» rise lui, strappandomelo dalle mani.

Alzai gli occhi al cielo e cercai di recuperarlo, ma lui lo alzò ed era umanamente impossibile raggiungere quell'altezza dato che, già di base, raggiungeva sicuramente i due metri.

Lo aprì, lo sfogliò, lesse le mie frasi sottolineate.

«Finalmente Zeus ebbe un'idea e disse: Credo di aver trovato il modo perché gli uomini possano continuare ad esistere rinunciando però, una volta diventati più deboli, alle loro insolenze. Adesso li taglierò in due uno per uno, e così si indeboliranno, e nel contempo, raddoppiando il loro numero, diventeranno più utili a noi; e cammineranno eretti su due gambe. Ma che diamine di frasi sottolinei?», borbottò lui lasciando cadere per terra il libro, il quale si aprì e, esattamente al centro di esso, si rivelò una pagina bianca.

Prima che potessi dargli dell'ignorante per la sua scarsa conoscenza del mito, ci guardammo interdetti: era impossibile che in un libro come quello ci fosse una pagina bianca a caso tra il racconto.

Mi dimenticai di aver pigiato il numero 47 delle macchinette per poter prendere il mio pacco di M&M's, solo perché la pagina aveva iniziato ad illuminarsi.

Una strana luce calda era emanata dalle vecchie pagine del libro dall'antica edizione, una luce che sempre più si espandeva e che sentivo entrarmi in corpo.

Avevo appena inserito la mano nella macchinetta per ritirare le mie M&M's quando non vidi più nulla.

————

Sorprendentemente sono tornata. Pensavo tipo di arrivare a 26 anni e pubblicare il primo capitolo ma, con l'aiuto della fantastica Beunsbeuns che mi ha anche gentilmente corretto la punteggiatura -perché faccio schifo- sono qui!
Spero che questa storia vi piaccia tanto quanto a me piace scriverla!

—Ilay

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