III -Un' altra chance

Sento il respiro accelerarmi, quasi divenendo un affanno, l'imbarazzo tingere ancor di più le mie guance rosee;
l'imbarazzo già, ma anche il rancore verso me stessa e la rabbia repressa verso di lui.

Odio questo ragazzo, odio ogni parte sua e del suo ego, odio i suoi modi e i suoi pensieri, e odio più di ogni altro la sua presenza;
nonostante ciò, non posso non chiedermi come, come è sopravvissuto al mio sterminio? come fa ad essere qui davanti a me su due gambe? come stanno gli altri?

'Gli altri' penso,

è da parecchio tempo che mi rifiuto di riferire loro, gli altri falsissimi membri della family, i miei pensieri, non che non ne abbia avuto tempo, anzi ne ho avuto anche troppo, semplicemente non l'ho fatto.
A dire il vero ora che ci penso non avevo mai riflettuto neanche riguardo il destino di Jorhel.

Mi stupisco del mio più che insolito menefreghismo, ero sempre la prima a preoccuparmi degli altri anche quando nessuno lo faceva per me, 'bhe, forse Elvis ti ha cambiata'
'Forse io sono cambiata', rispondo acidamente nel mio colloquio interiore.

Adoro parlare con me stessa, con le parole si risolve tutto, il dialogo è la chiave della convivenza, le discussioni le base della civiltà; anche se l'oggi è fatto solo di violenza ed è il numero di morti l'unico a contare qualcosa, io credo che, come per Dostoevskij la bellezza, le parole possano ancora salvare il mondo.

Parlare già, è quello che vorrei fare ora, ma Jorhel, quell'armadio di due metri che mi ritrovo davanti, ne sembra tuttaltro che intenzionato. Incute abbastanza timore, più dell'ultima volta che l'ho visto, questa volta non ho le pilloline magiche per scappare via della realtà.

Poggia sgraziatamente una mano sulla mia spalla destra, un brivido mi perquote, averlo vicino ora mi causa quasi ribrezzo.
Vorrei distruggere questo lancinante silenzio, ma non so davvero cosa dire, e prima che io possa ragionarci oltre, il mio animo trasparente mi tradisce, Jorhel pare leggere l'inquietudine nei miei occhi grandi, ancora troppo espressivi davanti a lui. Inizia a ridere, un odioso ghigno si piazza sulla sua faccia non bella quanto la ricordavo, stringe la mano che ha sulla mia spalla, ho paura che me la sgretoli, lui ne sarebbe capace.

Senza preoccuparsi di riprendere fiato inizia a parlare, cerco invano di seguire l'andamento della sua voce ma non ci riesco, mi ritrovo ancora una volta rapita e confusa da lui, nonostante lo odi, l'amore che ho provato osa ancora intorpidire i miei sensi in sua presenza, per fortuna riesco a carpire le ultime parole del suo discorso

-.. fossi capace-

Devo aver appena stretto gli occhi per capire a cosa facesse riferimento quell'ultima frase, siccome le mie orecchie pare si stiano scontrando nell'udire l'una una melodia eterea, memore dei vecchi tempi, e l'altra un frastuono annebbiato e sfuggente che funge da interferenza, come a segnare che non siamo più nel passato e che il presente è tutt'un'altra storia.

Continua a sorridere, deve aver detto qualcosa di cattivo, con quell' espressione in volto non può essere accaduto diversamente, il mio silenzio lo spinge a continuare:

-Che fai non rispondi?!
fai bene non era una domanda.-

riprende senza mai preoccuparsi di rimuovere quell'odioso ghigno, con tono tanto cattivo da diventare amaro

-Zitto.-

sibilo io, la voce mi esce con la forza di un urlo ed il volume di un sussurro tra il digrigno dei denti, non avrei mai creduto di poter essere così minacciosa.
Anche Jorhel se ne stupisce e si appresta a rispondermi

-Ti avevo sottovalutato-

'ho detto zitto verme!' penso, sta volta trattenendomi con un considerevole sforzo, iniziano a pizzicarmi le mani, quanto vorrei prenderlo a pugni...

-Eh va bene parlo io,-

Riprende lui con tono di finta rassegnazione, sono certa che non sia in grado di provare sentimenti così complessi, a malapena conosce quelli fondamentali, odio, rabbia, dolore, e forse Amore

-sono andato a trovare i miei amici sai, li hai ridotti malaccio alcuni, per un paio ti ringrazio, mi stavano sulle palle. Ma ora sarà difficile che ti rivogliano nella family...-

Non resisto, la voglia di picchiarlo a sangue ed atterrire una volta per tutti quel gigante stupido è troppa, scaravento dalla spalla il suo braccio con il mio, vorrei rompergli qualche dente con il sinistro ma lui mi blocca, senza mai distogliere lo sguardo l'uno dall'altro prendiamo a fissarci più intensamente in quel miscuglio di ghiaccio e tenebre, in cui le tenebre, ovviamente, sono sempre stata io.

-Io non ho bisogno dell'approvazione di nessuno, tantomeno di quella dei tuoi amici idioti e di te!-

Ringhio avvicinando il mio viso al suo, per dare maggior enfasi al concetto, o forse solo come riflesso involontario imposto dai nervi tratti ora più che mai, neanche il tempo di farmi respirare, che lui riprende a farsi beffa di me:

-Resti comunque un mostro,
cos'è volevi ucciderci tutti o morire solo te?!-

finisce di parlare col fiato mozzo. C'è ancora un briciolo di cattiveria in più in questa frase, è qualcosa che non riesco a reggere, che frantuma ancor di più le macerie che ho dentro.

Lo colpisco un ultima volta al ventre con un calcio sferrato dalla rabbia e non dai muscoli, per poi scaraventare il suo corpo con tutta la mia forza sull'uscio opposto della porta e correre verso l'uscita della stanza.

Mentre sto sbattendo la porta per chiudermi il passato alle spalle una volta per tutte, sento quella voce schermirmi e gridare:

-Tanto non ti volevo, e se non ti voglio Io non ti vuole nessuno!-

Non saprei dire se quella che ho appena udito suona da previsione o minaccia, so solo che voglio andarmene da qui, da lui, da me.


Sento Lucy scuotermi da sopra le lenzuola, il suo gesto cauto mi sveglia, lo fa con un insolito riguardo, come se non volesse turbarmi, come se gli importasse qualcosa di me, ma non devo illudermi, so che non è così, io per lei sono solo un compito.

Lucilla Tompeso è la mia mentore, una ragazza tunisina di ventun anni a cui sono stata affidata per agevolare la mia integrazione all'interno della comunità, e che mi farà da ombra per un periodo valente da un minimo di una settimana ad un massimo di un mese.
Lucy, così mi ha detto di chiamarla, è una delle ragazze del riformatorio qui dove sono, entrata diciassettenne per un reato minore che non ha voluto dirmi, avrò tempo per estorcerglielo vista quanta voglia ho di amalgamarmi a quest'ambiente, l'accoglienza è la sua prova del nove per poter dimostrare di non aver difficoltà a ricongiungersi con la realtà esterna alla comunità, il suo percorso, dice, è stato uno dei più brevi, e la cosa mi preoccupa molto dal momento che questa ragazza ha almeno vent'anni, quanto tempo dovrò passare reclusa in queste celle?

-Vuoi che ti porti la colazione?-
mi interrompe la sua voce eccessivamente gentile;

-Mi basta un thè nero.- rispondo assonnata io, falsamente servizievole

-Sicura? Ieri sera non hai nemmeno cenato- mi ribadisce lei

-Un thè nero andrà benissimo- rispondo imperterrita per non avere repliche.

Per rilassarmi aspetto che la mia balia, o mentore se vogliamo esser sottili, esca dalla camera bilocale dove io e lei abbiamo dormito, una sotto l'altra, in lettucci a castello dalle lenzuola scure, odio essere così dura, specialmente con chi sembra non meritarlo come Lucy, ma ora che sono arrivata qui devo sbrigarmi a imparare, altrimenti non durerò un solo giorno, ne sono certa.

Nell'atto di sgranchirmi le spalle e la schiena dopo una notte turbolenta, ripenso alle ultime 48 ore che mi anno portata qui...

Stavo scappando dal mio incubo peggiore dissipando brandelli di dignità per i corridogli del centro clinico, quando un uomo di almeno un paio metri mi placca come un portiere con un goal mancato, i gomiti all'altezza del seno e i polsi serrati tra le lunghe dita delle sue mani.

Continuai a singhiozzare per qualche secondo, o forse qualche minuto non me ne resi conto, evitando lo sguardo dello sconosciuto nonostante lui lo stesse ricercando in me, rendendomi totalmente preda dall'ansia e dall'inquietudine.

Nel momento in cui riuscii a recuperare un minimo di tranquillità, decisi di girarmi per guardare cosa o chi avessi alle spalle, preoccupata di essere inseguita dal mio stalker;
fui lieta di non accorgermi della presenza di Jorhel, tuttavia non potei fare a meno di notare che mi trovavo involontariamente in testa ad una piccola folla di infermieri particolarmente allarmati, realizai di colpo, come mi si fosse accesa una lampadina, di aver compiuto durante la fuga più strada di quanta ne avessi considerata, avendo così probabilmente scavalcato qualche reparto, cosa che poteva aver aizzato quelle persone al mio inseguimento.

Tornai a voltarmi, quasi automaticamente, dalla parte dell'uomo che mi aveva fermata, divenni paonazza ancor prima di scorgere il suo volto, difficilmente raggiungibile per via del dislivello d'altezza, non mi soffermai nemmeno a leggere il cartellino identificativo, cosa che in seguito realizzai mi sarebbe tornata molto utile almeno per venire a conoscenza della mia ubicazione, mi sotterrai mentalmente per la vergogna ed emisi sommessa

-Mi scusi, dove sono?-
sono certa di essere apparsa molto confusa e disorientata e posso confermare che lo ero alquanto, tra la paura di ritrovare il passato e quella di non ritrovare me stessa.

Nonostante avessi parlato e, seppur sommesso, il tono della mia voce era rimasto perfettamente udibile, lo sconosciuto non mi rispose ne mi guardò più, ma mantenne lo sgurdo fisso avanti, guadagnando un aspetto particolarmente burbero.

Fui staccata dalla presa di quel tizio da una giovane donna che mi parve di riconoscere, le fui immensamente grata, iniziava a spaventarmi anche lui. La ragazza mi chiese di calmarmi e mi ordinò di spiegargli cosa fosse successo, non fu facile fare nessuna delle due cose ma una volta allungato il fiato e asciugate grossolanamente le lacrime da viso e collo, intrapresi ad articolare in parole mozze cosa mi era successo.

Lei non parve capire, ma almeno non mi aveva presa per pazza, conclusione cui era facile giungere date le non-spiegazioni che avevo fornito, mi invitò a restarle accanto se avessi avuto paura che quel "Gioele" tornasse, io obbedii alla lettera, fosse ricomparso il mostro sarei stata coperta dall'infermiera, ma fortunatamente non si fece più vivo.

Era ormai quasi mezzodì, di li a poco avrei preso il primo treno per poi fare altri due cambi, nonostante la paura che scappassi, nessuno mi accompagnò, probabilmente si resero conto che nemmeno la sottoscritta avrebbe saputo dove rifugiarsi per l'ennesima volta.

L'arrivo alla stazione ed il tragitto della prima giornata di viaggio furono piuttosto piatti entrambi e ben poco degni di essere ricordati.

Mi sentii uno zombie in mezzo ad altri zombie, tutti uguali e tutti vuoti,
nessuno si preoccupò mai di guardare dove stesse andando, forse perché conoscevano a memoria già tutti le proprie destinazioni, o forse perché di destinazioni non ne avevano affatto,
svolgevano le proprie azioni meccanicamente, nulla distingueva tutte quelle persone dall'essere macchine.

Per la maggior parte del viaggio stetti ad osservare il comportamento di quelli che avevo in torno, conclusi che in tutta la mia vita non mi era mai capitato di vedere così tanta gente tutta insieme che non va da nessuna parte; l'imbarco per il battello fino al nuovo stato procedette di conseguenza, rischiando di addormentarmi di fronte all'ora e mezza di fila cui ero costetta per i controlli.

Trascorsi la mia insonne notte distesa sul pavimento e coccolata dalle onde, stranamente mi sentii a casa, ho un atipico amore per il parquet, mi ricorda le mia cameretta di quando ero piccola, prima dei problemi e delle scuole, prima di tutto e tutti, quando c'eravamo solo io e quel caldo parquet smangiucchiato dalle tarme, che nulla poteva in confronto a quello lussuoso della nave dove ero coricata, tranquilli e felici.

Se l'imbarco fu tediante lo sbarco ci si avvicinò parecchio, ai confini dell'isola fui scannerizzata con tutti quei detector almeno dieci volte, prima che si rendessero conto che non avevo nulla da contrabbandare; approfittai della mezz'ora di tempo che avevo prima che mi venissero a prendere con non so quale mezzo verso la prigione minorile, exo riformatorio, per prendermi una veneziana integrale e girellare per i negozi della città in cui mi trovavo, anche se non avevo la più pallida idea di quale fosse.

Un vestitino ampio e smanicato bordeaux ed un paio di parigine nere dopo, che indossai immediatamente, mi vidi venire incontro una Opel grigio metallizzato con i finestrini oscurati

'Questa scuola è ricca' pensai,

il finestrino del passeggero si abbassò prima che potessi sperimentare altre congetture, lasciando intravedere una bellissima donna che ricordava molto Nicole Kidman ne 'La bussola d'oro', ricordo che questa non chiese nemmeno in mio nome, mi squadrò ed aprì il portellone:

'Cos'è ho la faccia da delinquente?'.

Probabilmente fu l'atmosfera cupa o la stanchezza accumulata durante la notte, ma dopo pochi minuti sul retro di quell'auto mi addormantai come una bambina.

Fui svegliata di soprassalto da un suono brusco, quando mi trovai davanti un giovane ragazzo di colore in smoking con un buffo cappellino, realizzai che si trattava del rumore del portellone che si apriva e che quello dinnanzi a me doveva essere l'autista che lungo il tragitto aveva accompagnato me e la donna, un po' imbarazzata per la sorpresa mi limitai a chiedere se avessimo raggiunto la destinazione, il ragazzo, con una voce più impostata di quanto in realtà non fosse, rispose:

- No signorina Moriarti, sono le 14:00 ci fermiamo per il pranzo.-

- grazie -

dissi io un po' più impacciata scendendo dalla macchina.

Miss. Antropolis la preside della scuola, questo mi disse di essere, durante il pranzo in un prestigioso ristorante marittimo, si dimostrò molto più disponibile di quanto mi fosse apparsa a primo impatto.
Ovviamente conosceva già ogni minimo dettaglio della mia vita quindi ci risparmiammo un'ingrata conversazione al riguardo, ella invece si soffermò nel descrivere alcuni aspetti dell'istituto che mi avrebbe ospitato:

- I requisiti minimi per frequentare l'accademia sono: l'età, che va dai sedici ai vent'anni, ...-

-... un passato criminale- farfugliai io,

l'Antropolis mi fermò seria, quasi mi inquietò quel suo irrigidirsi inaspettato, prese fiato ed abbassò le spalle ricordandomi mia madre, poi continuò distante:

- Un passato difficile.-.

Oltre a ciò, la donna mi raccontò che vi erano svariati corsi a cui accedere secondo necessità o gusto per un numero minimo di due al giorno, di modo che non stessimo a ciondolare o litigare per i corridoi tutto il tempo, mi parlò del modo graduale in cui sarebbe avvenuta la mia integrazione, per agevolarmi ed evitare conflitti, grazie alla presenza di Lucilla. Alle 15:30 spaccate il ragazzo con il capello buffo ci venne a richiamare.

Consumai il resto del viaggio, ben più duraturo di quello in mattinata, a congetturare ed inerpicarmi riguardo divieti e obblighi che mi imposi di seguire all'interno del manicomio, ehm... istituto, fino all'arrivo che avvenne verso sera. Nonostante il sole fosse tramontato, la luce resisteva a causa della stagione di Giugno, allora ebbi difronte una visione magnifica, una costruzione gigantesca di cui potevo intavedere dall'auto solo una minuscola parte che non rendeva affatto giustizia a quell'architettura maestosa:
un modernissimo edificio che raddoppia in dimensioni uno stadio, articolato su più piani (difficile definire il numero preciso) disposti a cubo e degeometrizzati dalle strutture rettangolari di base, interamente rivestito da lastre biancastre alternate ad enormi finestre in corrispondenza delle aule, ed un curatissimo spazio verde alla base che circonda il tutto con un'armonia indescrivibile, sul quale rifletteva la luce facendo apparire verdastri i vetri delle finestre.

'Che meraviglia!' pensai.

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